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2 marzo 2002
Tra
due mari, Abate restaura la locanda di Dumas
di Sergio Pent
I
precedenti romanzi di Carmine Abate,
Il ballo tondo
e
La moto di Scanderberg
, si caratterizzavano per la forte, emotivamente ricca componente etnica
accompagnata al gusto intenso - metabolizzato - di una ispirazione poetica
commossa, naturale. Le radici «arberesh» dell´autore diventavano il punto d´incontro
della memoria e della suggestione mitica, per cui la valenza dei testi assumeva
connotazioni corali adatte a dipingere non solo le tradizioni di un popolo, ma
la sua particolare collocazione in un contesto europeo che parte da molto
lontano per cercare le sue radici. In questo nuovo lavoro Abate tenta invece la
carta della narrazione pura, ancorché legata alla terra d´origine, una
Calabria questa volta più calligrafica negli acquerelli del ricordo: Roccalba
è un paese arroccato nella quiete delle campagne, «tra due mari» - lo Ionio e
il Tirreno - ed è soprattutto il luogo eletto di una cultura contadina che
caratterizza la forza dei suoi abitanti nell´intensità viscerale delle
appartenenze antropologiche. La storia narrata da Abate è un commosso
melodramma familiare, che se da un lato diversifica - e in parte sminuisce - l´intensità
originale e unica dei romanzi precedenti, dall'altro esibisce nuove capacità
affabulatorie dell´autore, in grado di spaziare nel mare aperto dell'invenzione
letteraria e di gestire con accortezza personaggi e situazioni. Il percorso è
una sorta di viaggio iniziatico nel tempo e nella memoria: un andarsi incontro
da molto lontano tra le ataviche suggestioni di un uomo rude ed eroico - il
solido protagonista Giorgio Bellusci - e un ragazzo che gradualmente trasforma
la sua diversità in appartenenza, la sua giovane riottosità in volontà di
recupero dell´antico sogno di famiglia. Florian è infatti il nipote di Giorgio
Bellusci, nato dal matrimonio tra sua figlia Rosanna e l´integerrimo Klaus
Heumann, tedesco di Amburgo e figlio a sua volta di un altro grande personaggio,
il fotografo Hans, artista di fama mondiale. Hans e Giorgio si conobbero in una
remota stagione del 1950, e la loro amicizia attraversa i decenni, legata -
anche - da quel singolare nastro d´amore da cui nascono Florian e suo fratello
Marco. L´eroicità del passato è ricucita da Abate in stralci memoriali di
sapore latinoamericano, favolosi quanto ricchi di illusioni inattaccabili: il
sogno antico di Giorgio Bellusci è quello di far rivivere dai suoi ruderi il
mitico Fondaco del Fico, la locanda in cui si fermò a riposare il grande
Alexandre Dumas in un suo tour italiano del 1835. Sogno superbo e inaccessibile,
ma Giorgio vive in sua funzione e progetta di metterlo in cantiere proprio
quando la malavita locale comincia a pretendere il suo tornaconto. Il gagliardo
macellaio calabrese appende l´esattore mafioso a un gancio del mattatoio e
sconta otto anni di carcere. Sono gli anni in cui nel nipote Florian - che
trascorre le vacanze estive a Roccalba - cresce la consapevolezza di quella
parentela scomoda con un uomo ai suoi occhi poco raccomandabile. Il percorso di
avvicinamento è quindi quasi un rito iniziatico, tra il nonno nuovamente libero
e il nipote che sente crescere dentro negli anni l´urlo delle radici, il sogno
che gli appartiene come la più nobile delle eredità. Ormai diciannovenne, il
ragazzo rimane a Roccalba ad aiutare nella sua impresa il nonno ritrovato, e
incontra l´amore nelle forme sinuose di una bellezza locale, Martina, anche se
le parti relative alle effusioni sentimentali dei due giovani sono forse troppo
decorative e formali nella complessiva tensione epica del romanzo. Un romanzo
che vince comunque nelle sue intenzioni di parabola dei grandi sogni dell´uomo,
e sa recuperare con estrema partecipazione la necessità sempre più impellente
delle tradizioni, in una sorta di realismo magico che unisce le rievocazioni
rurali di Silone e di Strati alla innata capacità dell´autore di mitizzare il
ricordo attraverso il passo della leggenda. Finirà tra malinconia e speranza,
il sogno gagliardo di Giorgio Bellusci; ma la vita, come i sogni, continua, e
nella volontà d´appartenenza alla terra di Florian anche i sogni sembrano
poter trovare una loro giusta, serena collocazione.
Avvenire
23 febbraio 2002
Narrativa
italiana .
Dopo «La moto di Scanderbeg», una vicenda tra Nord Europa e Calabria
Abate,
il racconto di tre generazioni
di
Fulvio
Panzeri
Dopo
il successo di critica ottenuto con «La moto di Scanderbeg», Carmine Abate
ritorna con un nuovo affascinante romanzo, che rimane, in linea, per temi e per
paesaggi, con la ricerca che lo scrittore italo-albanese ha portato avanti in
questo decennio. Abate ripropone il tema del viaggio e del confronto tra culture
diverse, quella del Nord Europa e quella del Sud italiano e in particolare della
Calabria, una terra che, rispetto ad altre zone del Sud, ha avuto pochissimi
interpreti. Ora, a continuare la solida tradizione tracciata da Corrado Alvaro e
da Saverio Strati, abbiamo appunto i romanzi di Carmine Abate.
Questa storia affonda anche in radici storiche e nella tradizione degli antichi
viaggiatori nei loro tour italiani. Infatti uno degli elementi di raccordo del
romanzo, diventando anche un insolito protagonista, è una locanda, il Fondaco
del Fico, visitata nel 1800 anche da illustri viaggiatori, come Dumas.
È un'eredità di famiglia, che ora è solo un rudere, intorno al quale ruotano
i sogni di Giorgio Bellusci, uomo di un certo carattere, nonno dell'io narrante
del libro, un ragazzo che non ha ancora vent'anni che arriva in Calabria da
Amburgo, quasi controvoglia, per seguire i genitori in vacanza. In particolare
si dimostra forte il legame della madre, con il padre appunto Giorgio Bellusci,
legato da un altro filo di solidarietà con il nipote, essendo il padre di
questi, figlio di un suo amico, un fotografo tedesco che inizia la sua fortuna
proprio dalla Calabria, dove ha incontrato appunto Giorgio.
