Taliban

I trentadue precetti per le donne

 di Alberto Masala

 

Alberto Masala
Taliban 
I Trentadue precetti per le donne

EDIZIONI TOTALMENTE LIBERE
Euro 5
Edizione Usa a cura di Jack Hirschman
Versione inglese di Jack Hirschman e Raffaella Marzano

Scheda

TALIBAN, i trentadue precetti per le donne è uscito per EDIZIONI TOTALMENTE LIBERE in versione bilingue (italiano/inglese) per poter essere meglio distribuito ovunque
i guadagni dalle vendite del libro sono destinati interamente al RAWA (Women's from Afghanistan Revolutionary Association)
Il lavoro è stato scritto e presentato per la prima volta in aprile 2001 al Maschio Angioino dove ha aperto (con una buona risposta di pubblico) il festival “NapoliPoesia” e quello di Genova (nel cortile del palazzo ducale, con Serge Pey).
Poi a Bologna (per "Invito in Provincia", rassegna di cinque poeti italiani che si rapportano con la musica e il ritmo selezionati da Niva Lorenzini), e Nuoro, la Normandia, Pistoia, Palermo, ancora Bologna (Contropiani), Cesena, Macerata …
Jack Hirschman ha fatto l'introduzione e, insieme a Raffaella Marzano, la versione inglese (che negli USA ha già esaurito le copie in poco tempo grazie alla disponibilità di Lawrence Ferlinghetti)
Ambre Murard ha fatto la versione francese e Serge Pey ne curerà l'edizione

  Alberto Masala

 

TALIBAN, i trentadue precetti per le donne viene presentato dal vivo come un concerto di poesia, “un’opera" musicale diretta dal poeta Alberto Masala (in modo emozionale, con parole più che con gesti).
Il testo è un "canto" poetico e oltre alla sua presenza/voce, in scena c'è Fabiola Ledda, che esegue un ritmo al tamburello fermo e costante, ipnotico, ma allo stesso tempo dialogante. Il tamburello è nella tradizione dionisiaca e nei culti della Dea Madre, da cui noi sardi idealmente discendiamo come cultura, la rappresentazione dell'imene femminile: il TAMBURO-FEMMINA
In contrapposizione c'è Maurizio Carbone, il TAMBURO-MASCHIO, dalla voce profonda e ossessiva
l'insieme si fonde con il lavoro dei vocalisti: Miriam Palma e Antonio Are (dalla gutturalità al canto lirico), che si completano a vicenda creando un legame ed un'interazione continua con i fiati di Maurizio Majorana e Riccardo Pittau (tromba).
Essendo un progetto aperto, volta per volta c’è la presenza di altri musicisti.
Finora hanno già lavorato al progetto: Badia (voce), Dominique Paulin (percussioni), André Minvielle (voce e percussioni), Claudio Parodi (fiati e strumenti elettronici) Alessandro Muzzatti (percussioni), Martin O’ Laughlin (didjeridoo), Enza Prestía (voce e tammorra) …

Presentazione dell'autore

Sulla poesia

 

   Qualche anno fa il caro Gilberto Centi (e approfitto qui per ricordarlo) mi chiese di intervenire in un accalorato dibattito sulla poesia che si stava sviluppando sulla stampa. Gli dissi che trovavo noioso discutere di forme letterarie e non ero coinvolto nelle tensioni che animavano quella discussione.
    La scrittura “Occidentale” (uso per comodità questo termine così poco geografico), e quella italiana in prima misura, così ombelicale e ombelicata, così ben arrotolata al proprio piccolo ego, mi provocavano il silenzio e la lontananza. Per me, come da sempre ripeto, la poesia è altro: è la voce di chi ha visto le voci. Il poeta ne raccoglie quelle impedite, le protegge durante il trasporto, le testimonia in un cammino di sintesi essenziale, vicino allo spirito. Dice l'inespresso e l'inesprimibile, narra le cose anticipandole prima della loro definizione...
    Presi la parola solo il 31 dicembre 1997, quando ormai la discussione era al termine. Riporto ciò che allora trovò spazio solo in una piccola edizione militante: “La Volpe e l’Uva” con il titolo “ditemi dov'è in vendita poesia”.
Oggi lo dedico ai caduti innocenti di New York.Qui non cito il testo, ma solo l’introduzione e la nota finale che aggiunsi per tradurre l’ultima parte scritta in castigliano. 

introduzione: Negli ultimi tempi a Bologna si è sviluppato un acceso dibattito sulla scrittura poetica che ha coinvolto e fatto pronunciare tutti. Il mio silenzio sulla questione, dovuto non a presunzione, ma ad un forte disagio artistico ed esistenziale riguardo alle tematiche letterarie dell'occidente, si è rotto soltanto quando sui giornali è apparsa la notizia che persone inermi erano state sterminate mentre assistevano alla funzione in una chiesa cattolica del Chiapas. La terribile notizia è subito scomparsa, divorata dalla velocità dei processi mediatici. Lì ho sentito l'esigenza di intervenire nel 'dibattito' sulla poesia per determinare chiaramente le scelte e la destinazione della mia scrittura. Trovo che la poesia, come ogni forma d'arte, sia oggi colpevole di gravissime complicità nel supportare una fittizia immagine del mondo, utile solo a chi chiede che non si tocchino questioni che turbano la convivenza 'civile' di un corpo sociale le cui mani grondano sangue.

