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CHIESA DI SANT'ANTONIO ABATE
Il gioiello gotico
dedicato al monaco dei Crociati
La storia della chiesa di Sant’Antonio Abate, all’interno dello Steri, è legata a doppio filo alle vicende dei Chiaromonte, la potente famiglia di feudatari siciliani che a metà del Trecento impose il suo dominio su gran parte dell’Isola, amministrandola in nome della regina Maria d’Aragona. Fu Manfredi I a volere la costruzione della chiesetta, proprio a fianco dello Steri, ed essa fu confiscata con tutto il palazzo non appena tramontò l’astro del casato, reo di avere vagheggiato una dominazione autonoma dal potere regio. La decapitazione di Andrea Chiaromonte, ultimo signore di Palermo, avvenuta il 1° giugno del 1392 in piazza Marina, segnò infatti l’inizio, da parte della monarchia aragonese, di una complessa manovra di censura di tutto quanto potesse ricordare le grandi famiglie di feudatari che avevano retto la Sicilia negli anni del vicariato. A cominciare proprio dallo Steri. Manfredi aveva voluto dedicare la chiesetta a Sant’Antonio Abate, fondatore del monachesimo orientale, cui erano devoti i Crociati di ritorno dai luoghi santi. A poche decine di passi dalla chiesa vi era anche l’Ufficio della Santa Crociata. Ma la ragione della fondazione fu probabilmente un ex voto per vicende familiari: la scelta di Antonio Abate, santo guaritore, patrono degli ospedali, costituisce una precisa indicazione in questo senso. Ne è una conferma il fatto che la celebrazione della festa del santo, il 17 gennaio, ricorre ogni anno |
tra le spese di manutenzione del
palazzo, il che fa pensare a una clausola stabilita all’atto della fondazione della cappella.
“Semplice e al tempo stesso elegante - a dire dello studioso Ettore Gabrici - di una severità di forme e d’una precisione
di tecniche mirabile, si modella a originali gotici per proporzioni della pianta, di porte e finestre”. I signori
dello Steri e i pochi dignitari ammessi assistevano qui alle funzioni, accedendo da un corridoio non più esistente.
Tutto avveniva in un clima estremamente riservato.
Il prospetto principale è caratterizzato da un ingresso con arco a sesto acuto, decorato con un fine rilievo marmoreo,
con un motivo di foglie di acanto e grappoli, che segue l’andamento dell’arco. Tre eleganti cornicette corrono lungo il
perimetro dell’edificio, scandendolo nettamente. Sull’architrave un medaglione con Sant’Antonio Abate fiancheggiato
da due angeli, due stemmi chiaromontani e due serafini.
Ai lati dell’ingresso, due finestre uguali di pietra, sormontate dalle armi chiaromontane. Sotto quella di destra, è
incisa in lettere gotiche la dicitura: “Spiritus immundus quo vincitur et caro vincit”; in quella di sinistra si può leggere
invece: “Hoc sacer Antoni cor cape parte boni”. Si tratta di due versi leonini, nel primo dei quali si evidenzia il
concetto della tentazione dello spirito del male sulla carne; il secondo, invece, è la sintesi dell’iscrizione funeraria sull’urna
marmorea di Manfredi II che si trovava nella chiesa di San Nicolò alla Kalsa, demolita nel 1823.
Le vetrate erano colorate, alla maniera araba. Il piccolo campanile, di pietra e mattoni, conserva ancora la decorazione
di scodelle ispano-moresche del tipo impiegato nel campanile di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Alcune
sono state sottratte allo scempio che nei secoli ne è stato fatto e sono conservate al Museo archeologico Salinas di
Palermo. L’interno è a unica navata, con abside e due crocierine i cui costoloni poggiano su gruppi di colonne addossate
alle pareti. Le finestre del lato scoperto sono tagliate nella parte interna a cinque lobi, a mo’ di imitazione dello
stemma chiaromontano, e hanno agli spigoli colonnine sottili.
Dopo l’uccisione nella piazza antistante di Manfredi III Chiaromonte, la chiesa passò sotto il patronato regio, insieme
con la chiesa della Santissima Trinità che era nella parte superiore del palazzo, e presto fu affidata ai frati domenicani
che andavano così consolidando il loro potere in città. In particolare, re Giovanni nel 1477 decise di concederne i
benefici al domenicano fra’ Michele Majale.
La costruzione ha subito rinnovamenti nel corso dei secoli ed è stata spogliata del suo originario apparato decorativo,
composto da alcuni quadri. Dai pochi elementi notarili emerge un contratto con il maestro marmorario Antonio
Vanello, che ai primi del Cinquecento scolpì un fonte battesimale di marmo, collocato nella cappella “undi va a
missa lu illustri signori viceré cu la illustrissima mugliera”.
La chiesa, soggetta al Cappellano maggiore della Sicilia, fu successivamente inglobata nell’area di pertinenza della
Dogana. Oggi sconsacrata, è perfettamente integra nella struttura ed è un piccolo gioiello di arte gotica. Di solito
chiusa al pubblico, apre straordinariamente le porte per mostrare la sua severità di linee e le sua mirabile purezza
architettonica. Piazza Marina 61, Palermo |