È una storia di generazioni a confronto quella che racconta Carmine Abate, in
cui vengono messi a nudo rapporti contraddittori, egoismi, necessità di una
fedeltà alle proprie radici. Pur raccontando di tre generazioni diverse, quella
dei padri, quella dei figli e quella dei nipoti, il fulcro della vicenda si
attesta intorno alla figura dei «padri», che in qualche modo hanno orientato
il destino dei figli. Al nipote non resta altro che decifrare solidità,
ambiguità o segreti celati attraverso i rapporti. È singolare così l'amicizia
che si instaura tra i due padri, Giorgio, l'uomo del Sud, legato alla tradizione
della sua «Calabria», con il forte desiderio di ricostruire il Fondaco del
Fico e Hans, il tedesco, che gira per il mondo, senza radici precise, tutto
concentrato sul suo successo come fotografo, un po' leggero nei rapporti, venati
da un fondo di egoismo di cui fa le spese anche il figlio. La figlia di Giorgio
sposa il figlio di Hans e loro sembrano subire i «fallimenti» dei genitori,
assistendo impotenti alle loro sconfitte morali ed esistenziali.
Entrambi i due amici, Giorgio e Hans, devono fare i conti con l'assenza.
Giorgio, pur di non cedere ai ricatti della malavita locale che gli chiede il
pizzo per il negozio di macelleria ben avviato che ha in paese, fa giustizia da
sé per i continui soprusi che deve subire; uccide un uomo e finisce in carcere.
Hans volontariamente si distacca dal figlio, ritornando solo per fugaci
ricomparse. Il nipote, Florian, osserva la complessità di questi legami
familiari, cercando di capirne i segreti, non accontentandosi della superficie o
delle false verità che gli vengono raccontate dai genitori. Se dapprima ha un
atteggiamento quasi ostile verso la terra della madre, affrontando i viaggi da
Amburgo alla Calabria con un sentimento di noia e quasi di fastidio, poi
lentamente, riesce a recuperare, insieme alla lucida verità sulle persone,
anche una complice solidarietà con il nonno e con il mondo originario della sua
famiglia.
Questo romanzo, complesso nella dinamica e nello sviluppo dei sentimenti, si
regge sulla scrittura di Carmine Abate, secca quanto basta, impastata con il
sole e con l'arsura di una terra in cerca di una nuova moralità che passa
attraverso il recupero di una tradizione.
Gazzetta
del Sud
2 marzo 2002
«Tra
due mari», romanzo di Carmine Abate
In un sortilegio di ricordi la storia di una famiglia
di
Giuseppe
Amoroso
E'
adagiato tra colline argillose, boschi di lecci e burroni, il
Fondaco del Fico, un'antica locanda ora in rovina. Lontano è il mare, la strada
che porta al vicino paese di Roccalba, piena di buche, sembra massacrata da un
bombardamento aereo. Tra lo Ionio e il Tirreno, soffocato dalla calura estiva,
il borgo è una gran festa di vicoli e fiori sotto un cielo carico di stelle. Da
questo paesaggio calabro calcinato di luce spunta, disegnato a tutto tondo,
Giorgio Bellusci sulle cui tracce, per poterlo riprendere nella custodia sacra
delle memorie, si pone il giovane nipote Florian, il narratore che ha il compito
di snodare i viluppi di destino e di terra che Carmine Abate dissemina in Tra
due mari (Mondadori, pp. 199, euro 14,60). Trapassata di stimoli brucianti, che
lasciano scie presto contese e smorzate dall'ombra e dai suoi giochi, la prosa
sposta ogni pur deciso e calibrato dettaglio, il gesto stampato nell'aria,
l'aria stessa increspata di presenze, la voce che raccoglie un brivido di
emozioni, verso una metamorfica simbiosi di uomini e natura, facendo cadere il
sottile filo di demarcazione al di là del quale tutto rimane disperso,
allarmato, preso in una deformazione ossessiva, non impietosa, però, né
metallica. Abate dà al suo universo stralunato la fiera impronta di una
condizione che si piega su se stessa, si stravolge fino a sfigurarsi in una
contaminata forma di mistero. Bellusci attraversa la campagna d'agosto come
dentro un «sogno inquieto del mattino», urla come «inseguito dalla morte»,
lancia nei momenti più convulsi, «lampi di odio puro» dagli occhi «striati
qua e là di nero come due castagne luminose». Il suo sogno è quello di
restaurare la vecchia locanda, un tempo la più famosa della regione e la più
citata dai viaggiatori stranieri. Uomini illustri vi si sono fermati, come
Alexandre Dumas e, nel secondo dopoguerra, il noto fotografo tedesco Hans
Heumann. Epica e documentaria, rapida e guizzante nelle sporgenze dei fatti
avventurosi, pausata e scheggiata di visioni stravolte in una fuga di scenari
favolosi, la narrazione sventaglia sorprendenti episodi nella voce di Florian
che racconta la storia dei luoghi, della famiglia e della propria vita, traendo
in un impasto di stupori e verità, un sortilegio di ricordi d'adolescenza e la
radiosa sensazione di stare in pace con se stesso e con il mondo. Sgusciano gli
episodi dalle cose, dalle pieghe dei giorni, da vicende talora drammatiche e da
quel vivere errabondo tra Amburgo e l'«inferno d'afa» della Calabria. Mosso
dai racconti della mamma e filtrato dalla partecipe attenzione del figlio
Florian, il flusso degli eventi si arricchisce di un doppio registro espressivo
derivandone un'elaborazione sicura, linguisticamente molto controllata e anche
una sorta di intonazione composita, in cui gli oggetti, le figure, l'ambiente
passano con il loro commento interno, hanno una qualità avvincente d'intrigo e
un'altra di riflessione («Adesso finalmente arriverà al Giorgio Bellusci dei
nostri giorni, pensavo, al padre macellaio fissato con il Fondaco del Fico e le
angurie fredde, mi dirà cosa ha combinato, finalmente. La mamma era convinta di
leggermi nei pensieri...»). Le interruzioni secche e le riprese altrettanto
determinate imprimono un andamento tensivo a questo libro intimistico e
spettacolare, costantemente rigato da un riverbero strano, da un filo di piccole
realtà che si eclissano senza un visibile motivo, proprio quando più sembrano
essere lì, solidi elementi necessari al contesto. Nell'atmosfera appannata
anche i visi sorridenti sono attesi dalla chiamata dell'ignoto, dal beffardo
teatro della vita ingannatrice. Fitto di spunti (dalle citazioni di libri e film
al culto dei costumi locali; dalle trame amorose allo zigzagare di oscuri
segreti; da una gita sull'Alster ghiacciato a una cruda pagina sul banditismo
calabro dell'Ottocento), il romanzo, lesto pure nel distendersi in strutture
corali, si coagula soprattutto intorno alle improvvise irruzioni di Giorgio
Bellusci, «sognatore incallito», coinvolto in un omicidio, e alla presenza
dell'appassionata Martina, la giovane e bella compagna di Florian. Abate pratica
con successo la strategia dello spiazzamento, sposta in un vortice di eventi i
personaggi: alcuni, di rilievo, finiscono talvolta sullo sfondo con «contorni
pallidi e sbiaditi»; altri prendono uno scatto imprevedibile, come Hélène,
moglie di Heumann, la quale sembra «una statua maestosa di Michelangelo».
