Racconti


 Un falco per Teodorico

Il re Goto s'affacciò dalla terrazza del suo castello e si perse ad ammirare il chiaro baluginare dell'acqua che scorreva ai suoi piedi. In fondo, sotto la collina che dominava Verona, brillava l'Adige. La vecchia colonia romana, ormai un ricordo dell'antica gloria, era come rannicchiata nell'ansa del suo fiume, rosa di marmi ormai abbandonati al destino del tempo. Sembrava che volesse rendersi estranea al suo nuovo re, non ne riconosceva l'autorità, anche se la subiva, così come aveva subito ben altre e più devastanti invasioni. Teodorico ogni volta si stupiva di questo rifiuto, in fondo era Goto solo di nascita, ma la sua educazione, la cultura erano greco - romane. Si sarebbe aspettato d'essere riconosciuto come l'erede di Roma, non come il barbaro sceso fin lì, seguendo il fiume, verde come l'erba delle sue rive. Aver superato le rocce strette e scoscese della chiusa, che proteggeva a nord la città, lo annoverava tra gli invasori. Ma la vita è questa, sembrare come non siamo, o viceversa. Si riscosse, scendeva velocemente la sera ed era ormai giunto il momento di muoversi. Teodorico si ritrasse dalla vista della città e rientrò nel castello arroccato sul Colle detto di San Pietro: cominciava la sua avventura. In breve dalla porta nascosta sul retro dell'edificio comparvero due uomini male in arnese, uno era mingherlino e bruno, un latino all'apparenza, l'altro celava a stento i capelli lunghi, in cui ancora brillava l'oro dei dominatori. Nonostante le vesti brune, piuttosto dimesse, non si poteva evitare di ravvisare in questo secondo personaggio l'alta statura e le gambe arcuate, dovute alle lunghe cavalcate vittoriose, del re Goto. "Signore, dobbiamo muoverci con circospezione, se i tuoi fidi sapessero che tu, ariano, vai dal santo eremita della Spelonca, uomo fedele in tutto e per tutto al Papa, non ne sarebbero contenti." "Non crucciarti, Caio, nessuno ci vedrà, ma non posso evitare di compiere questa visita, lo sai bene. Sono giorni che mi tormento e non credo sia possibile continuare per molto." Caio scosse la testa, conosceva ed amava il suo signore, ma proprio per questo ne temeva a volte i colpi di testa. Vivere alla corte di Bisanzio l'aveva reso politico sopraffino, ma spesso la magia barbara lo riprendeva ed allora non servivano parole sagge, ma solo preghiere a Dio che lo proteggesse nel pericolo. Caio, latino fin nell'anima, e devoto della Roma di Pietro, temeva il Diavolo e i suoi artigli. Ma quello che lo spaventava maggiormente, anche se non osava confidarlo a nessuno, erano i reconditi segreti che si celavano nel misterioso animo di questi barbari. Era come se le nebbie da cui uscivano fossero popolate di mostri che la ragione di Roma non sarebbe mai stata capace di creare, troppo astrusi, troppo fantastici, troppo…barbari, appunto. "Credi che l'Eremita ci ascolterà?" "Non te lo garantisco, signore. Conoscono tutti il ruvido carattere di quel sant'uomo e bisogna che una voce gli parli dentro e che glielo suggerisca. Che devo dirti, speriamo." Lungo la via ducale, che dal castello scendeva fino al limitare del fiume, costeggiando le scoscese pareti tufacee del colle, si aprivano delle profonde grotte, dove uomini santi si rifugiavano nel silenzio, lontano dalle rive brulicanti di vita e di commerci. I due viandanti giunsero all'imboccatura di una di quelle grotte, la più piccola, quella situata più in alto delle altre, più staccata e lontana. "Anselmo, possiamo entrare?" chiese Teodorico, a voce bassa, timoroso di interrompere forse un momento solenne. Dal fondo della grotta si udì una flebile voce che invitò gli ospiti a varcare la soglia. All'interno un piccolo fuoco scaldava a stento la Spelonca: "Ti aspettavo, re, vedi." Infatti, pareva proprio che i visitatori fossero attesi, sul ripiano di roccia che fungeva da tavolo l'Eremita aveva messo un pane raffermo, tagliato in