   Perciò, con questo scritto prendo distanza e simbolicamente

- mi dimetto dalla cultura occidentale dichiarando di non volerne condividere la sterile e arrogante auto-celebrazione -  mi dimetto dalla cultura occidentale smascherando la miseria etica dell'arte e la vigliaccheria degli artisti   che tacitamente si prestano ad esserne funzionali
- mi dimetto dalla cultura occidentale in nome dell'amore per tutti gli esseri e, per rispetto della dignità e dell'autonomia del pensiero, mi dichiaro culturalmente un fuorilegge

  nota:

      Essendo sardo, quindi di altra lingua e cultura, vorrei che non mi si chiedesse di essere soffocato da forme che mi appartengono solo da un punto di vista burocratico.
   Comunque ancora, come già faccio da tempo, l’uso e la mescolanza di strumenti linguistici (italiano, francese, inglese... in questo caso il castigliano...) vuol essere un segnale etico, un’indicazione di scelta di campo, e, marginalmente, anche estetico, come indizio di liberazione da sovrastrutture apparentemente necessarie per cercare di accedere alla bellezza che trasportano ritmi e suoni “altri”...
  
D’altronde il lessico italiano corrente (come per una sorta di némesi nei confronti di chi sta uccidendo la mia lingua) è infarcito di espressioni americane, che denotano fortemente un senso d’impotenza espressiva, tipica nei colonizzati, e che impedisce di pronunciare le parole alla radice, di rapportarsi all’etimo ed ai suoi millenari percorsi, per scivolare nella superficialità di un neo-formalismo linguistico che le distorce e ne abolisce il suono (oltre che il significato).
   Per non dare adito a vezzosità o fraintendimenti, comunque traduco:
“…E’ per questo che oggi
- io scrivo per tutte le amate sorelle e fratelli, per tutte le compagne e compagni a cui, senza paura né colpa, ancora tocca la difficile sorte di veder nascere stelle su sciagure come tracce di senso perduto col tempo.   -scrivo per tutti gli indios del Chiapas che devono ancora coprire con mani stanche quegli occhi adesso spenti che conoscono tristezza che dall’interno geme.
- scrivo per tutti gli analfabeti che sanno solo cosa si legge in guerra - cosa si ascolta - cosa si può vedere - trasportando disperazione insieme a morti da seppellire.

    anche quegli assassini
verranno qui
coperti di vergogna
e ancora qui ci troveranno
al vostro fianco
intatti

  Negli anni niente è cambiato.
Le parole di allora sono drammaticamente attuali, cambia solo lo scenario. Mentre scrivo si prepara una guerra, che, come ogni guerra, mi vede distante. Ancora vittime innocenti cadono in Ruanda come a New York, in Cecenia come in Kurdistan, ed ancora follie religiose o folli idee di supremazia etica percorrono il mondo per occultare il danaro dello sfruttamento, dei traffici, delle mafie multinazionali. Ed ancora dei folli chiamano alla guerra. Ma attenzione: non sono folli. Stanno soltanto freddamente difendendo il loro profitto.
Io non combatterò per loro.

  Alberto Masala

   

 

Recensioni

"Pagine" n. 32 (maggio-agosto 2001)

Napoli, novella capitale della poesia?
Napolipoesia ­ Incontri internazionali, 27-29 maggio 2001
di Marie-José Hoyet  

 

