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CARCERE DEI PENITENZIATI

Nelle celle dell’Inquisizione
le ultime voci dei prigionieri


E’ il carcere segreto dell’Inquisizione, la prigione buia dove per due secoli, dal 1601 al 1782, gli uomini inviati in Sicilia da Torquemada interrogarono e torturarono innocenti in nome di Dio. Per loro i prigionieri erano eretici, bestemmiatori, fattucchiere, amici del demonio. In realtà molti erano artisti, intellettuali scomodi, avversari dell’ortodossia politica e religiosa: umanità annichilita che ha lasciato sulle pareti delle celle graffiti, disegni, poesie, invocazioni,
una testimonianza unica al mondo che è insieme opera d’arte e atto d’accusa verso le ingiustizie del potere.
A essere aperto eccezionalmente alle visite è il cantiere di restauro del pianterreno con le nuove scoperte, dove gli esperti da un anno a questa parte vivono emozioni mozzafiato: sulle pareti, di giorno in giorno, vengono fuori nuovi straordinari dipinti e graffiti, sepolti sotto l’intonaco da secoli. Per la prima volta si tratta di testimonianze firmate e datate, che consentono di ricostruire l’identità e la storia dei prigionieri.
Scoperte avvenute nel corso dei lavori di recupero dell’intero edificio carcerario, costruito nel 1601 dall’ingegnere del Regno Diego Sanchez e destinato oggi a diventare il Museo dell’Inquisizione.

Lavori partiti nel 2004, progettati da Domenico Policarpo e condotti sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza ai Beni culturali, che nel sottosuolo ha pure scoperto un importante edificio di epoca chiaromontana, con archi e decorazioni. Il finanziamento europeo di otto milioni di euro è frutto dell’inserimento del progetto nel Piano integrato territoriale (Pit) coordinato dal Comune di Palermo.
All’avvio del cantiere di restauro, che si chiuderà nel 2007, i graffiti e i dipinti conosciuti erano quelli del primo piano, scoperti fortuitamente agli inizi del Novecento durante i lavori di adattamento dell’edificio a sede del Tribunale. Il grande studioso delle tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, venuto a conoscenza del ritrovamento, passò notti intere a scrostare l’intonaco con strumenti di fortuna, implorando le autorità del tempo di rinunciare al progetto preservando quelli che definì “commoventi palinsesti del carcere”. Non fu ascoltato: diverse pareti vennero demolite o, nel migliore dei casi, ricoperte da scaffali. Ma dietro gli scaffali, fortunatamente, i dipinti sopravvissero, seppure danneggiati.
Dopo la seconda guerra mondiale, un bizzarro rigattiere, don Totò, prese possesso dell’edificio dichiarando di avere avuto l’autorizzazione dall’ufficiale americano Charles Poletti e accumulandovi tonnellate di ogni sorta di oggetti (ci sono voluti ventiquattro tir per portarli via nel 2002, alla sua morte). Tutto mentre personaggi come Leonardo Sciascia, autore di “Morte dell’Inquisitore”, si intrufolavano tra le mura cadenti per osservare le testimonianze dei prigionieri, che rischiarono negli anni Settanta di scomparire insieme con l’intero edificio. Il carcere si salvò, insieme con i suoi dolorosi tesori, e fu infine acquisito dall’Università: i graffiti e i dipinti “storici”, però, al momento non sono visibili, perché sottoposti a un intervento di preconsolidamento con garze e sostanze fissative. Ma le sorprese sono arrivate nelle celle del pianterreno, dove i progettisti avevano commissionato una serie di saggi esplorativi. Di particolare importanza i dipinti scoperti sulla parete della prima cella, firmati da tre diversi carcerati: la più grande, a firma di Francesco Mannarino, rappresenta una battaglia navale, probabilmente quella di Lepanto che il 7 ottobre 1571 vide scontrarsi le forze della cristianità contro i musulmani. Significativa la storia di Mannarino, vittima di opposti fanatismi, un poveraccio rapito dai barbareschi, costretto a convertirsi all’Islam e per questo catturato al suo ritorno in patria dagli zelanti paladini dell’ortodossia cristiana, intenzionati a farlo abiurare per la seconda volta. Accanto, le scritte dotte di Paolo Majorana, un anticlericale habitué delle segrete. Un "Santo diavolo" scandito ad alta voce lo ricondusse in cella, dove disegnò un Purgatorio per tutti e, scottato dai delatori, un Inferno solo per i traditori. Paolo Confaloni, invece, si dedicò ai santi: a sua firma un Sant'Andrea con la croce, una Maddalena con l’ampolla degli oli usati per ungere il corpo di Cristo, l'angelo in un angolo e San Sebastiano in un altro. Nella stanza successiva mette i brividi l’implorazione, questa volta anonima, di un prigioniero malato di febbre malarica che teme di sentire suonare la campanella, segno dell’arrivo degli inquisitori per nuovi interrogatori. Di Micheli Murrichinu i versi più strazianti, due canzoni dedicate a Gesù Cristo in cui descrive la sua aspirazione al perdono divino. Nel pool di ricercatori che ha condotto le ricerche documentali sul carcere c’è Laura Sciascia, figlia dello scrittore, insieme con Maria Giuffrè, Elena Pezzini e Paola Scibilia.


Piazza Marina 61, Palermo