Accadimenti basilari vanno in dissolvenza, dettagli di margine si avventano sul
primo piano con una vertiginosa evidenza. V'è posto per un manoscritto di Dumas
e per un attentato intimidatorio in questa cronaca lenticolare che conosce lo
stupore e la lenta crescita di una psicologia, il risveglio di una coscienza in
accordo con l'esterno esuberante, acceso da un'animazione incredibile.
Trattenuti appena da un'intensa sillabazione di sentimenti scorrono quadri di
limpida bellezza, dove il racconto delle persone è racconto di immagini, luci,
nuances. Veduto dall'alto di un monte il Fondaco del Fico «assomiglia a una
nave sopra un mare verde e giallo». Un miracolo di serenità e di bellezza su
cui si avventa il rombo del buio.
La
Sicilia
19 febbraio 2002
Tra
due mari
di Giuseppe Traina
Affermava Carmine Abate nel 2000, su “L’Indice”: «Lo scrivere in una
lingua diversa dalla madrelingua ha anche un vantaggio, soprattutto per chi come
me scrive su temi come l'emigrazione, le minoranze: un certo distacco dalla
materia trattata, una specie di filtro capace di eliminare le scorie
tradizionali più inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata.
Questa lingua-distanza è per me la chiave per rientrare nei miei luoghi o
raccontare i miei personaggi arbëreshë o germanesi, attraversati più o meno
consapevolmente dal plurilinguismo e dal multiculturalismo».
Bisogna, credo, partire da
queste parole per capire l’evoluzione della sua scrittura alla luce di Tra
due mari (Mondadori, 2002), il suo romanzo più felice, arioso, composito.
Nei primi due romanzi – Il ballo tondo (Marietti, 1991; poi, rivisto,
Fazi, 2000) e La moto di Scanderbeg (Fazi, 1999) – avevamo amato la
capacità di rappresentare, con sensibilità trepidamente rivissuta, l’ibrido
stato di sradicamento e di attaccamento alle radici culturali di chi parte o
prova a ritornare ad Hora, paese di lingua e cultura arbëreshë della Calabria
più povera, da cui quasi tutti emigrano per trasformarsi in “germanesi”.
Attraverso anche racconti
(Il muro dei muri, Argo, 1993) e poesie (Terre di andata, Argo,
1996), Abate ha sondato i vari strati che compongono la cultura e il patrimonio
esistenziale di sé e della sua gente: arbëreshë, calabresi, italiani,
germanesi. Nei racconti ha privilegiato la realtà tedesca degli emigrati, dei
“germanesi”. Nei romanzi ha creato un microcosmo compiuto, l’immaginaria
Hora, facendone un crogiuolo di antiche memorie mitiche (l’eroe nazionale
Scanderbeg, l’aquila a due teste) e di contraddizioni reali del presente:
povertà, invidie, rancori, soprusi, incomprensioni fra chi parte e chi rimane,
fra slanci di fuga e nostalgie di ardui ritorni. Una realtà bella e povera,
sostanzialmente struggente, che può improvvisamente illuminarsi al canto di una
rapsodia tradizionale, a un ballo tondo, al sogno del volo di un'aquila
bicipite.
Tra due mari è
un’altra cosa: è ancora Calabria, è ancora Germania, ma non è più
arbëreshë.
Eppure, sottotraccia, lo è ancora. Provo a spiegarmi meglio, anche se nulla sarà
più chiaro dell’auspicabile lettura del romanzo. Non siamo più ad Hora, ma
in un altro paese altrettanto piccolo e povero, collocato fra Ionio e Tirreno:
vi si fermò Alexandre Dumas, alloggiando alla locanda Fondaco del Fico,
scrivendone nel suo diario di viaggio, custodito come una reliquia dai
discendenti Bellusci; ma la locanda fu distrutta dalle truppe regie inviate a
reprimere il brigantaggio: una ferita non rimarginata, testimoniata da un rudere
imponente. Intorno a questo testimone muto s’incardina il sogno del
settantenne Giorgio Bellusci che vuol costruire un albergo moderno. Chi ha letto
Il ballo tondo e La moto di Scanderbeg sa quanto siano importanti,
per Abate, i progetti arditi e le figure di vecchi dal vitalismo indomito: la
novità è che quello che nei primi due romanzi era arbëreshë ora è
calabrese. E, conseguentemente, se nei romanzi di Hora le controspinte
all’immobilismo e alla rinuncia erano tutte interne al microcosmo, nutrite di
inerzia e di scetticismo, qui appaiono, minacciose, le remore storiche, i mostri
della realtà più violenta: in una parola, la ‘ndrangheta. Che vuole
imporre a zu’ Giorgio Bellusci la legge del pizzo: ma l’uomo si ribella,
uccide il mafioso che lo minaccia e lo appende ad un gancio della sua
macelleria. Ne ricaverà otto anni di carcere ma non abbandonerà il suo sogno,
che assumerebbe contorni retoricamente titanici se egli, scontata la pena, non
avesse l’intelligenza di associare a sé energie nuove: il nipote Florian,
figlio della figlia e di un mite bancario tedesco, nato e cresciuto ad Amburgo e
dunque nemmeno “germanese”, ma tedesco a tutti gli effetti.
Il ragazzo, che è poi l’io
narrante, fatica a capire il sogno del nonno, verso il quale, anzi, manifesta
fin da bambino una sorda ostilità che gradualmente si trasforma in ammirazione
e, infine, in condivisione del progetto. E’ aiutato, in questo, dall’amore
di Martina, entusiasta ammiratrice di zu’ Giorgio, splendida ragazza nella
quale ritrova la solarità di tutte le donne della sua famiglia. In questo
orizzonte di positività femminile, sbiadiscono le figure maschili, il padre
Klaus e lo zio Bruno, ad eccezione del nonno e del suo amico di tutta una vita:
il fotografo tedesco Hans Heumann, che nell’immediato dopoguerra lo portò con
sé in un memorabile viaggio di gioventù alla scoperta di una Calabria arcaica
da immortalare con l’obiettivo. Attenzione: questo fotografo, diventato una
celebrità internazionale, è anche il nonno paterno di Florian, e avrà un
ruolo decisivo nella sospirata riedificazione del Fondaco del Fico. Se – come
è inevitabile in un romanzo così frondeggiante di storie e personaggi
accattivanti – mi sono finora dilungato sulla fabula del testo, è
arrivato il momento di fermarsi qui. Tra due mari è così pieno di
sorprese, di svolte narrative impreviste eppure ben calibrate in uno
studiatissimo gioco di equilibri, che non spetta al recensore svelare per intero
un intreccio di tale piacevolezza. Anche perché è la conclusione a racchiudere
il sugo, dolceamaro, della storia, a connotarne ideologicamente i germi solari
della speranza e dell’ottimismo ma pure l’ombra lugubre della violenza
persistente (e in tal senso, forse, come non molti romanzi italiani di oggi,
questo sembra prontissimo ad un adattamento cinematografico, magari per la
cinepresa del calabrese Amelio).