al di sopra e al di fuori del papiro, ci sono delle forze
Antonin Artaud

Fra gli eventi poetici che non si possono ignorare ormai ci sono quelli curati dalla Multimedia di Raffaella Marzano e Sergio Iagulli in varie località della Campania. Dopo l’edizione di Napolipoesia del 1999 nel parco Archeologico di Posilippo che già aveva raggiunto un importante traguardo, quella di quest’anno, appoggiata da alcune strutture pubbliche (in particolare dall’assessorato all’Identità del Comune di Napoli), è destinata a lasciare il segno. Più che di un festival, come dicono gli stessi organizzatori, si è trattato davvero di una festa della poesia, un incontro tra appassionati appartenenti a culture diverse per mettere a confronto esperienze poetiche di varia natura che hanno in comune l’attenzione a nuovi linguaggi e a pratiche testuali diversificate nonché la volontà di avere una voce politica per esprimere le tensioni del nostro mondo, mediante un’arte concepita come strumento per parlare del presente.
Nelle tre serate si sono succeduti nella bellissima Sala dei Baroni del Castel Nuovo-Maschio Angioino, di solito sede di riunioni politiche, 21 poeti arrivati puntualmente da tutte le parti del mondo che hanno recitato le proprie creazioni nella loro lingua madre mentre i testi in traduzione italiana scorrevano sullo sfondo, accompagnati da uno stuolo di eccellenti musicisti per la maggior parte napoletani (Carmela Cardone, Maurizio Carbone, Mauro Di Domenico, Gaspare Di Lieto, George Johnson Jr, Ferdinando Gandolfi, Alfredo Messina, Enzo Nini e Massimiliano Sacchi), chiamati ad “interagire” durante le letture con strumenti classici o etnici.
La notevole performance di apertura nel cortile del Maschio, ha riportato in campo un aficionado, il sardo Alberto Masala, da sempre molto sensibile alle esperienze d’avanguardia, specialista di eventi di poesia concreta, che si è esibito in un reading corredato di proiezioni dedicate alle donne afgane e accompagnato dalle belle voci di Fabiola Ledda, Miriam Palma e Maurizio Maiorana. Dei poeti invitati, voci famose o emergenti, ci sembra doveroso citare tutti i nomi, ricordando che alcuni di loro avevano già partecipato ad altre manifestazioni quali “Parole di Mare”, “Lo Spirito dei Luoghi”, “Verba Volant” curate dagli stessi instancabili organizzatori negli anni scorsi ad Amalfi,  Salerno, Baronissi e a Napoli.
Erano presenti gli italiani Mariano Baino, Tommaso Di Francesco e Gabriele Frasca, gli spagnoli Antonio Ganomeda, Juan Carlo Marset e Vicente Valero, il portoghese Casimiro de Brito, lo sloveno Ciril Zlovec, il croato Sinan Gudzevic, il bosniaco Izet Sarajlic, l’inglese originario di Trinidad, Roger Robinson, il canadese Christopher Dewdney, gli statunitensi David Henderson, Jack Hirschman, Devorah Major e Janine Pommy Vega, la cilena Carmen Yanez, il tuareg Hawad, il camerunese Paul Dakeyo, l’australiano Hugh Tolhurst.

Il Secolo XIX - CULTURA
8 giugno 2001

  la PERFORMANCE
Litanie in stato di trance

  Poesia in stato di trance quella di mercoledì alla serata d’esordio del Festival Internazionale di Poesia a Palazzo Ducale. Nacchere ai piedi, strumento della pioggia tra le mani, due lunghi bastoni di castagno in movimento ricoperti di ideogrammi per la performance del francese Serge Pey, versi ipnotici tratti dalla sua raccolta Nierika, o le memorie del quinto sole (ed.Il Maestrale).
 Scritti sotto l’influenza allucinogena del peyote, le poesie-litanie di Pey sono dei "viaggi iniziatici"secondo il rito degli huicholes, gli indios di Las Latas nella Sierra Madre messicana, con i quali il poeta di Tolosa ha vissuto per un certo periodo. E dove ha appreso i segreti dei marakaame, i cantori-sciamani che evocano con le loro cerimonie il nierika, quel buco nella materia che fa vedere al dì là.
Un ritmo lento che poi diventa frenetico, occhi chiusi, energia, una concentrazione assoluta che ha stregato il pubblico dell’inaugurazione. Sul palco Claudio Pozzani, ideatore e curatore del Festival, Arnaldo Bagnasco, il sindaco Giuseppe Pericu e l’assessore regionale alla cultura Nucci Novi Ceppellini, e poi il secondo ospite della serata, Alberto Masala, poeta e performer amico e traduttore italiano di Serge Pey, nato in Sardegna residente a Bologna,che ha letto il suo poema “Taliban i 32 precetti per le donne”, ancora inedito e dedicato alle donne afghane in ostaggio agli integralisti. Divieti, fustigazioni, obblighi, percosse, niente scuola, niente lavoro fuori casa, niente bicicletta, niente corpo, amputazione per le unghie laccate, segregazione perché il nostro Dio ci spia, ci nasconde. Versi duri e difficili in cerca di editore, con l’intenzione di devolvere i proventi del futuro libro alla causa delle donne prigioniere del burqa.
Poi i due poeti leggono in francese e in italiano versi dedicati «agli amici e ai fratelli del Chiapas » che raccontano di montagne sacre e di figli uccisi, affermano che in occasione del G8 saranno «a fianco di chi manifesterà », Masala fuori scena racconta la sua idea, nettissima, dell ’ essere poeta: «Professionalizzo il delirio, rendo possibile l’utopia e la diversità. Sono un trasportatore di voci senza voce, impronunciabili e impronunciate ».

 

PIAZZA GRANDE - cultura
Intervista ad Alberto Masala

Novembre 2001 per numero di Dicembre.