tre pezzi, ed un secchio ammaccato pieno d'acqua, da cui spuntava il manico di un mestolo con cui bere. "Cosa ti porta fin qui, dalle stanze dorate del tuo regno?" il sant'uomo non perse tempo e Teodorico, accoccolandosi a pochi passi dal fuoco, emise un lungo sospiro. Se non avesse conosciuto il suo coraggio, Caio avrebbe detto che aveva paura. Poi parlò: "Il sogno mi tormenta e mi impedisce di dormire tranquillamente. Sogno il fuoco, tanto fuoco, troppo per essere un falò e nemmeno uno dei grandi incendi che porta la guerra quando distrugge." "Ne hai visti tanti di questi, non è vero, per questo non ti spaventano? - lo interruppe Anselmo, sorridendo, poi tornò serio. - Sapevo dei tuoi tormenti, ho chi mi parla. Resta con me questa sera e vedremo di sciogliere ogni tuo dubbio." Caio tentò di protestare, non intendeva lasciare solo il suo re fuori dalle mura amiche del castello, ma non fu possibile imporre la sua volontà a Teodorico: un cenno inequivocabile, e fu costretto ad andarsene. Non si voltò nemmeno, e l'istinto glielo suggeriva, gli ordini del re non si discutevano, anche se si era il suo più ascoltato confidente. Nella Spelonca era sceso il silenzio, il tempo stesso pareva immobile. Poi, un improvviso frullare d'ali interruppe il silenzio, un falco bruno e grigio entrò e si diresse su un trespolo nell'ombra. "Benvenuto, ti aspettavo." Lo salutò l'Eremita, accarezzando la testa del rapace. "Chirrp." Un suono rauco e secco lo ricambiò. Teodorico capì di essere sul punto di vivere un'esperienza misteriosa, non sapeva perché, ma sentiva che una risposta alle sue paure era entrata nella Spelonca insieme con la bestiola. "Tranquillizzati, re, ora puoi dormire. Il falco conosce molti segreti, vola nel vento e ascolta le parole del mondo. Quando rientra mi racconta cosa ha udito, le cose buone e le cattive, quelle reali e quelle, appunto, sognate. Dormi, re, il falco saprà dove volare." Teodorico guardò nella direzione del rapace e scoprì che anche il falco lo osservava con attenzione: aveva piccoli occhi neri e penetranti e lo fissava con un'intensità dolorosa. "Sembra che sappia perché sono venuto da te?" "Certo, mi aveva già narrato dei tuoi affanni. La notte ha un respiro leggero e gli incubi, così come le premonizioni, appannano la sua leggerezza, non è possibile non accorgersene. Ho pregato perché chiedessi il mio aiuto." Il mondo fuori era lontano, il buio, sceso velocemente, aveva sigillato l'entrata della caverna, isolandola dalla realtà esterna. Il re sentiva che un caldo torpore gli invadeva le membra e cadde in un sonno profondo. Quanto dormì, non avrebbe saputo, certo che anche quella notte era il fuoco il suo grande compagno del sogno, un fuoco che lo bruciava e l'impauriva come mai era successo. "Svegliati, re - sentì una mano che lo scrollava, aprì gli occhi e vide chino su di lui il volto scavato del santo Eremita, che l'osservava ansioso. - ho le risposte che chiedevi." Teodorico si stropicciò gli occhi, ancora velati dal sonno e sentì scorrere lungo la schiena un sudore freddo, segno di un imminente presagio di sventura. "Parla, ti ascolto." "Solo Falco poteva raggiungere la profondità del tuo sogno, un vento contrario lo sospingeva indietro, ma è riuscito a superare ogni ostacolo. Ha volato fino all'origine della coscienza degli uomini, dove si fondono tutti i pensieri e le consapevolezze del mondo e…." "Continua." Sospirò mesto il re, a capo chino, consapevole di quanto stavano per rivelargli. "…e ha visto che il tuo orgoglio è forte, troppo, più del tuo cuore….un vulcano sarà per te la giusta fine dei giorni." Teodorico si alzò, con fare regale, certo del suo destino, pronto ad accettarlo come conviene ad un re.
L'Etna l'attendeva.

Giuliana Borghesani






I racconti del concorso letterario "I cantastorie del 2002: i nuovi bardi"























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