Tra due mari
di Carmine Abate

Carmine Abate
Tra due mari
Mondadori, 2002 - Euro 14, 60


La Stampa - Tuttolibri 
2 marzo 2002

Tra due mari, Abate restaura la locanda di Dumas
di Sergio Pent

I precedenti romanzi di Carmine Abate, Il ballo tondo e La moto di Scanderberg , si caratterizzavano per la forte, emotivamente ricca componente etnica accompagnata al gusto intenso - metabolizzato - di una ispirazione poetica commossa, naturale. Le radici «arberesh» dell´autore diventavano il punto d´incontro della memoria e della suggestione mitica, per cui la valenza dei testi assumeva connotazioni corali adatte a dipingere non solo le tradizioni di un popolo, ma la sua particolare collocazione in un contesto europeo che parte da molto lontano per cercare le sue radici. In questo nuovo lavoro Abate tenta invece la carta della narrazione pura, ancorché legata alla terra d´origine, una Calabria questa volta più calligrafica negli acquerelli del ricordo: Roccalba è un paese arroccato nella quiete delle campagne, «tra due mari» - lo Ionio e il Tirreno - ed è soprattutto il luogo eletto di una cultura contadina che caratterizza la forza dei suoi abitanti nell´intensità viscerale delle appartenenze antropologiche. La storia narrata da Abate è un commosso melodramma familiare, che se da un lato diversifica - e in parte sminuisce - l´intensità originale e unica dei romanzi precedenti, dall'altro esibisce nuove capacità affabulatorie dell´autore, in grado di spaziare nel mare aperto dell'invenzione letteraria e di gestire con accortezza personaggi e situazioni. Il percorso è una sorta di viaggio iniziatico nel tempo e nella memoria: un andarsi incontro da molto lontano tra le ataviche suggestioni di un uomo rude ed eroico - il solido protagonista Giorgio Bellusci - e un ragazzo che gradualmente trasforma la sua diversità in appartenenza, la sua giovane riottosità in volontà di recupero dell´antico sogno di famiglia. Florian è infatti il nipote di Giorgio Bellusci, nato dal matrimonio tra sua figlia Rosanna e l´integerrimo Klaus Heumann, tedesco di Amburgo e figlio a sua volta di un altro grande personaggio, il fotografo Hans, artista di fama mondiale. Hans e Giorgio si conobbero in una remota stagione del 1950, e la loro amicizia attraversa i decenni, legata - anche - da quel singolare nastro d´amore da cui nascono Florian e suo fratello Marco. L´eroicità del passato è ricucita da Abate in stralci memoriali di sapore latinoamericano, favolosi quanto ricchi di illusioni inattaccabili: il sogno antico di Giorgio Bellusci è quello di far rivivere dai suoi ruderi il mitico Fondaco del Fico, la locanda in cui si fermò a riposare il grande Alexandre Dumas in un suo tour italiano del 1835. Sogno superbo e inaccessibile, ma Giorgio vive in sua funzione e progetta di metterlo in cantiere proprio quando la malavita locale comincia a pretendere il suo tornaconto. Il gagliardo macellaio calabrese appende l´esattore mafioso a un gancio del mattatoio e sconta otto anni di carcere. Sono gli anni in cui nel nipote Florian - che trascorre le vacanze estive a Roccalba - cresce la consapevolezza di quella parentela scomoda con un uomo ai suoi occhi poco raccomandabile. Il percorso di avvicinamento è quindi quasi un rito iniziatico, tra il nonno nuovamente libero e il nipote che sente crescere dentro negli anni l´urlo delle radici, il sogno che gli appartiene come la più nobile delle eredità. Ormai diciannovenne, il ragazzo rimane a Roccalba ad aiutare nella sua impresa il nonno ritrovato, e incontra l´amore nelle forme sinuose di una bellezza locale, Martina, anche se le parti relative alle effusioni sentimentali dei due giovani sono forse troppo decorative e formali nella complessiva tensione epica del romanzo. Un romanzo che vince comunque nelle sue intenzioni di parabola dei grandi sogni dell´uomo, e sa recuperare con estrema partecipazione la necessità sempre più impellente delle tradizioni, in una sorta di realismo magico che unisce le rievocazioni rurali di Silone e di Strati alla innata capacità dell´autore di mitizzare il ricordo attraverso il passo della leggenda. Finirà tra malinconia e speranza, il sogno gagliardo di Giorgio Bellusci; ma la vita, come i sogni, continua, e nella volontà d´appartenenza alla terra di Florian anche i sogni sembrano poter trovare una loro giusta, serena collocazione.


Avvenire
23 febbraio 2002

Narrativa italiana . Dopo «La moto di Scanderbeg», una vicenda tra Nord Europa e Calabria