   P.G.: Quando è nata  l’idea di questo progetto “Taliban”?

  Lo spunto l’ho avuto da “A” che è una rivista anarchica. Nel numero di Aprile c’era un articolo di Maria Matteo che parlava della situazione delle donne in Afghanistan e lì ho trovato l’elenco dei precetti che poi ho utilizzato per questo lavoro-azione.
E’ stata una vera esigenza espressiva: per me la poesia deve servire per trasportare la voce di chi non ha voce. Dopo aver letto queste orribili leggi contro le donne non potevo ignorarle, dormirci sopra! mi sono messo subito a scrivere; altrimenti a cosa serve la poesia! non ho avuto esitazione a parlare con voce di donna: fare poesia significa anche spogliarsi della propria anagrafe, della propria esistenza… delle proprie miserie personali.

  P.G.: Oggi in questo progetto si avverte un’atmosfera profetica, è un caso o è il potere profetico della poesia?

La poesia ha un potere profetico. Intendo dire che mentre il mondo dei media si muove sulla superficie, solo quando succedono le cose, la poesia si muove appena incontra il problema: la sofferenza delle donne c’era prima della guerra.
Se vuoi ti regalo un’altra profezia: quando questa guerra finirà, la condizione delle donne non cambierà; l’Alleanza del Nord, se prende il potere, avrà nei confronti delle donne lo stesso comportamento dei Taliban.
Il problema di questa guerra nasce dai mercati, è l’oleodotto che deve passare di lì, è il business dell’eroina, questa è la guerra alla quale ci chiamano a combattere: per il business! la condizione delle donne non viene nemmeno presa in considerazione! l’integralismo dei militari dell’Alleanza del Nord non è pari e non è simile in tutto a quello dei Taliban, ma la condizione è la stessa (le prime notizie ce lo confermano n.d.r.).
Anche in altri paesi come il Quwait e l’Arabia Saudita la vita delle donne è soggetta a questi soprusi.

P.G.: Ti è capitato di guardare con occhi diversi il tuo lavoro dopo l’11 Settembre, dopo la guerra?

  Certo: ho avvertito l’urgenza del fatto che uscisse il libro, per rendere più conosciuta nel mondo la condizione delle donne, ma ciò di cui mi occupo in “Taliban” non è cambiato con gli attentati o la guerra.

  P.G.: Che rapporto c’è (o non c’è) fra questi 32 precetti per le donne e il Corano?

  La schiacciante condizione delle donne è propria di tutte le culture con un Dio maschio, invadente, che detta assoluti, e con una struttura patriarcale; è successo in altri periodi nel cristianesimo, o ancora oggi fra gli ebrei ortodossi.
Io sono affascinato dalla cultura Islamica: l’Islam dei Kurdi, la cultura dei Sufi… non si può parlare di una sola cultura islamica, è riduttivo e ignorante.
Se lasci mano libera a Biffi cosa credi che possa combinare!? Dandogli il potere vedresti la condizione delle donne a Bologna! Vedi come la Chiesa ha mandato dei missionari a convertire le comunità dell’interno della Sardegna fino al 1936! In Sardegna c’era una società matrilineare: le società nomadi pastorali vengono dal culto della Dea Madre.
Fra il Corano e i precetti dei Taliban c’è la stessa distanza che vi è fra il Vangelo e il Cardinale Biffi.

P.G.: Tu affermi che la poesia oggi, come altre forme d’arte, è complice della società spettacolare basata sullo sfruttamento e già da tempo ti sei “dimesso dalla cultura occidentale” (dall’introduzione a Taliban) e lo hai dimostrato in ciò che fai, ma non hai paura che questo tuo grido contro le leggi dei Taliban possa essere brutalmente strumentalizzato da chi oggi festeggia la guerra?

Non ho paura di nessuna strumentalizzazione perchè le posizioni sono chiare. Nell’introduzione stessa Taliban denuncia i motivi che hanno dato origine a questa guerra, inoltre dico che “io non combatterò per loro”: nè per il business di Bush, nè per quello di Bin Laden.
Bisogna uscire dalla logica male/bene, io mi pongo da osservatore attivo: dico e prendo posizione.
Non sono anti-americano e né anti-islamico: sono contro i traffici dell’economia imperialista americana e contro ogni integralismo.
Ancora una volta voglio dire con grande forza: “Non in mio nome”, “not in my name”  come diceva Julian Beck. E’ vero che spesso anche l’arte che si propone con onestà intellettuale può essere strumentalizzata; per evitare questo occorre prendere una posizione eticamente chiara.
Se essere contro il potere del denaro americano significa essere anti-americano allora lo sono, ma ho tanti amici in America... Non mi sento nè strumentalizzato nè strumentalizzabile.

P.G.: La raccolta “Taliban” viene letta dal vivo e diffusa liberamente, ma quando potremo trovarla sugli scaffali di una libreria?