Vorrei piuttosto soffermarmi
sulla qualità della strutturazione del testo, tutta giocata sul tema del
viaggiare. Da due viaggi muove tutta la vicenda: quello ottocentesco di Dumas e
del suo amico pittore Jadin, replicato da quello novecentesco di Hans Heumann e
Giorgio Bellusci, scandito dalla luce e dalle rondini, da un infinito sentimento
di libertà. E sui tragitti Germania-Calabria di Florian e dei suoi familiari
sono scanditi i capitoli del libro: viaggi invernali in una Calabria innevata e
riscaldata dai fuochi delle tradizioni natalizie, ma soprattutto in
un’abbagliante Calabria estiva, fitta di boschi pronubi e di sensualità.
Viaggiano i personaggi, viaggiano anche i racconti: come gli altri di Abate (La
moto di Scanderbeg cominciava così: «“E poi ci raccontò
quest'incredibile storia"»), anche Tra due mari è caratterizzato
dal dominio dell’oralità. Il ricordo della sosta di Dumas, infatti, è
affidato meno al romantico scrigno profumato di bergamotto che ne racchiude il
diario che ai racconti tramandati all’interno della famiglia Bellusci e dei
quali la madre di Florian è appassionata vestale.
E’ su questa problematica ma
tenace oralità che si fonda l’epicità dei testi di Abate, e di
quest’ultimo in particolare. Perché - e qui torna impercettibilmente il
retroterra arbëreshë – forse un’epica è ancora oggi possibile: non nelle
forme, che sanno tutte le scaltrezze novecentesche della manipolazione
dell’intreccio, delle voci, dei punti di vista; ma almeno nella sostanza
residua, nel nocciolo ingenuo e fascinoso di un mondo che conosce tuttora la
dimensione del “vicinato” e che guarda al passato come patrimonio di
archetipi ancora riproponibili – in qualche arduo modo - nel presente. Se La
moto di Scanderbeg – come scrisse Francesco Roat – poteva essere «un'epica
minore dove si narra l'antieroica impresa di sopravvivere», Tra due mari segna
un passaggio ulteriore, che mi pare, tutto sommato, un progresso: un’epica che
va oltre la mera sopravvivenza, nella dimensione progettuale dell’utopia,
rinsaldata e resa possibile dalla staffetta generazionale nonno-nipote. Solo che
questa staffetta rimuove la presenza del padre: Klaus, il padre di Florian, è
un testimone muto, sorridente, impacciato, affettuoso ma sostanzialmente
estraneo al mondo calabrese che è riuscito, col richiamo potente dei miti, a
risucchiare il ragazzo tedesco. Tanto che l’accordo finale tra nonno e nipote
finisce per essere, in modo forse fin troppo ottimistico, un modo di risolvere
più laceranti conflitti di natura psicologica, le cui tracce sono però
l’ennesima ricchezza del libro. Senza parere, ché apparentemente il passo è
epico e felice della pura fabulazione, viene fuori da Tra due mari una
potente rappresentazione dell’incomunicabilità fra padri e figli maschi: se
l’accordo regna sovrano fra Giorgio Bellusci e le due figlie femmine, e tra
Florian e la madre, il rapporto fra Hans Heumann e il figlio Klaus è
dolorosamente fallimentare. Un padre assente per eccesso di irrequieta vitalità,
un figlio che si chiude nel silenzio, nell’oscuro lavoro impiegatizio. Klaus
è l’uomo che porta in faccia «il sorriso finto buono di chi teme gli altri e
la vita», che guarda timidamente un padre troppo ingombrante: nemmeno la
propria paternità gli ha permesso di superare questo enorme bisogno di padre,
di essere gradito ad un padre che, - quando Klaus gli mostra, orgoglioso, un suo
saggio pubblicato da un’importante rivista americana -, non trova di meglio
che deridere la serietà della rivista, parlando di se stesso, come sempre.
E quando anche un personaggio
secondario, come qui Klaus, riluce di tale verità, bene, questo è il segno che
siamo di fronte ad un grande romanzo.
Corriere
della Sera
24 marzo 2002
Il racconto di
atmosfere e suggestioni della Calabria
di Ermanno Paccagnini
Ionio e Tirreno: questi innanzitutto i due
mari del titolo, che abbracciano la terra calabra in mezzo alla quale sta il
Fondaco del Fico. Ma quei «due mari» sono anche, e ancor più, i luoghi-anime
del Mare del Nord e del Mediterraneo che si uniscono sempre più in Florian,
nato da una emigrata italiana sposa al figlio del grande fotografo Hans Heumann,
nel corso dei quattro viaggi da Amburgo alla Calabria che ne segnano la vita, ne
marcano la crescita, ne cadenzano la presa di coscienza: di se stesso; e dell'
amore per una terra, una cultura, una storia che si distende per oltre un
secolo, un sogno.
Con Tra due mari Abate - e lo scrive chi pur ha grandemente apprezzato Il ballo
tondo (1991) e La moto di Scanderberg (1999) - ci dà il suo romanzo più
completo e maturo. Il più difficile da realizzare, perché vi fonde tutti i
motivi della sua narrazione, compresa l' esperienza dei racconti d'emigrazione
del Muro dei muri (1993). Perché questo è Tra due mari: un romanzo al tempo
stesso mosso e sospeso: insieme d'avventura e poesia; d' emigrazione e nostalgia
non solo d'una terra ma d'un mondo e una cultura; della storia e del ricordo;
della forza e della tenacia (quella del nonno di Florian, Giorgio Bellusci: e
del suo sogno di ricostruire il Fondaco del Fico); ma anche della tenerezza (di
Giorgio con la moglie; di Florian con la fidanzatina Martina), con una ricca
serie di personaggi vivi, amorevolmente cesellati. Che però lasciano al Fondaco
il ruolo di protagonista. Quel Fondaco visitato nel lontano 1835 da Dumas padre
e Jadin che vi hanno lasciato un diario di viaggio e un disegno, amorosamente
trasmessi in famiglia. Che accoglieva in pace chiunque vi bussasse, fossero pure
briganti: finendo per questo bruciato dalle forze dell' ordine. La cui immagine
fissata su una foto da un giovane tedesco sancisce la gloria e la carriera di
costui che, riconoscente, sosterrà l' amico Giorgio nella ricostruzione allorché
il suo sogno si scontra con la legge del pizzo e con la distruzione malavitosa:
cui conseguono una maggior forza di Giorgio e la presa di coscienza di Florian.