Abate, il racconto di tre generazioni
di Fulvio Panzeri

Dopo il successo di critica ottenuto con «La moto di Scanderbeg», Carmine Abate ritorna con un nuovo affascinante romanzo, che rimane, in linea, per temi e per paesaggi, con la ricerca che lo scrittore italo-albanese ha portato avanti in questo decennio. Abate ripropone il tema del viaggio e del confronto tra culture diverse, quella del Nord Europa e quella del Sud italiano e in particolare della Calabria, una terra che, rispetto ad altre zone del Sud, ha avuto pochissimi interpreti. Ora, a continuare la solida tradizione tracciata da Corrado Alvaro e da Saverio Strati, abbiamo appunto i romanzi di Carmine Abate.
Questa storia affonda anche in radici storiche e nella tradizione degli antichi viaggiatori nei loro tour italiani. Infatti uno degli elementi di raccordo del romanzo, diventando anche un insolito protagonista, è una locanda, il Fondaco del Fico, visitata nel 1800 anche da illustri viaggiatori, come Dumas.
È un'eredità di famiglia, che ora è solo un rudere, intorno al quale ruotano i sogni di Giorgio Bellusci, uomo di un certo carattere, nonno dell'io narrante del libro, un ragazzo che non ha ancora vent'anni che arriva in Calabria da Amburgo, quasi controvoglia, per seguire i genitori in vacanza. In particolare si dimostra forte il legame della madre, con il padre appunto Giorgio Bellusci, legato da un altro filo di solidarietà con il nipote, essendo il padre di questi, figlio di un suo amico, un fotografo tedesco che inizia la sua fortuna proprio dalla Calabria, dove ha incontrato appunto Giorgio.
È una storia di generazioni a confronto quella che racconta Carmine Abate, in cui vengono messi a nudo rapporti contraddittori, egoismi, necessità di una fedeltà alle proprie radici. Pur raccontando di tre generazioni diverse, quella dei padri, quella dei figli e quella dei nipoti, il fulcro della vicenda si attesta intorno alla figura dei «padri», che in qualche modo hanno orientato il destino dei figli. Al nipote non resta altro che decifrare solidità, ambiguità o segreti celati attraverso i rapporti. È singolare così l'amicizia che si instaura tra i due padri, Giorgio, l'uomo del Sud, legato alla tradizione della sua «Calabria», con il forte desiderio di ricostruire il Fondaco del Fico e Hans, il tedesco, che gira per il mondo, senza radici precise, tutto concentrato sul suo successo come fotografo, un po' leggero nei rapporti, venati da un fondo di egoismo di cui fa le spese anche il figlio. La figlia di Giorgio sposa il figlio di Hans e loro sembrano subire i «fallimenti» dei genitori, assistendo impotenti alle loro sconfitte morali ed esistenziali.
Entrambi i due amici, Giorgio e Hans, devono fare i conti con l'assenza. Giorgio, pur di non cedere ai ricatti della malavita locale che gli chiede il pizzo per il negozio di macelleria ben avviato che ha in paese, fa giustizia da sé per i continui soprusi che deve subire; uccide un uomo e finisce in carcere. Hans volontariamente si distacca dal figlio, ritornando solo per fugaci ricomparse. Il nipote, Florian, osserva la complessità di questi legami familiari, cercando di capirne i segreti, non accontentandosi della superficie o delle false verità che gli vengono raccontate dai genitori. Se dapprima ha un atteggiamento quasi ostile verso la terra della madre, affrontando i viaggi da Amburgo alla Calabria con un sentimento di noia e quasi di fastidio, poi lentamente, riesce a recuperare, insieme alla lucida verità sulle persone, anche una complice solidarietà con il nonno e con il mondo originario della sua famiglia.
Questo romanzo, complesso nella dinamica e nello sviluppo dei sentimenti, si regge sulla scrittura di Carmine Abate, secca quanto basta, impastata con il sole e con l'arsura di una terra in cerca di una nuova moralità che passa attraverso il recupero di una tradizione.


Gazzetta del Sud
2 marzo 2002

«Tra due mari», romanzo di Carmine Abate

In un sortilegio di ricordi la storia di una famiglia
di Giuseppe Amoroso

E' adagiato tra colline argillose, boschi di lecci e burroni, il Fondaco del Fico, un'antica locanda ora in rovina. Lontano è il mare, la strada che porta al vicino paese di Roccalba, piena di buche, sembra massacrata da un bombardamento aereo. Tra lo Ionio e il Tirreno, soffocato dalla calura estiva, il borgo è una gran festa di vicoli e fiori sotto un cielo carico di stelle. Da questo paesaggio calabro calcinato di luce spunta, disegnato a tutto tondo, Giorgio Bellusci sulle cui tracce, per poterlo riprendere nella custodia sacra delle memorie, si pone il giovane nipote Florian, il narratore che ha il compito di snodare i viluppi di destino e di terra che Carmine Abate dissemina in Tra due mari (Mondadori, pp. 199, euro 14,60). Trapassata di stimoli brucianti, che lasciano scie presto contese e smorzate dall'ombra e dai suoi giochi, la prosa sposta ogni pur deciso e calibrato dettaglio, il gesto stampato nell'aria, l'aria stessa increspata di presenze, la voce che raccoglie un brivido di emozioni, verso una metamorfica simbiosi di uomini e natura, facendo cadere il sottile filo di demarcazione al di là del quale tutto rimane disperso, allarmato, preso in una deformazione ossessiva, non impietosa, però, né metallica. Abate dà al suo universo stralunato la fiera impronta di una condizione che si piega su se stessa, si stravolge fino a sfigurarsi in una contaminata forma di mistero. Bellusci attraversa la campagna d'agosto come dentro un «sogno inquieto del mattino», urla come «inseguito dalla morte», lancia nei momenti più convulsi, «lampi di odio puro» dagli occhi «striati qua e là di nero come due castagne luminose». Il suo sogno è quello di restaurare la vecchia locanda, un tempo la più famosa della regione e la più citata dai viaggiatori stranieri. Uomini illustri vi si sono fermati, come Alexandre Dumas e, nel secondo dopoguerra, il noto fotografo tedesco Hans Heumann. Epica e documentaria, rapida e guizzante nelle sporgenze dei fatti avventurosi, pausata e scheggiata di visioni stravolte in una fuga di scenari favolosi, la narrazione sventaglia sorprendenti episodi nella voce di Florian che racconta la storia dei luoghi, della famiglia e della propria vita, traendo in un impasto di stupori e verità, un sortilegio di ricordi d'adolescenza e la radiosa sensazione di stare in pace con se stesso e con il mondo. Sgusciano gli episodi dalle cose, dalle pieghe dei giorni, da vicende talora drammatiche e da quel vivere errabondo tra Amburgo e l'«inferno d'afa» della Calabria. Mosso dai racconti della mamma e filtrato dalla partecipe attenzione del figlio Florian, il flusso degli eventi si arricchisce di un doppio registro espressivo derivandone un'elaborazione sicura, linguisticamente molto controllata e anche una sorta di intonazione composita, in cui gli oggetti, le figure, l'ambiente passano con il loro commento interno, hanno una qualità avvincente d'intrigo e un'altra di riflessione («Adesso finalmente arriverà al Giorgio Bellusci dei nostri giorni, pensavo, al padre macellaio fissato con il Fondaco del Fico e le angurie fredde, mi dirà cosa ha combinato, finalmente. La mamma era convinta di leggermi nei pensieri...»). Le interruzioni secche e le riprese altrettanto determinate imprimono un andamento tensivo a questo libro intimistico e spettacolare, costantemente rigato da un riverbero strano, da un filo di piccole realtà che si eclissano senza un visibile motivo, proprio quando più sembrano essere lì, solidi elementi necessari al contesto. Nell'atmosfera appannata anche i visi sorridenti sono attesi dalla chiamata dell'ignoto, dal beffardo teatro della vita ingannatrice. Fitto di spunti (dalle citazioni di libri e film al culto dei costumi locali; dalle trame amorose allo zigzagare di oscuri segreti; da una gita sull'Alster ghiacciato a una cruda pagina sul banditismo calabro dell'Ottocento), il romanzo, lesto pure nel distendersi in strutture corali, si coagula soprattutto intorno alle improvvise irruzioni di Giorgio Bellusci, «sognatore incallito», coinvolto in un omicidio, e alla presenza dell'appassionata Martina, la giovane e bella compagna di Florian. Abate pratica con successo la strategia dello spiazzamento, sposta in un vortice di eventi i personaggi: alcuni, di rilievo, finiscono talvolta sullo sfondo con «contorni pallidi e sbiaditi»; altri prendono uno scatto imprevedibile, come Hélène, moglie di Heumann, la quale sembra «una statua maestosa di Michelangelo». Accadimenti basilari vanno in dissolvenza, dettagli di margine si avventano sul primo piano con una vertiginosa evidenza. V'è posto per un manoscritto di Dumas e per un attentato intimidatorio in questa cronaca lenticolare che conosce lo stupore e la lenta crescita di una psicologia, il risveglio di una coscienza in accordo con l'esterno esuberante, acceso da un'animazione incredibile. Trattenuti appena da un'intensa sillabazione di sentimenti scorrono quadri di limpida bellezza, dove il racconto delle persone è racconto di immagini, luci, nuances. Veduto dall'alto di un monte il Fondaco del Fico «assomiglia a una nave sopra un mare verde e giallo». Un miracolo di serenità e di bellezza su cui si avventa il rombo del buio.