  Stiamo ancora definendo i particolari, comunque quando questo piccolo libro sarà stampato i ricavi delle vendite andranno interamente devoluti aal RAWA (Women’s From Afghanistan Revolutionary Association): un’importante associazione, attivissima nel divulgare nel mondo la conoscenza della condizione delle donne afghane.

  P.G.: Cosa succede durante la lettura pubblica di “Taliban”?

  Dal vivo presentiamo TALIBAN, i trentadue precetti per le donne, come un concerto di poesia, una “opera” musicale diretta da me (ma in modo emozionale, con parole più che con gesti).
Il testo è un “canto” poetico e oltre alla mia presenza/voce, in scena c’è Fabiola Ledda, che esegue un ritmo al tamburello fermo e costante, ipnotico, ma nello stesso tempo dialogante; il tamburello è nella tradizione dionisiaca e nei culti della dea madre, da cui noi sardi idealmente discendiamo come cultura, la rappresentazione dell’imene femminile: il TAMBURO-FEMMINA. In contrapposizione c’è un TAMBURO-MASCHIO (Maurizio Carbone) dalla voce profonda e ossessiva. L’insieme si fonde con il lavoro dei due vocalisti, Miriam Palma e Antonio Are (dalla gutturalità al canto lirico), che si completano a vicenda creando un legame ed un’interazione continua con gli altri elementi.
La persona che occupa pubblicamente un metro-quadro di mondo per trasportare voci e storie di chi non ha voce, ha il dovere etico di farlo in modo esemplare.
Quando agisco con la poesia io mi prendo le mie responsabilità, ma il mio nome deve essere dimenticato: è più importante il messaggio.
Io sono il trasportatore del messaggio.
Esso non nasce da me: esiste già.

  Massimiliano Salvatori

 

Le voci della luna - marzo 2002
intervista a cura di loredana magazzeni

Che cos'è per te la poesia e qual è stata l'esperienza più profonda ad essa legata?

  è l'arte di professionalizzare il delirio, l'utopia, la visionarietà, e rendere questo credibile nel sociale, ascoltabile... è il canto dell'essenza che, per essere ascoltato, ha bisogno di ritmo
è la testimonianza che è possibile coltivare tensione di purezza, bellezza, autonomia interiore...
è la condizione dell'imprendibilità dello spirito che non può essere ridotto in forme
è il trasporto delle voci di chi non ha voce, la testimonianza della diversità e della differenza... la pratica della non-omologazione, il senso che acquista direzione sconosciuta
e tanto altro ancora

l'esperienza certamente più importante, quella che mi ha dato coraggio, è stata la partecipazione a One World Poetry, il festival mondiale di poesia di Amsterdam (che ora non esiste più)
avevo 33 anni
ho incontrato alcuni fra i più grandi poeti del mondo
è stata la mia iniziazione

  Difetti e pregi della poesia italiana rispetto all'esperienza dei poeti stranieri che hai conosciuto in questi anni, possibili soluzioni...

  I difetti ed i pregi della poesia italiana contemporanea sono quelli di tutte le poesie "occidentali" contemporanee... né più, né meno...
Girando per festival in europa mi rendo conto che esiste uno standard omologante e sempre più interfacciato fra letterature
I pregi eventuali vengono dal rapporto con la grande tradizione di ogni paese, nella continuità o nella rottura... cose queste che producono "posizioni".
Naturalmente ogni paese fa il conto con la propria tradizione
Purtroppo quella italiana degli ultimi due secoli ha molti punti di oscurità e di debolezza, soprattutto se si fa una comparazione con altre parti.
Mi spiego: che tradizione si creava in Italia mentre in Francia c'erano i vari Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Verlaine, Apollinaire, Artaud... e via così...
O mentre in Russia c'era Majakowskij?
Che tradizione si poteva creare in un paese cattolico, crociano, fascista?
La poesia italiana contemporanea ancora paga queste origini
Inoltre, ad aggravare tutto questo, trovo che oggi ci sia poco coraggio nella scrittura occidentale contemporanea, e quindi anche in Italia
L'occidente ha progressivamente perso la propria relazione originaria con il canto, il vero senso della poesia... e questa si è cristallizzata sul foglio scritto, ha perso il suono ed il ritmo, è diventata un'espressione prevalentemente mentale, senza riscontri reali sulle sue capacità comunicative
questo ha determinato una posizione ristretta ed auto-referenziale in cui chi si fa chiamare poeta è anche colui che tutela e determina sia le modalità espressive che quelle di fruizione, imponendole con un sistema che ne supporta la sua inoffensività, senza rischi, protetto da barriere...

  allora la distanza dal rito è abissale
il pubblico è passivo, disorientato, incapace di opporsi, trascinato com'è in un territorio di estraneità e di astrazione
la poesia diventa per "addetti", si esprime per codici, ne puoi sempre prevedere
ogni sviluppo...
ed annoia...
così la gente se ne distanzia, aiutata anche dal fatto che questo mondo sembra oggi non aver bisogno di poesia (parlo della generalità, ovviamente...)

