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Filosofia e mistero
Ripercorrendo la storia della filosofia fin dalle sue origini, si può
intuire quanto profondamente umano sia ciò che chiamiamo "mistero".
Riscoprire l'umanità del mistero in una prospettiva filosofica: questo
è il compito di questa riflessione. Essa prende avvio dalla serie
di conferenze organizzate nel nostro paese dal titolo "sulle tracce del mistero"
e che chi scrive ha contribuito a realizzare constatando in molti l'emergere
di un'inquietudine spesso frettolosamente ricacciata dentro i meandri della
psiche, talvolta lasciata dominare, quasi diventare modo di vita. Chiunque
venga a conoscenza di qualcosa di "misterioso" avverte quell'inquietudine
che è nel SOSPETTO di una presenza; una presenza sospettata perché
autrice di segni sensibili, ma occulta. Che il fantasma passa attraverso
il muro significa: non c'è luogo dove avere le spalle al muro, le
spalle sicure. Non si aspetta l'alieno, lo si sospetta. Perché temerne
la presenza se non lo si conosce? Eppure quest'occultarsi c'inquieta. Perché
in compagnia degli altri uomini e alla luce del sole, quando il fenomeno
misterioso ci pare che non possa avvenire, quando non temiamo che qualcuno,
non visto, ci piombi alle spalle o soltanto appoggi la sua mano aliena sulla
nostra clavicola, allora non sospettiamo più, non temiamo più:
indaghiamo. E di notte, soli nel bosco fitto, che ogni scricchiolio ci fa
voltare e scrutare le tenebre. Ci sembra di avvertire una presenza, una COSCIENZA
occulta, un QUALCUNO sempre nascosto, sempre annidato dietro la schiena,
OLTRE il mondo a noi evidente. Di più, quella mano gelida che temiamo
ci sfiori la spalla può catturarci al suo mondo per noi inspiegabile,
gettarci nel suo nonsenso, costringerci a vivere nella tenebrosa certezza
della sua inesprimibile esistenza. Gli antichi greci, che riconoscevano nell'inesprimibile
che isola impedendo la comunicazione l'origine di ogni angoscia umana e perciò
lo rifuggivano, dicevano: MUSTERION. Questa parola da cui deriva la nostra
"mistero" proviene dal Verbo MUO, che significa "mi chiudo". Evidentemente:
misterioso è ciò che si cela, lascia fuori da sé, non
si fa vedere. Ma andare all'origine di questa parola ci mette sulla strada
che vogliamo percorrere, perché si pone in una interessante relazione
con la parola che in greco significa "verità", ALETHEIA, ovvero "ciò
che esce dal nascondimento", "ciò che si svela, si apre".
Il filosofo, si sa, fin dalla Grecia antica è il ricercatore della
verità. La verità come vello d'oro del filosofoargonauta, risplende,
viene fuori da sé per chi trova la strada giusta, è autoevidente,
sta all'aperto. L'aprirsi, il chiudersi: fin dall'inizio della storia del
pensiero occidentale filosofia e mistero sono dunque legate da un singolare
rapporto dialettico. Dicevamo, ciò che si chiude, ovvero l'inspiegabile,
l'indicibile è fonte di angoscia, di sospetto; d'altra parte la filosofia
si propone la felicità dell'uomo. E come la si potrebbe trovare altrove
che in ciò che risplende e VIENE ALLA LUCE, appunto, per definizione,
la verità?
L' aprirsi e il chiudersi non sono forse quei moti dell'anima, del cuore
dell'uomo che sperimenta una felicità o un'angoscia? Non è
forse seme di felicità il potersi esprimere, il trovare le parole,
il modo di raccontarsi, e fonte d'angoscia quel "tenere tutto dentro" che
è impotenza a dire, a comunicare?
Ecco il punto: il senso del mistero è in ciò che l'uomo non
può dire, ovvero: in ciò che in lui non perviene al linguaggio.
Questo significa anche ciò che in lui non giunge nemmeno al pensiero,
in quanto esso è IN PRIMIS linguaggio. Ma ciò che non perviene
al linguaggio è
ELEMENTO.
Per spiegare questa ultima affermazione introduciamo un esempio un po' rozzo,
ma, crediamo, efficace. Immaginiamo un pesce dei fondali marini la cui vita
è solo nell'acqua profonda. Immaginiamo che in un suo linguaggio possa
dare un nome a ciò che vede o sente. All'acqua, darà un nome?
Dare un nome significa definire. Definire un gruppo di cose con identiche
caratteristiche da altre con caratteristiche differenti. Ora l'acqua è
TUTTO il mondo del pesce dei fondali marini: esso non conosce l'aria o qualcos'altro
che inizi dove finisce l'acqua. L'acqua per lui non ha fine. Perciò
non può darle un nome. Anzi l'acqua è ciò stesso che
gli PERMETTE Dl ESISTERE, di dare un nome a tutte le cose. In questo senso
l'acqua è per lui elemento. Elemento è ciò che permette
l'esistenza, ciò in cui è "immerso" l'esistente. Perciò
è l'indicibile per eccellenza.
Forse, allora, riumanizzare il mistero non significa affatto tentarne la
spiegazione, ma ripensarlo elemento. Il filosofo ha il compito di trovare
la parola giusta, il linguaggio vero. Ma, dicevamo, l'esistenza, proprio
nel farsi pensiero, linguaggio, proprio nell'essere orientata alla parola,
ha allora per elemento quell'indicibile che chiamavamo mistero. È
nell'esistenza dell'uomo che filosofia e mistero, mondi lontanissimi e vicinissimi,
acquistano senso. Chi può dire cos'è quell'elemento in cui
si accende, avviene, la coscienza ovvero l'esistenza dell'uomo? Questo è
il vero problema che, al di là di ogni sospetto, ci pone l'esperienza
del mistero.
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