La Sicilia
19 febbraio 2002

Tra due mari
di Giuseppe Traina

          Affermava Carmine Abate nel 2000, su “L’Indice”: «Lo scrivere in una lingua diversa dalla madrelingua ha anche un vantaggio, soprattutto per chi come me scrive su temi come l'emigrazione, le minoranze: un certo distacco dalla materia trattata, una specie di filtro capace di eliminare le scorie tradizionali più inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata. Questa lingua-distanza è per me la chiave per rientrare nei miei luoghi o raccontare i miei personaggi arbëreshë o germanesi, attraversati più o meno consapevolmente dal plurilinguismo e dal multiculturalismo».
         Bisogna, credo, partire da queste parole per capire l’evoluzione della sua scrittura alla luce di Tra due mari (Mondadori, 2002), il suo romanzo più felice, arioso, composito. Nei primi due romanzi – Il ballo tondo (Marietti, 1991; poi, rivisto, Fazi, 2000) e La moto di Scanderbeg (Fazi, 1999) – avevamo amato la capacità di rappresentare, con sensibilità trepidamente rivissuta, l’ibrido stato di sradicamento e di attaccamento alle radici culturali di chi parte o prova a ritornare ad Hora, paese di lingua e cultura arbëreshë della Calabria più povera, da cui quasi tutti emigrano per trasformarsi in “germanesi”.
          Attraverso anche racconti (Il muro dei muri, Argo, 1993) e poesie (Terre di andata, Argo, 1996), Abate ha sondato i vari strati che compongono la cultura e il patrimonio esistenziale di sé e della sua gente: arbëreshë, calabresi, italiani, germanesi. Nei racconti ha privilegiato la realtà tedesca degli emigrati, dei “germanesi”. Nei romanzi ha creato un microcosmo compiuto, l’immaginaria Hora, facendone un crogiuolo di antiche memorie mitiche (l’eroe nazionale Scanderbeg, l’aquila a due teste) e di contraddizioni reali del presente: povertà, invidie, rancori, soprusi, incomprensioni fra chi parte e chi rimane, fra slanci di fuga e nostalgie di ardui ritorni. Una realtà bella e povera, sostanzialmente struggente, che può improvvisamente illuminarsi al canto di una rapsodia tradizionale, a un ballo tondo, al sogno del volo di un'aquila bicipite.
         Tra due mari è un’altra cosa: è ancora Calabria, è ancora Germania, ma non è più arbëreshë. Eppure, sottotraccia, lo è ancora. Provo a spiegarmi meglio, anche se nulla sarà più chiaro dell’auspicabile lettura del romanzo. Non siamo più ad Hora, ma in un altro paese altrettanto piccolo e povero, collocato fra Ionio e Tirreno: vi si fermò Alexandre Dumas, alloggiando alla locanda Fondaco del Fico, scrivendone nel suo diario di viaggio, custodito come una reliquia dai discendenti Bellusci; ma la locanda fu distrutta dalle truppe regie inviate a reprimere il brigantaggio: una ferita non rimarginata, testimoniata da un rudere imponente. Intorno a questo testimone muto s’incardina il sogno del settantenne Giorgio Bellusci che vuol costruire un albergo moderno. Chi ha letto Il ballo tondo e La moto di Scanderbeg sa quanto siano importanti, per Abate, i progetti arditi e le figure di vecchi dal vitalismo indomito: la novità è che quello che nei primi due romanzi era arbëreshë ora è calabrese. E, conseguentemente, se nei romanzi di Hora le controspinte all’immobilismo e alla rinuncia erano tutte interne al microcosmo, nutrite di inerzia e di scetticismo, qui appaiono, minacciose, le remore storiche, i mostri della realtà più violenta: in una parola, la ‘ndrangheta. Che vuole imporre a zu’ Giorgio Bellusci la legge del pizzo: ma l’uomo si ribella, uccide il mafioso che lo minaccia e lo appende ad un gancio della sua macelleria. Ne ricaverà otto anni di carcere ma non abbandonerà il suo sogno, che assumerebbe contorni retoricamente titanici se egli, scontata la pena, non avesse l’intelligenza di associare a sé energie nuove: il nipote Florian, figlio della figlia e di un mite bancario tedesco, nato e cresciuto ad Amburgo e dunque nemmeno “germanese”, ma tedesco a tutti gli effetti.
         Il ragazzo, che è poi l’io narrante, fatica a capire il sogno del nonno, verso il quale, anzi, manifesta fin da bambino una sorda ostilità che gradualmente si trasforma in ammirazione e, infine, in condivisione del progetto. E’ aiutato, in questo, dall’amore di Martina, entusiasta ammiratrice di zu’ Giorgio, splendida ragazza nella quale ritrova la solarità di tutte le donne della sua famiglia. In questo orizzonte di positività femminile, sbiadiscono le figure maschili, il padre Klaus e lo zio Bruno, ad eccezione del nonno e del suo amico di tutta una vita: il fotografo tedesco Hans Heumann, che nell’immediato dopoguerra lo portò con sé in un memorabile viaggio di gioventù alla scoperta di una Calabria arcaica da immortalare con l’obiettivo. Attenzione: questo fotografo, diventato una celebrità internazionale, è anche il nonno paterno di Florian, e avrà un ruolo decisivo nella sospirata riedificazione del Fondaco del Fico. Se – come è inevitabile in un romanzo così frondeggiante di storie e personaggi accattivanti – mi sono finora dilungato sulla fabula del testo, è arrivato il momento di fermarsi qui. Tra due mari è così pieno di sorprese, di svolte narrative impreviste eppure ben calibrate in uno studiatissimo gioco di equilibri, che non spetta al recensore svelare per intero un intreccio di tale piacevolezza. Anche perché è la conclusione a racchiudere il sugo, dolceamaro, della storia, a connotarne ideologicamente i germi solari della speranza e dell’ottimismo ma pure l’ombra lugubre della violenza persistente (e in tal senso, forse, come non molti romanzi italiani di oggi, questo sembra prontissimo ad un adattamento cinematografico, magari per la cinepresa del calabrese Amelio).
         Vorrei piuttosto soffermarmi sulla qualità della strutturazione del testo, tutta giocata sul tema del viaggiare. Da due viaggi muove tutta la vicenda: quello ottocentesco di Dumas e del suo amico pittore Jadin, replicato da quello novecentesco di Hans Heumann e Giorgio Bellusci, scandito dalla luce e dalle rondini, da un infinito sentimento di libertà. E sui tragitti Germania-Calabria di Florian e dei suoi familiari sono scanditi i capitoli del libro: viaggi invernali in una Calabria innevata e riscaldata dai fuochi delle tradizioni natalizie, ma soprattutto in un’abbagliante Calabria estiva, fitta di boschi pronubi e di sensualità. Viaggiano i personaggi, viaggiano anche i racconti: come gli altri di Abate (La moto di Scanderbeg cominciava così: «“E poi ci raccontò quest'incredibile storia"»), anche Tra due mari è caratterizzato dal dominio dell’oralità. Il ricordo della sosta di Dumas, infatti, è affidato meno al romantico scrigno profumato di bergamotto che ne racchiude il diario che ai racconti tramandati all’interno della famiglia Bellusci e dei quali la madre di Florian è appassionata vestale.
         E’ su questa problematica ma tenace oralità che si fonda l’epicità dei testi di Abate, e di quest’ultimo in particolare. Perché - e qui torna impercettibilmente il retroterra arbëreshë – forse un’epica è ancora oggi possibile: non nelle forme, che sanno tutte le scaltrezze novecentesche della manipolazione dell’intreccio, delle voci, dei punti di vista; ma almeno nella sostanza residua, nel nocciolo ingenuo e fascinoso di un mondo che conosce tuttora la dimensione del “vicinato” e che guarda al passato come patrimonio di archetipi ancora riproponibili – in qualche arduo modo - nel presente. Se La moto di Scanderbeg – come scrisse Francesco Roat – poteva essere «un'epica minore dove si narra l'antieroica impresa di sopravvivere», Tra due mari segna un passaggio ulteriore, che mi pare, tutto sommato, un progresso: un’epica che va oltre la mera sopravvivenza, nella dimensione progettuale dell’utopia, rinsaldata e resa possibile dalla staffetta generazionale nonno-nipote. Solo che questa staffetta rimuove la presenza del padre: Klaus, il padre di Florian, è un testimone muto, sorridente, impacciato, affettuoso ma sostanzialmente estraneo al mondo calabrese che è riuscito, col richiamo potente dei miti, a risucchiare il ragazzo tedesco. Tanto che l’accordo finale tra nonno e nipote finisce per essere, in modo forse fin troppo ottimistico, un modo di risolvere più laceranti conflitti di natura psicologica, le cui tracce sono però l’ennesima ricchezza del libro. Senza parere, ché apparentemente il passo è epico e felice della pura fabulazione, viene fuori da Tra due mari una potente rappresentazione dell’incomunicabilità fra padri e figli maschi: se l’accordo regna sovrano fra Giorgio Bellusci e le due figlie femmine, e tra Florian e la madre, il rapporto fra Hans Heumann e il figlio Klaus è dolorosamente fallimentare. Un padre assente per eccesso di irrequieta vitalità, un figlio che si chiude nel silenzio, nell’oscuro lavoro impiegatizio. Klaus è l’uomo che porta in faccia «il sorriso finto buono di chi teme gli altri e la vita», che guarda timidamente un padre troppo ingombrante: nemmeno la propria paternità gli ha permesso di superare questo enorme bisogno di padre, di essere gradito ad un padre che, - quando Klaus gli mostra, orgoglioso, un suo saggio pubblicato da un’importante rivista americana -, non trova di meglio che deridere la serietà della rivista, parlando di se stesso, come sempre.
         E quando anche un personaggio secondario, come qui Klaus, riluce di tale verità, bene, questo è il segno che siamo di fronte ad un grande romanzo.