Fondaco come pluralità di metafore, insomma: prima tra le quali quella della
creatività, disegnata da Abate attraverso fatti, atmosfere, storie, parole
consegnate alla voce narrante di Florian. Il cui racconto memoriale è però
insieme ricerca delle origini proprie, ma specularmente, di quelle dello
scrittore che (lo si scopre nell' ultima pagina) ne è sollecitatore. E proprio
qui emerge la caratteristica di maturo equilibrio che dicevo. D' un romanzo che
sa fondere nel racconto scorci di narrazione meridionale e di emigrazione, tono
favolistico, atmosfere storico-leggendarie: sciogliendo il tutto in una oralità
che possiede il tono insieme eroico e sapienziale, tenero e anche malinconico d'
una precisa tradizione: quella poesia che avverti nei canti arbëresche: di
quegli albanesi d' Italia seguaci del grande Giorgio Scanderberg, di cui
Bellusci porta significativamente il nome.
L’Adige
9 marzo 2002
Successo
del romanzo «Tra due mari» di Abate
di Giuseppe Colangelo
La prima osservazione
che mi sento di fare dinanzi al nuovo romanzo di Carmine Abate «Tra due mari»,
appena uscito da Mondadori, è che si tratta ancora e sorprendentemente di un
libro straordinario. Dico «ancora e sorprendentemente» perché avendo già
Abate pubblicato due romanzi di così grande valore come «Il ballo tondo»
(1991) e «La moto di Scanderbeg» (1999), sospetto che non fosse per nulla
facile mantenere e riconfermare il loro livello.
Io credo che egli ci sia riuscito benissimo e vorrei qui provare a indicare
quelle che mi sembrano le ragioni più probanti di tale esito. A cominciare
dalla più evidente, e cioè il fatto che anche questa volta Abate ha saputo
inventare una storia densa e avvincente dove gli elementi realistici si fondono
mirabilmente con quelli fantastici.
Esemplifichiamo subito, ricorrendo all'immagine da cui ha certamente preso l´abbrivio
la narrazione e che Abate ha poi sviluppato fino a farla diventare il centro,
forte e suggestivo, intorno al quale ruotano tutte le vicende del romanzo: il
Fondaco del Fico.
Anche se oggi non ne resta che un povero muro annerito e sbrecciato, perso in un
mare di rovi e sterpaglie, è realmente esistita in Calabria una locanda con
quel nome. Ed è vero che ha ospitato molti importanti viaggiatori stranieri,
tra i quali il celebre autore dei Tre moschettieri, che l´hanno poi ricordata
nei loro diari, nei loro resoconti, nelle loro opere.
Così come è vero che l´etnologo calabrese Vito Teti citato in un punto
saliente del racconto quasi in veste di notaio che ne certifica l´autenticità,
ha scritto un saggio sul «Fondaco del Fico».
A questo materiale sapientemente «rubato» alla realtà e già di per sé
potente, lo scrittore calabrese ne mescola altro frutto di pura fantasia (l´eroico
sogno del protagonista, la sua amicizia col grande fotografo Hans Heumann, la
trovata, splendida, dell'albo manoscritto dimenticato da Dumas nel Fondaco del
Fico) e lo fa con tale maestria da rendere del tutto impercettibile la
distinzione tra le due dimensioni del racconto. Le quali sono - come dire? -
consustanziali. E vitali entrambi. Ne nasce allora un impasto narrativo capace
di tenere sempre viva ed emozionata l´attenzione di chi legge.
Ma Abate non è solo un abile architetto di storie ammalianti, Abate sa anche
disegnare con mano sicura e felice luoghi, atmosfere, ideali, passioni e
personaggi che non si dimenticano. Memorabili sono in questo romanzo, Giorgio
Bellusci con il suo sogno confitto nella carne e nell'anima («[…] dentro di
lui il Fondaco del Fico c´era già e cresceva come una pianta ciòta, quelle
che sopravvivono anche tra le pietre dei muri, con una goccia d´acqua e due
granelli di terra, ma che diventano le più belle. L´importante era di non
estirparne le radici […], tutto il resto si fa, col tempo, cresce, resiste
pure ai terremoti della vita se le radici sono vive e sanguigne come la robbia»);
e Rosanna Bellusci che alimenta, incoraggia e protegge il sogno del padre con il
suo affetto, con la sua determinazione, con la sua cultura («Fu la mamma che
provò a risollevare il morale del padre, nell'unico modo possibile rievocando i
tempi felici in cui il Fondaco del Fico era la locanda più famosa della
Calabria o almeno la più citata dai viaggiatori stranieri dei secoli scorsi.
Lei, da brava insegnante, conosceva i nomi di quei viaggiatori a memoria e li
spalmava sul panino a ogni occasione, anche ad Amburgo, soprattutto se a casa
nostra c´erano ospiti tedeschi»); e Florian, naturalmente, figlio di Rosanna e
voce narrante, dapprima scettico e spaesato - lui nato e cresciuto in Germania -
poi, via via, sempre più conquistato dalla figura del nonno calabrese e dal suo
sogno ostinato.
E neppure si dimenticano gli intensi flash-back sul passato, che inserendosi con
assoluta naturalezza nel flusso narrativo fanno riemergere alcuni snodi
significativi della vicenda familiare del protagonista incrociati con quelli,
non meno rilevanti, della storia della Calabria dall´epopea garibaldina al
brigantaggio; né gli incontri d´amore tra Florian e la sua ragazza, Martina,
intessuti di fresca e intrigante sensualità. Per non parlare, infine, del
paesaggio.
Che non è mai elemento decorativo, semplice sfondo o bozzetto convenzionale
bensì segno netto, lavorato col bulino, che contribuisce in modo rilevante a
delineare i tratti peculiari di una terra, la terra «tra due mari».
Chiudi il libro e ti restano dentro, indelebili, i suoi colori, i suoi sapori, i
suoi odori, forti come le passioni, come le lotte, come le delusioni, come le
speranze di chi in quella terra abita e vive.
Eccole dunque, in sintesi, le ragioni della piena riuscita di "Tra due
mari": ingredienti che fanno davvero romanzo (un intreccio ricco e vario,
una fabula costellata di azzeccati andirivieni, personaggi di grande spessore,
luoghi còlti nella loro essenza profonda) giocati con una sapienza compositiva
di prim'ordine. E su tutti quello che tutti li nutre, li armonizza e li esalta:
il linguaggio.