  Nelle società tradizionali ancora il poeta è riconosciuto dalla gente come voce rappresentativa, portante, espressiva della comunità: dice l'inespresso e l'inesprimibile, è autorizzato a parlare "dell'oltre" che è capace di vedere. E la comunità gli revoca l'incarico se non fosse più capace di sostenerlo.
Qui in occidente il poeta (parlo sempre in generale) si auto-nomina e porta il proprio isolamento in un continuo riavvolgersi su sè stesso: perde la capacità di narrare perché, spesso, non ha niente da dire oltre le proprie miserie personali
Guardati attorno: pensa a quale presunzione spinge lo scrivente occidentale che si pone al centro di un mondo essendo incapace di rappresentarlo.
E' coincidente con l'arroganza espressa dal danaro che lo tutela, lo stesso delle multinazionali...
Nel passato recente solo i Beat hanno rotto questo processo rendendosi non-funzionali alla scienza di riproduzione del controllo sociale, opponendosi con intelligenza
Poi sono venuti gli epigoni, che, come tutti gli epigoni, hanno trascinato nella mediocrità il livello espresso precedentemente...
Succede sempre così, lo sappiamo e ne siamo osservatori già preparati
Per fortuna esiste ancora gente come Jack Hirschman, che ha migliorato la tradizione, o come Serge Pey, che oggi in occidente è per me il poeta che meglio ha saldato questi due emisferi, universalizzando il proprio canto.
Ne cito solo due sapendo che non sono gli unici, ma sono fra i pochi...
Oppure si deve andare fuori, lontano, ai margini, nelle periferie: dove non c'è il "Potere" trovi ancora molta gente che sa narrare e cantare
Qui in Italia forse solo i diversi come Pasolini, gli estranei che stanno arrivando, le donne come Patrizia Vicinelli, i socialmente marginali possono risollevare la situazione.
A patto che abbiano una reale coscienza critica rispetto al modello 'di potere' assimilato.

 


CARTA n. 6 del 2002
Da un’idea di Alberto Masala
Taliban,
fra canto e poesia

 

Trentadue precetti proiettati su uno sfondo, quelli del regime talebano imposti alle donne: fanno da contraltare, per ognuno, altrettante vivide visioni poetiche che in successione dicono la segregazione con parole potenti e penetranti.
    E’ Taliban, un “concerto di poesia” diretto dal poeta sardo Alberto Masala, voce-guida recitante accompagnata dalla scansione ritmica costante del tamburello (Fabiola Ledda) e dai vocalismi di due straordinari interpreti: Miriam Palma e Antonio Are.
    Masala, riuscendo a guardare con occhi nascosti di donna ostaggio, rende con la dimensione dell’ascolto la condizione di schiavitù e consegna alla forza puntuale delle parole la trasposizione di ogni spietata prescrizione in un correlato squarcio di sofferenza e in un fermo grido di libertà, assumendone e rivelandone identità e dignità.
Il libro Taliban, i trentadue precetti per le donne, con introduzione di Jack Hirschman, è uscito in America e sarà a breve pubblicato anche in Francia (Serge Pey ne cura l'edizione), in Italia pare non interessi agli editori.
    Il poema, nato e messo in scena prima che la terra afgana diventasse l’ultimo obiettivo bellico dei potenti del mondo, nasce come sostegno alle istanze di liberazione delle donne afghane. I guadagni ricavati dalle vendite sono infatti destinati interamente al RAWA (Women's from Afghanistan Revolutionary Association).

Silvana Fracasso

 