Corriere della Sera
 24 marzo 2002

Il racconto di atmosfere e suggestioni della Calabria
di Ermanno Paccagnini 

Ionio e Tirreno: questi innanzitutto i due mari del titolo, che abbracciano la terra calabra in mezzo alla quale sta il Fondaco del Fico. Ma quei «due mari» sono anche, e ancor più, i luoghi-anime del Mare del Nord e del Mediterraneo che si uniscono sempre più in Florian, nato da una emigrata italiana sposa al figlio del grande fotografo Hans Heumann, nel corso dei quattro viaggi da Amburgo alla Calabria che ne segnano la vita, ne marcano la crescita, ne cadenzano la presa di coscienza: di se stesso; e dell' amore per una terra, una cultura, una storia che si distende per oltre un secolo, un sogno.
Con Tra due mari Abate - e lo scrive chi pur ha grandemente apprezzato Il ballo tondo (1991) e La moto di Scanderberg (1999) - ci dà il suo romanzo più completo e maturo. Il più difficile da realizzare, perché vi fonde tutti i motivi della sua narrazione, compresa l' esperienza dei racconti d'emigrazione del Muro dei muri (1993). Perché questo è Tra due mari: un romanzo al tempo stesso mosso e sospeso: insieme d'avventura e poesia; d' emigrazione e nostalgia non solo d'una terra ma d'un mondo e una cultura; della storia e del ricordo; della forza e della tenacia (quella del nonno di Florian, Giorgio Bellusci: e del suo sogno di ricostruire il Fondaco del Fico); ma anche della tenerezza (di Giorgio con la moglie; di Florian con la fidanzatina Martina), con una ricca serie di personaggi vivi, amorevolmente cesellati. Che però lasciano al Fondaco il ruolo di protagonista. Quel Fondaco visitato nel lontano 1835 da Dumas padre e Jadin che vi hanno lasciato un diario di viaggio e un disegno, amorosamente trasmessi in famiglia. Che accoglieva in pace chiunque vi bussasse, fossero pure briganti: finendo per questo bruciato dalle forze dell' ordine. La cui immagine fissata su una foto da un giovane tedesco sancisce la gloria e la carriera di costui che, riconoscente, sosterrà l' amico Giorgio nella ricostruzione allorché il suo sogno si scontra con la legge del pizzo e con la distruzione malavitosa: cui conseguono una maggior forza di Giorgio e la presa di coscienza di Florian.
Fondaco come pluralità di metafore, insomma: prima tra le quali quella della creatività, disegnata da Abate attraverso fatti, atmosfere, storie, parole consegnate alla voce narrante di Florian. Il cui racconto memoriale è però insieme ricerca delle origini proprie, ma specularmente, di quelle dello scrittore che (lo si scopre nell' ultima pagina) ne è sollecitatore. E proprio qui emerge la caratteristica di maturo equilibrio che dicevo. D' un romanzo che sa fondere nel racconto scorci di narrazione meridionale e di emigrazione, tono favolistico, atmosfere storico-leggendarie: sciogliendo il tutto in una oralità che possiede il tono insieme eroico e sapienziale, tenero e anche malinconico d' una precisa tradizione: quella poesia che avverti nei canti arbëresche: di quegli albanesi d' Italia seguaci del grande Giorgio Scanderberg, di cui Bellusci porta significativamente il nome.