Quanta bella freschezza, quanta vitalità emanano le pagine di questo libro! Se
ne viene subito catturati e altrettanto presto si riscopre che l´arte
affabulatoria di Abate ha la sua fonte primaria proprio nel linguaggio. Un
linguaggio pieno di energia, di estro, di movimento da cui germoglia una
scrittura che sa essere ora evocativa, ora ironica, ora analitica, ora
cantabile, senza mai un cedimento, senza mai una zeppa, senza mai una caduta.
Con questo romanzo Carmine Abate conferma gli alti risultati già raggiunti e si
accredita come uno degli scrittori più originali e completi dell´attuale
panorama letterario italiano. Si tratta di un successo che non arriva
inaspettatamente, visto l´accoglienza riservata ai romanzi precedenti, ma non
era sicuramente impresa facile confermarsi a quei livelli. Risultato raggiunto.
Il Diario
14 marzo
2002
Avventura
e gioia in una felice prova narrativa
La locanda racconta
di Massimo Onofri
Di Carmine Abate si
conoscono due notevoli romanzi, ne abbiamo già parlato su queste colonne, Il
ballo tondo (1991) e La moto di Scanderbeg (1999), entrambi radicati nella vita
d’una comunità calabrese arbëreshe, e cioè italo-albanese.
Questi
dati di biografia e letteratura, dentro libri ricchi di innesti antropologici,
fanno di Abate uno dei pochissimi scrittori italiani (l’unico?) apparentabile
a tanti narratori di matrice etnica che, specie nell’ambito di realtà
post-coloniali, rappresentano il fatto veramente nuovo nella storia del romanzo
di questi ultimi decenni. Questa volta, però, lo scrittore abbandona la
consueta Hora e gli albanesi di Calabria per spostarsi nella vicina Roccalba, un
altro paese calabrese, certo, ma a forma di ferro di cavallo, e adagiato «nella
parte più stretta dello Stivale, su una collina tra due mari», lo Ionio e il
Tirreno. È qui che si svolge la secolare vicenda del «Fondaco del Fico», una
locanda tra Pizzo e Maida d’importanza vitale per i viaggiatori, poi
distrutta, in un giorno di luglio del 1865, durante uno scontro a fuoco tra
briganti e militi della guardia nazionale. Occorre dirlo subito: quanto a
magnetismo simbolico, il «Fondaco» ha, in Tra due mari, la stessa forza
d’attrazione della verghiana casa del nespolo, se è vero che tutto il romanzo
cresce nel miraggio della sua ricostruzione.
In Tra due mari, insomma, viene a cadere il lato arbëreshe: resistono, però,
strategie e temi della narrativa di Abate, almeno così come l’avevamo
lasciata, allo snodo della Moto di Scanderbeg. E come nella Moto anche qui
acquista un’importanza decisiva il rapporto Calabria-Germania (figlio d’un
tedesco ed una calabrese è, infatti, il protagonista-narratore), lungo il cui
asse si svolgono alcune delle vicende che tramano il libro: e siamo alla terza
radice dello scrittore, oltre a quelle italiana e albanese. Rimane poi quel modo
di scendere e salire per i rami d’un albero genealagico, che qui non
s’arresta alle tre principali generazioni (il nonno materno del protagonista,
Giorgio Bellusci, e quello paterno, Hans Heumann, tra i più grandi fotografi al
mondo; il padre Klaus, frastornato e compiacente, al perenne inseguimento
dell’inafferabile genitore, e la madre Rosanna, di struggente sensualità, «occhi
di mediterranea rapinosa»; ilprotagonista e la sua incantevole Martina), ma
arriva a comprendere gli antenati ottocenteschi del Bellusci, appunto i gestori
del «Fondaco». Anche in Tra due mari, poi, c’è un evento del passato che
funge da nucleo irradiante di tutta la vicenda e che guadagna quasi un valore
archetipico, da origine delle origini: se nella Moto, oltre allo Scanderbeg
protagonista, ce n’era uno più antico, l’eroe che guidò la comunità
albanese contro gli invasori turchi, qui troviamo il passaggio d’un insolito
Alexandre Dumas al «Fondaco», nel 1835, dove dimentica quel suo taccuino di
viaggio che i Bellusci, di generazione in generazione, custodiscono
religiosamente.
Ma è quella singolare attitudine a sollevare i personaggi entro un cielo di
leggenda che garantisce la più vera continuità. Sentite qua. È Hans Heumann
che ricorda l’incontro con il suo grande amico Giorgio Bellusci: «Aveva gli
occhi di un marrone mai visto, un marrone bruciato dal sole. (...) In quegli
occhi c’era orgoglio tenerezza caparbietà passione fuoco sole e, in fondo
alle pupille, qualche rimasuglio di pioggia e di rancore, sul punto di sprizzare
fuori. Sì, lo so, ne parlo come un innamorato. E un po’ lo ero». Il romanzo,
pur spalancato sul futuro, non ha un lieto fine: ma non al punto da imbrigliare
lo straordinario ottimismo biologico che Abate sa tradurre in avventura,
espansione vitale e pura gioia di movimento: festa della scrittura.
L’Unione
Sarda, 23.3.2002
Un romanzo di Carmine Abate per Mondadori dove s’intrecciano riti e
miti
Tra due mari
di Guido
Caserza
Chi volesse oggi capire quale sia la via
migliore per vivere con intelligenza la propria identità e al contempo
arricchirsi culturalmente dovrebbe leggere i romanzi di Carmine Abate, un
albanese d’Italia, nato nel 1954 a Carfizzi, piccola comunità della Calabria
ed emigrato da giovane in Germania. L’autore ha esordito nel 1991, pubblicando
Il ballo tondo da Marietti, nel 1999 ha fatto uscire La moto di
Scanderbeg da Fazi e ora è approdato alla Mondadori con il nuovo romanzo Tra
due mari (pp. 1199, euro 14,60). In mezzo una raccolta di racconti (Il muro
dei muri, Argo, 1993) e poesie (Terre di andata, Argo, 1996).
Attraverso questi libri Abate restituisce l’affresco di una cultura e di una
popolazione composita, mescolando i dati dell’epopea albanese con quella dei
germanesi, i riti arbëreshë con le tradizioni calabresi, sempre con una
sensibilità acuta ma mai struggente. I personaggi dei romanzi di Abate, in
bilico fra sradicamento e attaccamento alle radici non concedono infatti nulla
alla nostalgia di genere : mai un cedimento verso il bozzettismo, tipico della
narrativa d’emigrazione, mai un ammiccamento al lettore o una concessione al
patetismo.
Caso mai, troviamo in Abate la capacità di conciliare linguaggi e culture
diverse, ed è questa la via all’arricchimento di cui dicevamo sopra : la
mescolanza delle genti e dei linguaggi, la rivendicazione della propria identità
senza per questo rivendicare la purezza della propria etnia.