 Grotta della vipera

Sarebbe curioso stimare la quantità d’interventi più o meno autorevoli prodotti su ispirazione di quello che, dopo i fatti dell’11 settembre 2001, si può ormai considerare un cliché verbale e concettuale: “dopo l’undici settembre”. E prima dell’undici settembre? Prima, Alberto Masala, “contemporaneo con radici”, ha prodotto i versi di Taliban, i trentadue precetti per le donne. In principio un concerto di poesia (esordio nell’aprile del 2001, festival NapoliPoesia, poi in giugno a Nuoro, Mediterranea PoesiaAzione), solo in seguito espropriato all’oralità - dimensione particolarmente cara al suo ideatore - per le autoprodotte Edizioni Totalmente Libere (al momento se ne può fare richiesta all’indirizzo: nad3824@iperbole.bologna.it). Ora questo progetto, a dispetto della sua clandestinità, ha trovato la strada di un’edizione americana curata da Jack Hirschman, uno dei massimi poeti viventi. Dell’edizione francese si occuperà invece Serge Pey, altro grande protagonista della poesia contemporanea internazionale.
Taliban prende dichiaratamente le mosse dalla pubblicazione dei 32 precetti talebani contro le donne sul n. 271 di A rivista anarchica (vedi www.anarca-bolo.ch) ad opera di Maria Matteo. Masala riprende ogni prescrizione riportandola sulla sua pagina e facendo seguire il proprio testo (ma più che di trentadue composizioni si può parlare di altrettante strofe di un poema). Non si tratta però di un procedere epigrafico: gli stessi precetti vengono promossi ad agghiacciante testo poetico. Si ha così sotto gli occhi un’ulteriore testimonianza della natura intertestuale di molta arte poetica, che in questo caso si realizza nella dialogicità instaurata tra la nuova creazione e il suo, alla lettera, pretesto. Masala istituisce un toccante dialogo tra le tremende sanzioni talebane e le parole-dramma di donne cui egli dà voce; e chiamando le donne afgane ad esprimersi in prima persona, il poeta attiva già l’infrazione del precetto n. 3: Divieto di parlare o dare la mano ad uomini che non siano mehram (padre, fratello o marito). Perciò non possiamo che essere grati ad Alberto Masala per aver dato alle stampe Taliban, così che quella voce possa giungere a un maggior numero di persone, come ci si augura che accada. E anche siamo grati al poeta ozierese-logudorese-sardo-italiano-euromediterraneo-… (“globale” no, forse non gradirebbe l’interessato) per averci dato una nuova prova di sensibilità, poetica e civile. A proposito di senso civile: non sarà accessorio informare che i guadagni dalle vendite del libro sono destinati interamente al RAWA, Women's from Afghanistan Revolutionary Association.

  Giancarlo Porcu

Rubicondor On Line. Bookshow
Date: Fri, 17 May 2002

Alberto Masala, Taliban. I trentadue precetti per le donne

Introduzione di Jack Hirschman.
Versione inglese di Jack Hirschman e Raffaella Marzano.
Edizioni Totalmente Libere / minores - Bologna, marzo 2002
Euro 5,00 - ISBN 88 900770 0 X
Info: ETL - via Santa Caterina, 41 - 40123 Bologna
nad3824@iperbole.bologna.it

 

    Era il maggio 2001 - e l'11 settembre, quindi, ancora lontano - che a Torino, alla Fiera del Libro, Alberto Masala, che conoscevo personalmente in quell'occasione, mi consegnò uno di quegli opuscoletti confezionati con passione artigiana che tutti i poeti hanno prima o poi messo in circolazione, nell'attesa o assenza di una pubblicazione vera e propria. Il titolo era "Taliban. I trentadue precetti per le donne" e - a riprova che, assai prima che l'attacco alle Torri Gemelle prima e la guerra poi scatenassero l'attenzione planetaria, pietà e denuncia per quanto avveniva in Afganistan erano già cosa ben viva - si trattava di un poemetto dolente su quanto le donne musulmane erano e sono costrette a subire per via dell'ortodossia coranica (o dell'estremismo islamico, per usare una formula più "corrente"). Quell'opuscoletto è divenuto ora un libro delle Edizioni Totalmente Libere, con testo inglese a fronte, a cura di Jack Hirschman e Raffaella Marzano. Lo scrittore anglosassone firma anche la prefazione al volume, ma quel che più vale sottolineare è che, oltre a un'edizione americana presentata da Ferlinghetti alla City Lights di San Francisco alcune settimane or sono, "Taliban" sta per uscire anche in Francia, e al suo esordio è andato letteralmente a ruba, in Europa come oltreoceano. Il ricavato delle vendite è devoluto al Rawa, il movimento di liberazione delle donne afgane, che l'8 marzo scorso hanno letto pubblicamente i trentadue precetti riscritti poeticamente da Masala a Quetta, in Pakistan. "Per me è come il Nobel", commenta l'autore che, pure abituato per storia e passione a una vita di viaggi e incontri, senza confini e frontiere, si trova ora - grazie a "Taliban" - come al centro di un'onda che cresce. Leggere questo poemetto non solo rende merito alle capacità e alla carica suggestiva e immaginifica dell'autore, ma ci introduce alla presenza - fisica - di quelle donne oppresse e prigioniere, strappa (forse più all'oleografia occidentale che a loro stesse) il burqa che le ha rese invisibili alle coscienze.