L’Adige 
9 marzo 2002

Successo del romanzo «Tra due mari» di Abate
 di Giuseppe Colangelo

La prima osservazione che mi sento di fare dinanzi al nuovo romanzo di Carmine Abate «Tra due mari», appena uscito da Mondadori, è che si tratta ancora e sorprendentemente di un libro straordinario. Dico «ancora e sorprendentemente» perché avendo già Abate pubblicato due romanzi di così grande valore come «Il ballo tondo» (1991) e «La moto di Scanderbeg» (1999), sospetto che non fosse per nulla facile mantenere e riconfermare il loro livello.
Io credo che egli ci sia riuscito benissimo e vorrei qui provare a indicare quelle che mi sembrano le ragioni più probanti di tale esito. A cominciare dalla più evidente, e cioè il fatto che anche questa volta Abate ha saputo inventare una storia densa e avvincente dove gli elementi realistici si fondono mirabilmente con quelli fantastici.
Esemplifichiamo subito, ricorrendo all'immagine da cui ha certamente preso l´abbrivio la narrazione e che Abate ha poi sviluppato fino a farla diventare il centro, forte e suggestivo, intorno al quale ruotano tutte le vicende del romanzo: il Fondaco del Fico.
Anche se oggi non ne resta che un povero muro annerito e sbrecciato, perso in un mare di rovi e sterpaglie, è realmente esistita in Calabria una locanda con quel nome. Ed è vero che ha ospitato molti importanti viaggiatori stranieri, tra i quali il celebre autore dei Tre moschettieri, che l´hanno poi ricordata nei loro diari, nei loro resoconti, nelle loro opere.
Così come è vero che l´etnologo calabrese Vito Teti citato in un punto saliente del racconto quasi in veste di notaio che ne certifica l´autenticità, ha scritto un saggio sul «Fondaco del Fico».
A questo materiale sapientemente «rubato» alla realtà e già di per sé potente, lo scrittore calabrese ne mescola altro frutto di pura fantasia (l´eroico sogno del protagonista, la sua amicizia col grande fotografo Hans Heumann, la trovata, splendida, dell'albo manoscritto dimenticato da Dumas nel Fondaco del Fico) e lo fa con tale maestria da rendere del tutto impercettibile la distinzione tra le due dimensioni del racconto. Le quali sono - come dire? - consustanziali. E vitali entrambi. Ne nasce allora un impasto narrativo capace di tenere sempre viva ed emozionata l´attenzione di chi legge.
Ma Abate non è solo un abile architetto di storie ammalianti, Abate sa anche disegnare con mano sicura e felice luoghi, atmosfere, ideali, passioni e personaggi che non si dimenticano. Memorabili sono in questo romanzo, Giorgio Bellusci con il suo sogno confitto nella carne e nell'anima («[…] dentro di lui il Fondaco del Fico c´era già e cresceva come una pianta ciòta, quelle che sopravvivono anche tra le pietre dei muri, con una goccia d´acqua e due granelli di terra, ma che diventano le più belle. L´importante era di non estirparne le radici […], tutto il resto si fa, col tempo, cresce, resiste pure ai terremoti della vita se le radici sono vive e sanguigne come la robbia»); e Rosanna Bellusci che alimenta, incoraggia e protegge il sogno del padre con il suo affetto, con la sua determinazione, con la sua cultura («Fu la mamma che provò a risollevare il morale del padre, nell'unico modo possibile rievocando i tempi felici in cui il Fondaco del Fico era la locanda più famosa della Calabria o almeno la più citata dai viaggiatori stranieri dei secoli scorsi. Lei, da brava insegnante, conosceva i nomi di quei viaggiatori a memoria e li spalmava sul panino a ogni occasione, anche ad Amburgo, soprattutto se a casa nostra c´erano ospiti tedeschi»); e Florian, naturalmente, figlio di Rosanna e voce narrante, dapprima scettico e spaesato - lui nato e cresciuto in Germania - poi, via via, sempre più conquistato dalla figura del nonno calabrese e dal suo sogno ostinato.
E neppure si dimenticano gli intensi flash-back sul passato, che inserendosi con assoluta naturalezza nel flusso narrativo fanno riemergere alcuni snodi significativi della vicenda familiare del protagonista incrociati con quelli, non meno rilevanti, della storia della Calabria dall´epopea garibaldina al brigantaggio; né gli incontri d´amore tra Florian e la sua ragazza, Martina, intessuti di fresca e intrigante sensualità. Per non parlare, infine, del paesaggio.
Che non è mai elemento decorativo, semplice sfondo o bozzetto convenzionale bensì segno netto, lavorato col bulino, che contribuisce in modo rilevante a delineare i tratti peculiari di una terra, la terra «tra due mari».
Chiudi il libro e ti restano dentro, indelebili, i suoi colori, i suoi sapori, i suoi odori, forti come le passioni, come le lotte, come le delusioni, come le speranze di chi in quella terra abita e vive.
Eccole dunque, in sintesi, le ragioni della piena riuscita di "Tra due mari": ingredienti che fanno davvero romanzo (un intreccio ricco e vario, una fabula costellata di azzeccati andirivieni, personaggi di grande spessore, luoghi còlti nella loro essenza profonda) giocati con una sapienza compositiva di prim'ordine. E su tutti quello che tutti li nutre, li armonizza e li esalta: il linguaggio.
Quanta bella freschezza, quanta vitalità emanano le pagine di questo libro! Se ne viene subito catturati e altrettanto presto si riscopre che l´arte affabulatoria di Abate ha la sua fonte primaria proprio nel linguaggio. Un linguaggio pieno di energia, di estro, di movimento da cui germoglia una scrittura che sa essere ora evocativa, ora ironica, ora analitica, ora cantabile, senza mai un cedimento, senza mai una zeppa, senza mai una caduta.
Con questo romanzo Carmine Abate conferma gli alti risultati già raggiunti e si accredita come uno degli scrittori più originali e completi dell´attuale panorama letterario italiano. Si tratta di un successo che non arriva inaspettatamente, visto l´accoglienza riservata ai romanzi precedenti, ma non era sicuramente impresa facile confermarsi a quei livelli. Risultato raggiunto.