Veniamo dunque a questo nuovo romanzo che è, a nostro parere, l’espressione
più matura della narrativa di Abate. Innanzitutto notiamo la nuova
ambientazione : non più il microcosmo immaginario di Hora, il paese di lingua e
cultura arbëreshë della Calabria più povera dei precedenti romanzi, ma un
altro paesino, Roccalba, collocato fra Ionio e Tirreno. Vi si fermò Alexandre
Dumas, alloggiando nell’ottobre del 1835 alla locanda Fondaco del Fico,
distrutta dalle truppre regie e che il settantenne Giorgio Bellusci sogna di
ricostruire.
Ma in questo nuovo romanzo calabrese Abate ha introdotto anche un nuovo elemento
sventuratamente storico : la ‘ndrangheta, che impone a zu’ Giorgio Bellusci
la legge del pizzo. E qui lo snodo narrativo è epico e improntato a sfrenato
vitalismo : Bellusci uccide il mafioso che lo minaccia e lo appende ad un gancio
della sua macelleria. Sconterà otto anni di carcere ma non per questo
abbandonerà il suo sogno, coinvolgendo nell’impresa il nipote Florian, nato e
cresciuto ad Amburgo. L’ingresso in scena di Florian, che è poi l’io
narrante, determina una svolta narrativa e tematica molto importante : il
romanzo si arricchisce infatti del motivo del rapporto fra le generazioni, che
è un rapporto anche conflittuale, poiché il giovane da principio non condivide
il sogno del nonno.
A partire da questo punto Abate districa con grande abilità i fili di un
initreccio sempre più ricco di snodi e di personaggi. Memorabile la figura del
fotografo tedesco Hans Heumann che avrà un ruolo decisivo nella riedificazione
del Fondaco del Fico e che con il suo obiettivo ha immortalato i paesaggi
arcaici della Calabria. Notevole anche l’equilibrio strutturale del romanzo
che ruota attorno al tema principale del viaggio : i capitoli sono infatti
scanditi sui percorsi Germania-Calabria di Florian e dei suoi familiari mentre
alla tradizione orale sono affidati i racconti del passato, come la sosta di
Dumas all’antica locanda che è, a ben vedere, il racconto archetipico sui cui
poggia questo romanzo, la cui conclusione ha l’amara dolcezza di un apologo
disincantato, di chi nulla vuole concedere alle facili lusinghe della propria
terra d’origine, probabilmente per averla troppo amata.
Gazzetta
di Parma,
30.3.2002
«Tra
due mari», saga familiare di Carmine Abate ambientata in un Sud fertile e
coraggioso
Il
sole e un manoscritto di Dumas
di
Silvia Ugolotti
L'umido, la polvere sembrano quasi
appiccicarsi alle dita mentre sfogli le pagine. C'è un'afa densa e pesante che
rallenta anche la narrazione, insieme ai ritmi di vita.
Scorrono fiacchi a Roccalba, una manciata di case nella Calabria remota, un
paesino «appoggiato come un ferro di cavallo su una collina tra due mari, lo
Ionio e il Tirreno».
«Tra due mari» (Mondadori, 197 pagine, 14,60 euro), tra due culture, tra due
generazioni: oscilla la storia raccontata da Carmine Abate, nato in una comunità
italo-albanese della Calabria, emigrato in Germania, stabilitosi in Trentino.
Con i suoi romanzi tradotti in molti paesi ha vinto diversi premi letterari. Con
l'ultimo libro colpisce per la bellezza dell'ispirazione e l'originalità dello
sguardo. E' una saga familiare, un romanzo intenso, ricco di vita e fisicità:
suoni, odori, luci che escono dalle parole e prendono forma, prepotenti.
Una scrittura leggera che affascina quella di Abate, quasi senza accorgersene,
un racconto in cui le cose vengono dette tra l'urgenza di comunicare e il
bisogno di silenzi.
Di lasciare che siano i gesti, i luoghi, le speranze e le amarezze a prendere
voce.
Florian Heumann, metà tedesco e metà calabrese, vive diviso tra due mondi
l'uno opposto all'altro. Si sposta da Amburgo a Roccalba. Da una città che
sembra impassibile agli eventi a una terra che porta dentro di sé il fuoco
degli istinti. Il furore delle emozioni. Una terra braccata dal sole, segnata da
boschi e burroni.
Stretta nell'abbraccio torrido dell'aria incendiata: «inferno d'afa che tarpava
le ali perfino all'odore dei garofani o delle ascelle, sfocava l'azzurro del
mare fino a farlo sparire, assorbiva le grida dei bambini e le voci da cicale
delle vecchie sui muretti dei vicoli come un'invisibile parete insonorizzata».
Florian se ne innamora piano, piano, lasciandosi conquistare dalla luce bianca,
dal frastuono della vita e dal fascino di un passato rimasto immutato nei riti e
nelle tradizioni, negli sguardi primitivi della gente, nelle passioni ataviche
che rimescolano le viscere.
Nel sangue di Florian corre prepotente il coraggio di suo nonno, l'audacia di
dar vita ai sogni.
Giorgio Bellusci ha un solo desiderio che sconfina nell'ossessione: ricostruire
il Fondaco del Fico che si affaccia sullo Ionio e sul Tirreno. E' la locanda del
padre diventata leggendaria per aver ospitato nel 1835 tre importanti
viaggiatori. Uno di loro era Alexandre Dumas.
Della locanda non sono rimasti che le rovine, un fico e il manoscritto di Dumas:
«Tutti avevamo capito che i resti del Fondaco del Fico andavano rispettati,
come quelli di un morto della famiglia. E che presto Giorgio Bellusci li avrebbe
fatti rinascere». Insieme, nonno e nipote, riescono a ridar vita all'albergo,
quando Florian impara a sentirsi a casa anche nella terra dove non è nato, ma
che impasta il suo sangue. La sua si trasforma piano piano in una sorta di
emigrazione alla rovescia. Insieme alle radici ritrovate capisce di aver anche
ereditato una delle cose più preziose al mondo: i sogni. E un amore, la
passione che lo lega per sempre alla ragazza dagli occhi color dei lecci e dal
sangue caldo come l'agosto.
La strada però non è semplice. Qualcuno vuole fargliela pagare a Giorgio
Bellusci. Ci sono pizzi da saldare, segreti da nascondere, pericoli da scampare.
Ma la Calabria che Carmine Abate racconta non è solo quella diffidente e
immobile. Al contrario, è il simbolo di una terra in movimento, fertile e
coraggiosa.
Italia Oggi
2 Marzo 2002
Tra
due mari
di Guido Conti
Tra due mari
di Carmine Abate è sicuramente uno dei romanzi più attesi della
stagione. Conteso da più case editrici, la storia di Giorgio Bellusci e
di suo nipote Florian, non tradisce le aspettative e si inserisce
perfettamente nella linea che via via, romanzo dopo romanzo, Abate ha
tracciato sulla sua ispirazione e la sua tematica.