(silvia tessitore)  

Terra di nessuno
Pollicino - Briciole di verde

Le mille lingue della poesia
di Roberto Dall'Olio

 

Senza respiro. Un senso di asfissia che non concede nulla al ricamo dei sentimenti, una spietatezza di parole che prima l'autore ha sperimentato su di sé, diffondono i versi di "Taliban", poema civile di "un importante poeta italiano" (Alberto Masala) come dice jack Hirschman, bardo della Beat Generation, nella sua introduzione al libro. Solo così poteva essere data voce a chi non ha voce. Senza inventare nulla, senza concedere neppure un anfratto alla coscienza salottiera della poesia da scaffale. E si può parlare di bellezza solo alla fine, nei versi che congedano il poema: "la donna che dorme nel cielo/appare in nascite fugaci/indica lampi ad ogni primavera/ ... e noi siamo felici/perché gli uomini non possono vederla". Poema composto da trentadue testi in riferimento agli altrettanti trentadue precetti che il regime talebano aveva imposto alle donne afghane. Sono testi che diramano il ruvido coraggio della contemporaneità trasferendo il problema della segregazione di genere nel cuore della coscienza maschile e occidentale. Ambedue ancora tarlate da un nichilismo bellicista che ne inquina le aspirazioni più profondamente democratiche e non violente.
Alberto Masala, poeta della contaminazione, che mescola il sardo (sua lingua madre), l'italiano, il francese, l'inglese e il castigliano, ha scritto "Taliban" molti mesi prima dell'attacco alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, con una veggenza anticipatrice che irrompe nel tenore sovente manierato dell'impegno letterario contemporaneo. Si diceva del coraggio. Anche il coraggio dell'ingenuità della parola poetica a fianco di un serrato confronto con l'habitus razionalmente difensivo della nostra logica quotidiana. Habitus che è indispensábile al sistema di controlli cui sono sottoposte molte delle vitalità odierne. La mano invisibile del capitale, dell'Impero, che ha straordinarie similitudini col dio nascosto dei Taliban per cui Masala scrive alla prescrizione 14 DIVIETO DI LAVARE I PANNI Al FIUMI 0 IN LUOGHI PUBBLICI:  "Il nostro dio ci spia/ mi circonda/si nasconde nei cani/è nell'acqua che scorre/ogni giorno/bisogna lavare le intenzioni".
Un sistema di controlli che mortifica il desiderio per alimentare i desideri oggettuali, mortifica il sogno per alimentare il consumo di oggetti : "Accanto ho sempre un dio …prosciuga il mio desiderio/ piantando dei coltelli nei miei sogni/perché non vedano la luce/non ho più sonno/non ho più sonno/non ho più sonno/ ho il ventre pieno di coltelli", Precetto 13 DIVIETO DI RICEVERE CURE DA MEDICI MASCHI.
"Taliban" è uno spettacolo vero che Masala porta in giro avvalorandosi della collaborazione musicale di Fabiola Ledda ed Edi Bianco (strumentale), Miriam Palma e Antonio Are (vocale). Uno spettacolo assolutamente non in linea con il sistema dello spettacolo quale siamo avvezzi in Italia e che è quanto mai importante in questo terribile momento di guerra aperta (in quanto la guerra nel Golfo era presente anche prima del suo scoppio mediatico), di Guerra del Golfo 2 come viene già definita senza nessuna vergogna per la sua serialità. Anzi viene proclamata guerra umanitaria per "esportare" la democrazia. La democrazia come merce, per decontestualizzare nuovi territori, per omologare le forme artistiche, urbanizzare il Sud del mondo. La democrazia non si esporta, e soprattutto non si esporta la nostra democrazia parlamentare che non è affatto "La Democrazia", ma solo il modello democratico parlamentare quale si è affermato in Occidente, la cui crisi è oggi palese e problematica. Masala questo l'ha capito bene, infatti è un poeta che si radica in una coscienza vigile e proprio per questo consapevole dei processi in atto sopra descritti, una coscienza che non ruota attorno al solito ego poetico, ma cerca di radunare forme altre di resistenza, promuove, dà voce a chi non ha voce.
E' infatti "un poeta dell'esortazione, un anarchico con coscienza di livello culturalmente internazionale... e tanto catalisticamente avanti da essere progenitore come lo sono stati Antonin Artaud in Francia e Julian Beck con il Living Theater negli U.S.A. In breve, è coinvolto in una poesia di provocazione - come dice, Pasolini - ma con questa differenza: dove Pasolini portò le sue idee di provocazione sullo schermo, e fu ... un attivista dell'intelletto, Masala ha insistito nella carica orale della performance pubblica del suo lavoro, che è in gran parte omaggiante e litanica, e, sì, esortativa è la parola giusta". Parole di Jack Hirschman dall'introduzione a " Taliban " per l'edizione statunitense del poema . Lo slancio etico di cui Masala ha caricato i suoi versi, per nulla incastrato in equivoci ed ambivalenze moralistici, porta il suo testo e il suo spettacolo alle radici del senso stesso delle nostre gerarchie spacciate per necessarie, per pilastri dell'edificio culturale, quando altro non sono che meccanismi dell'imbragatura sociale il cui fine è la perpetuazione delle disuguaglianze. Uno slancio che dunque propone la poesia nell'ottica decisiva e innovativa della pratica ecologica dell'arte.

 

 


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