  Il Diario
14 marzo 2002

Avventura e gioia in una felice prova narrativa 
La locanda racconta

di Massimo Onofri

Di Carmine Abate si conoscono due notevoli romanzi, ne abbiamo già parlato su queste colonne, Il ballo tondo (1991) e La moto di Scanderbeg (1999), entrambi radicati nella vita d’una comunità calabrese arbëreshe, e cioè italo-albanese.
Questi dati di biografia e letteratura, dentro libri ricchi di innesti antropologici, fanno di Abate uno dei pochissimi scrittori italiani (l’unico?) apparentabile a tanti narratori di matrice etnica che, specie nell’ambito di realtà post-coloniali, rappresentano il fatto veramente nuovo nella storia del romanzo di questi ultimi decenni. Questa volta, però, lo scrittore abbandona la consueta Hora e gli albanesi di Calabria per spostarsi nella vicina Roccalba, un altro paese calabrese, certo, ma a forma di ferro di cavallo, e adagiato «nella parte più stretta dello Stivale, su una collina tra due mari», lo Ionio e il Tirreno. È qui che si svolge la secolare vicenda del «Fondaco del Fico», una locanda tra Pizzo e Maida d’importanza vitale per i viaggiatori, poi distrutta, in un giorno di luglio del 1865, durante uno scontro a fuoco tra briganti e militi della guardia nazionale. Occorre dirlo subito: quanto a magnetismo simbolico, il «Fondaco» ha, in Tra due mari, la stessa forza d’attrazione della verghiana casa del nespolo, se è vero che tutto il romanzo cresce nel miraggio della sua ricostruzione.
In Tra due mari, insomma, viene a cadere il lato arbëreshe: resistono, però, strategie e temi della narrativa di Abate, almeno così come l’avevamo lasciata, allo snodo della Moto di Scanderbeg. E come nella Moto anche qui acquista un’importanza decisiva il rapporto Calabria-Germania (figlio d’un tedesco ed una calabrese è, infatti, il protagonista-narratore), lungo il cui asse si svolgono alcune delle vicende che tramano il libro: e siamo alla terza radice dello scrittore, oltre a quelle italiana e albanese. Rimane poi quel modo di scendere e salire per i rami d’un albero genealagico, che qui non s’arresta alle tre principali generazioni (il nonno materno del protagonista, Giorgio Bellusci, e quello paterno, Hans Heumann, tra i più grandi fotografi al mondo; il padre Klaus, frastornato e compiacente, al perenne inseguimento dell’inafferabile genitore, e la madre Rosanna, di struggente sensualità, «occhi di mediterranea rapinosa»; ilprotagonista e la sua incantevole Martina), ma arriva a comprendere gli antenati ottocenteschi del Bellusci, appunto i gestori del «Fondaco». Anche in Tra due mari, poi, c’è un evento del passato che funge da nucleo irradiante di tutta la vicenda e che guadagna quasi un valore archetipico, da origine delle origini: se nella Moto, oltre allo Scanderbeg protagonista, ce n’era uno più antico, l’eroe che guidò la comunità albanese contro gli invasori turchi, qui troviamo il passaggio d’un insolito Alexandre Dumas al «Fondaco», nel 1835, dove dimentica quel suo taccuino di viaggio che i Bellusci, di generazione in generazione, custodiscono religiosamente.
Ma è quella singolare attitudine a sollevare i personaggi entro un cielo di leggenda che garantisce la più vera continuità. Sentite qua. È Hans Heumann che ricorda l’incontro con il suo grande amico Giorgio Bellusci: «Aveva gli occhi di un marrone mai visto, un marrone bruciato dal sole. (...) In quegli occhi c’era orgoglio tenerezza caparbietà passione fuoco sole e, in fondo alle pupille, qualche rimasuglio di pioggia e di rancore, sul punto di sprizzare fuori. Sì, lo so, ne parlo come un innamorato. E un po’ lo ero». Il romanzo, pur spalancato sul futuro, non ha un lieto fine: ma non al punto da imbrigliare lo straordinario ottimismo biologico che Abate sa tradurre in avventura, espansione vitale e pura gioia di movimento: festa della scrittura.