Dopo aver esordito con Il muro dei muri in Germania nel 1984 e in
Italia nel 1993, e giunto al successo con Il ballo tondo e La
moto di Scandenberg, entrambi pubblicati da Fazi nel 1991 e nel
1999, la storia di Bellusci si gioca ancora tra la Calabria e la
Germania. Florian prima bambino e poi adolescente, conosce man mano che
il romanzo avanza la storia di Giorgio Bellusci, suo nonno, e di tutta
la famiglia del ramo di madre. Giorgio Bellusci ha un sogno, ha quello
di ristrutturare il fondaco del Fico, un antico e quanto mai diroccato
albergo e luogo di sosta di viaggiatori, famoso per esserci stato anche
Dumas e il pittore Jadin che avevano ritratto i suoi avi in un quaderno
di viaggio dimenticato nella locanda e rimasto come oggetto di culto che
si tramanda di padre in figlio. Dopo esserci stato bambino, Florian
torna con la madre e il fratello più piccolo in casa della nonna,
proprio il natale della scarcerazione di Giorgio Bellusci, colpevole di
aver impiccato con un ferro uncinato un uomo della 'ndrangheta che
chiedeva il pizzo per la sua macelleria. Ma Bellusci non si piega alle
violenze e decide di farsi vendetta da solo, dopo aver subito
l'uccisione di capi di bestiame e di ulivi e viti tagliate.
La storia di Florian in verità è un romanzo di formazione sulla presa
di coscienza di avere due anime, un "sangue misto"
calabro-tedesco, con un altro nonno, padre del padre, Hans Heumann,
grande fotografo. La figura virile, maschia, giusta fino al sangue, è
la tematica dominante dei libri di Abate, come già in Scandenbeg; a cui
si mescola il dissidio di avere due anime e due culture, una calabrese e
una tedesca.
E' impossibile riassumere il susseguirsi di alterne vicende, dosate con
sapienza narrativa, di questo che è il libro più maturo di Abate,
anche dal punto di vista stilistico (non compare mai nel romanzo la
parola 'ndrangheta). E' una lingua ricca; dalla pagina nascono gli
odori, i sapori, l'afa della Calabria nelle pagine più belle non solo
della rievocazione storica ma anche dell'amore di Florian per Martina.
Il nonno strapperà con forza la promessa del nipote di riordinare il
Fondaco anche dopo la sua morte, ma il resto della storia la lasciamo
alla gioia del lettore.
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Testata giornalistica dell'Università
di Palermo
7
marzo 2002
Abate
"Tra due mari":
perché transfuga linguistico?
Lo scrittore calabrese ha
presentato il suo libro alla Facoltà di Scienze della Formazione.
Nel romanzo importanti sono i viaggi e la ricerca di identità
di Monica
Diliberti
"Quando
scrivo, non ho tesi da dimostrare. Racconto e basta, sono un raccoglitore
di storie". Queste le parole di Carmine Abate che rappresentano al
meglio la "filosofia narrativa" di questo scrittore calabrese.
Ha presentato il suo ultimo romanzo, "Tra i due mari", nell'Aula
Magna di Scienze della Formazione a Palermo su invito della preside,
professoressa Patrizia Lendinara, e del professore Matteo Mandalà della
cattedra di Lingua e letteratura albanese. I relatori del seminario "Carmine
Abate, storia di un transfuga linguistico" sono stati Michele Cometa,
direttore del Dipartimento di Arti e Comunicazioni e docente di
Letteratura tedesca, e Francesco Altimari, pro-rettore dell'Università di
Calabria e docente di Lingua e letteratura Albanese. Il professore Cometa,
nella sua relazione, si è concentrato sulla struttura e sul significato
del romanzo di Abate. Questo libro è qualcosa di più di un'esperienza di
vita interculturale, uno dei temi preferiti dallo scrittore, ricollegabile
con la sua vita. Abate, infatti, dopo essersi laureato a Bari, si è
trasferito in Germania dove ha pubblicato i suoi primi libri. L'influenza
della cultura tedesca si respira in tutto l'ultimo romanzo. Il testo può
essere suddiviso in quattro distinte parti che ruotano attorno ad un unico
tema, quello del viaggio. La storia infatti è costruita attorno alla
migrazione del protagonista dalla Calabria alla Germania. Il gioco
dell'"uscire di casa", per poi comunque ritornare, è costante
in tutto il libro.Cometa ha poi sottolineato come "Tra i due
mari" sia un libro sulla letteratura, su cosa possa essere la
letteratura in questo inizio di secolo. Nel libro infatti sono facilmente
riconoscibili i grandi temi e le figure del mondo letterario di tutti i
tempi. In particolare, fortissima in Abate è l'influenza di Alexandre
Dumas, soprattutto per quanto riguarda la letteratura odeporica, cioè di
viaggio;Ma oltre le migrazioni, ciò che caratterizza "Tra i due
mari" è il sentimentalismo. Il libro affronta i grandi sentimenti,
ma senza fare degli smielati "idilli campestri" perché si
tratta di un sentimentalismo eroico. "Vado orgoglioso del
sentimentalismo dei miei testi - ha detto Abate - perché vuol dire che la
mia è una letteratura di potenza". I personaggi sono eroi a tutto
tondo, ma non nel senso che compiono delle cose straordinarie, ma perché
sanno mescolare con sapienza azione e sentimento. Ad ogni modo i
personaggi di Abate sono quotidiani, anche se nessuno di loro viene
considerato secondario o "di contorno", pur nella semplicità
delle situazioni. "Mi piace andare in fondo ai miei personaggi - ha
continuato l'autore - anche col rischio di scadere nella retorica e nella
nostalgia eccessiva". Elemento che in ogni caso non si ritrova nelle
sue opere, soggette ad una costante revisione. L'intervento del professor
Altimari invece si è concentrato sulla ricerca di identità all'interno
dei libri di Abate, altro elemento ricorrente della sua poetica. Il
viaggio non è semplicemente svago, ma è un percorso alla ricerca di sé,
non tanto degli altri. Il protagonista non termina mai il suo viaggio
perché non trova la sua identità ed è costretto a ricominciare la
ricerca. Altimari ha inoltre fatto delle considerazioni sull'origine
albanese di Abate. Secondo lui, lo scrittore è forse l'esponente più
importante della cultura arberesh di questo periodo. Anche se in
quest'ultimo libro gli albanesi sono solo sullo sfondo, grazie alla sua
opera narrativa complessiva la comunità arberesh ha trovato espressione e
ha riscoperto una nuova identità. E nell'ascoltare queste parole di
Altimari, ad Abate luccicavano gli occhi.
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