Lavori partiti nel 2004, progettati da
Domenico Policarpo e condotti sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza ai Beni culturali, che nel sottosuolo ha
pure scoperto un importante edificio di epoca chiaromontana, con archi e decorazioni. Il finanziamento europeo di
otto milioni di euro è frutto dell’inserimento del progetto nel Piano integrato territoriale (Pit) coordinato dal Comune
di Palermo.
All’avvio del cantiere di restauro, che si chiuderà nel 2007, i graffiti e i dipinti conosciuti erano quelli del primo
piano, scoperti fortuitamente agli inizi del Novecento durante i lavori di adattamento dell’edificio a sede del
Tribunale. Il grande studioso delle tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, venuto a conoscenza del ritrovamento, passò
notti intere a scrostare l’intonaco con strumenti di fortuna, implorando le autorità del tempo di rinunciare al progetto
preservando quelli che definì “commoventi palinsesti del carcere”. Non fu ascoltato: diverse pareti vennero demolite
o, nel migliore dei casi, ricoperte da scaffali. Ma dietro gli scaffali, fortunatamente, i dipinti sopravvissero, seppure
danneggiati.
Dopo la seconda guerra mondiale, un bizzarro rigattiere, don Totò, prese possesso dell’edificio dichiarando di avere
avuto l’autorizzazione dall’ufficiale americano Charles Poletti e accumulandovi tonnellate di ogni sorta di oggetti (ci
sono voluti ventiquattro tir per portarli via nel 2002, alla sua morte). Tutto mentre personaggi come Leonardo
Sciascia, autore di “Morte dell’Inquisitore”, si intrufolavano tra le mura cadenti per osservare le testimonianze dei
prigionieri, che rischiarono negli anni Settanta di scomparire insieme con l’intero edificio. Il carcere si salvò, insieme
con i suoi dolorosi tesori, e fu infine acquisito dall’Università: i graffiti e i dipinti “storici”, però, al momento non
sono visibili, perché sottoposti a un intervento di preconsolidamento con garze e sostanze fissative.
Ma le sorprese sono arrivate nelle celle del pianterreno, dove i progettisti avevano commissionato una serie di saggi
esplorativi. Di particolare importanza i dipinti scoperti sulla parete della prima cella, firmati da tre diversi carcerati:
la più grande, a firma di Francesco Mannarino, rappresenta una battaglia navale, probabilmente quella di Lepanto
che il 7 ottobre 1571 vide scontrarsi le forze della cristianità contro i musulmani. Significativa la storia di
Mannarino, vittima di opposti fanatismi, un poveraccio rapito dai barbareschi, costretto a convertirsi all’Islam e per
questo catturato al suo ritorno in patria dagli zelanti paladini dell’ortodossia cristiana, intenzionati a farlo abiurare
per la seconda volta. Accanto, le scritte dotte di Paolo Majorana, un anticlericale habitué delle segrete. Un "Santo
diavolo" scandito ad alta voce lo ricondusse in cella, dove disegnò un Purgatorio per tutti e, scottato dai delatori, un
Inferno solo per i traditori. Paolo Confaloni, invece, si dedicò ai santi: a sua firma un Sant'Andrea con la croce, una
Maddalena con l’ampolla degli oli usati per ungere il corpo di Cristo, l'angelo in un angolo e San Sebastiano in un
altro. Nella stanza successiva mette i brividi l’implorazione, questa volta anonima, di un prigioniero malato di febbre
malarica che teme di sentire suonare la campanella, segno dell’arrivo degli inquisitori per nuovi interrogatori. Di
Micheli Murrichinu i versi più strazianti, due canzoni dedicate a Gesù Cristo in cui descrive la sua aspirazione al perdono
divino.
Nel pool di ricercatori che ha condotto le ricerche documentali sul carcere c’è Laura Sciascia, figlia dello scrittore,
insieme con Maria Giuffrè, Elena Pezzini e Paola Scibilia.
Piazza Marina 61, Palermo