L’Unione Sarda, 23.3.2002


Un romanzo di Carmine Abate per Mondadori dove s’intrecciano riti e miti

Tra due mari
di Guido Caserza

Chi volesse oggi capire quale sia la via migliore per vivere con intelligenza la propria identità e al contempo arricchirsi culturalmente dovrebbe leggere i romanzi di Carmine Abate, un albanese d’Italia, nato nel 1954 a Carfizzi, piccola comunità della Calabria ed emigrato da giovane in Germania. L’autore ha esordito nel 1991, pubblicando Il ballo tondo da Marietti, nel 1999 ha fatto uscire La moto di Scanderbeg da Fazi e ora è approdato alla Mondadori con il nuovo romanzo Tra due mari (pp. 1199, euro 14,60). In mezzo una raccolta di racconti (Il muro dei muri, Argo, 1993) e poesie (Terre di andata, Argo, 1996).
Attraverso questi libri Abate restituisce l’affresco di una cultura e di una popolazione composita, mescolando i dati dell’epopea albanese con quella dei germanesi, i riti arbëreshë con le tradizioni calabresi, sempre con una sensibilità acuta ma mai struggente. I personaggi dei romanzi di Abate, in bilico fra sradicamento e attaccamento alle radici non concedono infatti nulla alla nostalgia di genere : mai un cedimento verso il bozzettismo, tipico della narrativa d’emigrazione, mai un ammiccamento al lettore o una concessione al patetismo.
Caso mai, troviamo in Abate la capacità di conciliare linguaggi e culture diverse, ed è questa la via all’arricchimento di cui dicevamo sopra : la mescolanza delle genti e dei linguaggi, la rivendicazione della propria identità senza per questo rivendicare la purezza della propria etnia.
Veniamo dunque a questo nuovo romanzo che è, a nostro parere, l’espressione più matura della narrativa di Abate. Innanzitutto notiamo la nuova ambientazione : non più il microcosmo immaginario di Hora, il paese di lingua e cultura arbëreshë della Calabria più povera dei precedenti romanzi, ma un altro paesino, Roccalba, collocato fra Ionio e Tirreno. Vi si fermò Alexandre Dumas, alloggiando nell’ottobre del 1835 alla locanda Fondaco del Fico, distrutta dalle truppre regie e che il settantenne Giorgio Bellusci sogna di ricostruire.
Ma in questo nuovo romanzo calabrese Abate ha introdotto anche un nuovo elemento sventuratamente storico : la ‘ndrangheta, che impone a zu’ Giorgio Bellusci la legge del pizzo. E qui lo snodo narrativo è epico e improntato a sfrenato vitalismo : Bellusci uccide il mafioso che lo minaccia e lo appende ad un gancio della sua macelleria. Sconterà otto anni di carcere ma non per questo abbandonerà il suo sogno, coinvolgendo nell’impresa il nipote Florian, nato e cresciuto ad Amburgo. L’ingresso in scena di Florian, che è poi l’io narrante, determina una svolta narrativa e tematica molto importante : il romanzo si arricchisce infatti del motivo del rapporto fra le generazioni, che è un rapporto anche conflittuale, poiché il giovane da principio non condivide il sogno del nonno.
A partire da questo punto Abate districa con grande abilità i fili di un initreccio sempre più ricco di snodi e di personaggi. Memorabile la figura del fotografo tedesco Hans Heumann che avrà un ruolo decisivo nella riedificazione del Fondaco del Fico e che con il suo obiettivo ha immortalato i paesaggi arcaici della Calabria. Notevole anche l’equilibrio strutturale del romanzo che ruota attorno al tema principale del viaggio : i capitoli sono infatti scanditi sui percorsi Germania-Calabria di Florian e dei suoi familiari mentre alla tradizione orale sono affidati i racconti del passato, come la sosta di Dumas all’antica locanda che è, a ben vedere, il racconto archetipico sui cui poggia questo romanzo, la cui conclusione ha l’amara dolcezza di un apologo disincantato, di chi nulla vuole concedere alle facili lusinghe della propria terra d’origine, probabilmente per averla troppo amata.


Gazzetta di Parma, 30.3.2002

«Tra due mari», saga familiare di Carmine Abate ambientata in un Sud fertile e coraggioso

Il sole e un manoscritto di Dumas
di Silvia Ugolotti

L'umido, la polvere sembrano quasi appiccicarsi alle dita mentre sfogli le pagine. C'è un'afa densa e pesante che rallenta anche la narrazione, insieme ai ritmi di vita.
Scorrono fiacchi a Roccalba, una manciata di case nella Calabria remota, un paesino «appoggiato come un ferro di cavallo su una collina tra due mari, lo Ionio e il Tirreno».
«Tra due mari» (Mondadori, 197 pagine, 14,60 euro), tra due culture, tra due generazioni: oscilla la storia raccontata da Carmine Abate, nato in una comunità italo-albanese della Calabria, emigrato in Germania, stabilitosi in Trentino.
Con i suoi romanzi tradotti in molti paesi ha vinto diversi premi letterari. Con l'ultimo libro colpisce per la bellezza dell'ispirazione e l'originalità dello sguardo. E' una saga familiare, un romanzo intenso, ricco di vita e fisicità: suoni, odori, luci che escono dalle parole e prendono forma, prepotenti.
Una scrittura leggera che affascina quella di Abate, quasi senza accorgersene, un racconto in cui le cose vengono dette tra l'urgenza di comunicare e il bisogno di silenzi.
Di lasciare che siano i gesti, i luoghi, le speranze e le amarezze a prendere voce.
Florian Heumann, metà tedesco e metà calabrese, vive diviso tra due mondi l'uno opposto all'altro. Si sposta da Amburgo a Roccalba. Da una città che sembra impassibile agli eventi a una terra che porta dentro di sé il fuoco degli istinti. Il furore delle emozioni. Una terra braccata dal sole, segnata da boschi e burroni.
Stretta nell'abbraccio torrido dell'aria incendiata: «inferno d'afa che tarpava le ali perfino all'odore dei garofani o delle ascelle, sfocava l'azzurro del mare fino a farlo sparire, assorbiva le grida dei bambini e le voci da cicale delle vecchie sui muretti dei vicoli come un'invisibile parete insonorizzata».
Florian se ne innamora piano, piano, lasciandosi conquistare dalla luce bianca, dal frastuono della vita e dal fascino di un passato rimasto immutato nei riti e nelle tradizioni, negli sguardi primitivi della gente, nelle passioni ataviche che rimescolano le viscere.
Nel sangue di Florian corre prepotente il coraggio di suo nonno, l'audacia di dar vita ai sogni.
Giorgio Bellusci ha un solo desiderio che sconfina nell'ossessione: ricostruire il Fondaco del Fico che si affaccia sullo Ionio e sul Tirreno. E' la locanda del padre diventata leggendaria per aver ospitato nel 1835 tre importanti viaggiatori. Uno di loro era Alexandre Dumas.
Della locanda non sono rimasti che le rovine, un fico e il manoscritto di Dumas: «Tutti avevamo capito che i resti del Fondaco del Fico andavano rispettati, come quelli di un morto della famiglia. E che presto Giorgio Bellusci li avrebbe fatti rinascere». Insieme, nonno e nipote, riescono a ridar vita all'albergo, quando Florian impara a sentirsi a casa anche nella terra dove non è nato, ma che impasta il suo sangue. La sua si trasforma piano piano in una sorta di emigrazione alla rovescia. Insieme alle radici ritrovate capisce di aver anche ereditato una delle cose più preziose al mondo: i sogni. E un amore, la passione che lo lega per sempre alla ragazza dagli occhi color dei lecci e dal sangue caldo come l'agosto.
La strada però non è semplice. Qualcuno vuole fargliela pagare a Giorgio Bellusci. Ci sono pizzi da saldare, segreti da nascondere, pericoli da scampare.
Ma la Calabria che Carmine Abate racconta non è solo quella diffidente e immobile. Al contrario, è il simbolo di una terra in movimento, fertile e coraggiosa.



Italia Oggi
2 Marzo 2002 

Tra due mari

di Guido Conti


Tra due mari di Carmine Abate è sicuramente uno dei romanzi più attesi della stagione. Conteso da più case editrici, la storia di Giorgio Bellusci e di suo nipote Florian, non tradisce le aspettative e si inserisce perfettamente nella linea che via via, romanzo dopo romanzo, Abate ha tracciato sulla sua ispirazione e la sua tematica.
Dopo aver esordito con Il muro dei muri in Germania nel 1984 e in Italia nel 1993, e giunto al successo con Il ballo tondo e La moto di Scandenberg, entrambi pubblicati da Fazi nel 1991 e nel 1999, la storia di Bellusci si gioca ancora tra la Calabria e la Germania. Florian prima bambino e poi adolescente, conosce man mano che il romanzo avanza la storia di Giorgio Bellusci, suo nonno, e di tutta la famiglia del ramo di madre. Giorgio Bellusci ha un sogno, ha quello di ristrutturare il fondaco del Fico, un antico e quanto mai diroccato albergo e luogo di sosta di viaggiatori, famoso per esserci stato anche Dumas e il pittore Jadin che avevano ritratto i suoi avi in un quaderno di viaggio dimenticato nella locanda e rimasto come oggetto di culto che si tramanda di padre in figlio. Dopo esserci stato bambino, Florian torna con la madre e il fratello più piccolo in casa della nonna, proprio il natale della scarcerazione di Giorgio Bellusci, colpevole di aver impiccato con un ferro uncinato un uomo della 'ndrangheta che chiedeva il pizzo per la sua macelleria. Ma Bellusci non si piega alle violenze e decide di farsi vendetta da solo, dopo aver subito l'uccisione di capi di bestiame e di ulivi e viti tagliate.
La storia di Florian in verità è un romanzo di formazione sulla presa di coscienza di avere due anime, un "sangue misto" calabro-tedesco, con un altro nonno, padre del padre, Hans Heumann, grande fotografo. La figura virile, maschia, giusta fino al sangue, è la tematica dominante dei libri di Abate, come già in Scandenbeg; a cui si mescola il dissidio di avere due anime e due culture, una calabrese e una tedesca.
E' impossibile riassumere il susseguirsi di alterne vicende, dosate con sapienza narrativa, di questo che è il libro più maturo di Abate, anche dal punto di vista stilistico (non compare mai nel romanzo la parola 'ndrangheta). E' una lingua ricca; dalla pagina nascono gli odori, i sapori, l'afa della Calabria nelle pagine più belle non solo della rievocazione storica ma anche dell'amore di Florian per Martina. Il nonno strapperà con forza la promessa del nipote di riordinare il Fondaco anche dopo la sua morte, ma il resto della storia la lasciamo alla gioia del lettore.



Testata giornalistica dell'Università di Palermo
7 marzo 2002

Abate "Tra due mari":
perché transfuga linguistico?

Lo scrittore calabrese ha presentato il suo libro alla Facoltà di Scienze della Formazione. 
Nel romanzo importanti sono i viaggi e la ricerca di identità

di Monica Diliberti


"Quando scrivo, non ho tesi da dimostrare. Racconto e basta, sono un raccoglitore di storie". Queste le parole di Carmine Abate che rappresentano al meglio la "filosofia narrativa" di questo scrittore calabrese. Ha presentato il suo ultimo romanzo, "Tra i due mari", nell'Aula Magna di Scienze della Formazione a Palermo su invito della preside, professoressa Patrizia Lendinara, e del professore Matteo Mandalà della cattedra di Lingua e letteratura albanese. I relatori del seminario "Carmine Abate, storia di un transfuga linguistico" sono stati Michele Cometa, direttore del Dipartimento di Arti e Comunicazioni e docente di Letteratura tedesca, e Francesco Altimari, pro-rettore dell'Università di Calabria e docente di Lingua e letteratura Albanese. Il professore Cometa, nella sua relazione, si è concentrato sulla struttura e sul significato del romanzo di Abate. Questo libro è qualcosa di più di un'esperienza di vita interculturale, uno dei temi preferiti dallo scrittore, ricollegabile con la sua vita. Abate, infatti, dopo essersi laureato a Bari, si è trasferito in Germania dove ha pubblicato i suoi primi libri. L'influenza della cultura tedesca si respira in tutto l'ultimo romanzo. Il testo può essere suddiviso in quattro distinte parti che ruotano attorno ad un unico tema, quello del viaggio. La storia infatti è costruita attorno alla migrazione del protagonista dalla Calabria alla Germania. Il gioco dell'"uscire di casa", per poi comunque ritornare, è costante in tutto il libro.Cometa ha poi sottolineato come "Tra i due mari" sia un libro sulla letteratura, su cosa possa essere la letteratura in questo inizio di secolo. Nel libro infatti sono facilmente riconoscibili i grandi temi e le figure del mondo letterario di tutti i tempi. In particolare, fortissima in Abate è l'influenza di Alexandre Dumas, soprattutto per quanto riguarda la letteratura odeporica, cioè di viaggio;Ma oltre le migrazioni, ciò che caratterizza "Tra i due mari" è il sentimentalismo. Il libro affronta i grandi sentimenti, ma senza fare degli smielati "idilli campestri" perché si tratta di un sentimentalismo eroico. "Vado orgoglioso del sentimentalismo dei miei testi - ha detto Abate - perché vuol dire che la mia è una letteratura di potenza". I personaggi sono eroi a tutto tondo, ma non nel senso che compiono delle cose straordinarie, ma perché sanno mescolare con sapienza azione e sentimento. Ad ogni modo i personaggi di Abate sono quotidiani, anche se nessuno di loro viene considerato secondario o "di contorno", pur nella semplicità delle situazioni. "Mi piace andare in fondo ai miei personaggi - ha continuato l'autore - anche col rischio di scadere nella retorica e nella nostalgia eccessiva". Elemento che in ogni caso non si ritrova nelle sue opere, soggette ad una costante revisione. L'intervento del professor Altimari invece si è concentrato sulla ricerca di identità all'interno dei libri di Abate, altro elemento ricorrente della sua poetica. Il viaggio non è semplicemente svago, ma è un percorso alla ricerca di sé, non tanto degli altri. Il protagonista non termina mai il suo viaggio perché non trova la sua identità ed è costretto a ricominciare la ricerca. Altimari ha inoltre fatto delle considerazioni sull'origine albanese di Abate. Secondo lui, lo scrittore è forse l'esponente più importante della cultura arberesh di questo periodo. Anche se in quest'ultimo libro gli albanesi sono solo sullo sfondo, grazie alla sua opera narrativa complessiva la comunità arberesh ha trovato espressione e ha riscoperto una nuova identità. E nell'ascoltare queste parole di Altimari, ad Abate luccicavano gli occhi.


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