Nassera Chohra: "La scrittura di una donna tra romanzo e vita"

Introduzione

La letteratura di immigrazione in lingua italiana costituisce l’oggetto del presente studio. Nella prima parte di questo contributo sono state analizzate, in linee generali, le principali caratteristiche di tale fenomeno: le cause della sua origine, le tematiche più ricorrenti, gli aspetti formali e linguistici. Si è sottolineato, in particolar modo, il carattere eclettico ed eterogeneo di tali scritti. Nella seconda parte è stato considerato il romanzo Volevo diventare bianca della scrittrice  Nassera Chohra: in esso si narra un’esperienza autobiografica, significativa in quanto vissuta da una donna figlia di immigrati. Tale condizione rende difficoltoso l’inserimento nella società occidentale, prima francese e poi italiana, ed anche l’accettazione della cultura d’origine, avvertita come estranea. Si tratta dunque di una doppia dislocazione, che fa sentire la protagonista straniera sia nel luogo in cui è nata, l’Europa, sia in quello della famiglia d’origine, l’Algeria.      

 Silvia Camilotti

  •  Pubblichiamo la seconda parte della ricerca relativa al romanzo Volevo diventare bianca di Nassera Chohra (La Redazione)


Capitolo II°


Nassera Chohra è nata nel 1963 a Marsiglia, da genitori Saharawi, popolazioni nomadi del deserto. Appartiene alla "categoria" degli immigrati di seconda generazione; situazione che rende ancor più difficoltosa, sotto certi punti di vista, l'individuazione di una propria identità: si tratta di scegliere, infatti, tra la cultura e le tradizioni della propria famiglia e quelle della società ospitante, la Francia. Ella ha scritto un romanzo autobiografico, Volevo diventare bianca, in cui ripercorre la sua esistenza a partire dall'infanzia, nella Francia dagli anni Sessanta in poi, e un racconto inedito dal titolo La signora del deserto. Nasce e cresce in una numerosa famiglia stabilitasi a Marsiglia, in condizioni, inizialmente, davvero pessime: la povertà la attanaglia, per cui i suoi componenti possono solo permettersi di occupare, in nove, un paio di stanze. Cambieranno abitazione e quartiere numerose volte, migliorando lentamente la loro condizione. Il padre, figura onnipresente ma silenziosa, lavora duramente, anche se colei che detiene di fatto il potere in casa ed educa i figli è la madre. Nassera riceve un'istruzione scolastica, non smettendo mai di coltivare i suoi sogni, primo fra tutti quello di recitare. La sua famiglia non la appoggia in nessuna occasione, anzi, ma nonostante questo ella raggiunge i suoi obiettivi, trasferendosi, da adulta, in Italia: qui costruisce una sua famiglia, realizzandosi pienamente come donna. 
La realtà francese di quegli anni risulta scossa dai sempre più consistenti flussi migratori, provenienti dalle molteplici regioni del sud del mondo, che si riversano nelle periferie urbane. Spesso, nel romanzo, è descritta la convivenza, negli stessi quartieri, di persone appartenenti a razze diverse: arabi, zingari, corsi ed italiani. Inizialmente sono presenti anche francesi, che poi, spinti dal continuo flusso di immigrati, si trasferiscono in altre zone, più ricche e meno pericolose. Le condizioni di vita pessime e la mancanza di istruzione causano tensioni nei quartieri e portano inevitabilmente alla diffusione della criminalità. 
L'ondata migratoria è anche ascrivibile al fatto che nelle regioni d'origine degli immigrati si sta avviando un rapido processo di decolonizzazione: molti paesi rivendicano la loro autonomia dalle rispettive madre-patrie, provocando spesso sanguinosi scontri. L'Algeria, terra d'origine della famiglia Chohra, appartiene alla Francia sin dal 1830. Gli effetti di una colonizzazione di così lunga durata si ripercuotono violentemente contro la madre-patria a partire dalla metà del XX secolo: la maggioranza musulmana in Algeria avvia sanguinosi scontri che provocano campagne terroristiche anche nelle città francesi. L'indipendenza della regione maghrebina è ottenuta nel 1962, al prezzo di gravissime perdite: viene contrastata duramente dall'OAS (l'organizzazione terroristica di coloni francesi appoggiati da molti sostenitori in patria), che però non riesce a realizzare i suoi intenti. 
Una situazione siffatta ha sollecitato numerose riflessioni, analisi e testimonianze in Francia ad opera di uomini politici, ma anche di militari. Le condizioni del neo-stato algerino appaiono comunque gravi: la popolazione, infatti, è più che raddoppiata dagli anni Trenta agli anni Sessanta, incentivando così gli spostamenti, sia interni sia verso l'estero, in particolar modo in direzione dell'ex madre-patria. Il governo francese si trova, dunque, nella condizione di dover affrontare la questione dell'immigrazione con tutte le sue problematiche conseguenze: poiché interi quartieri vengono "occupati" dai nuovi arrivati, l'avversione verso di questi non fa che alimentarsi. Occorre quindi inserire tali individui nella società, renderli parte attiva ed arginare le forme di razzismo che vi sorgono inevitabilmente. 
L'Algeria, unita alla Tunisia ed al Marocco, forma la grande regione del Maghreb, che costituisce il punto in cui Africa e Islam vengono a contatto con il mondo occidentale; le popolazioni che ne fanno parte appartengono alla grande area dell'Islam. Quest'ultimo costituisce, quindi, l'elemento caratterizzante la zona culturale mediorientale, di cui l'Africa mediterranea, con il retroterra sahariano, rappresenta la sottoarea occidentale (non a caso la parola "maghreb", in arabo, significa "occidente"). 
I Saharawi abitano la zona a ovest del deserto. Nel romanzo, non si fa esplicita menzione della loro storia anche se la descrizione di certi tratti caratteristici non può non invitare ad approfondirla. Le loro tribù sono organizzate da secoli in modo autonomo, con forme proprie di lingua, cultura e organizzazione sociale, nomadi fino a tempi recenti. Verso la fine del periodo coloniale, i Saharawi apparivano già largamente sedentarizzati e urbanizzati, ma sempre legati alle proprie tradizioni. La loro origine si può ricondurre all'immigrazione degli arabi Maquil, provenienti dallo Yemen. La religione è l'Islam sunnita, come nella maggior parte del Maghreb, e l'organizzazione sociale si basava su un consiglio (Consiglio dei Quaranta) che riuniva periodicamente i capi delle tribù per prendere collegialmente decisioni riguardanti gli interessi della comunità. Tale struttura egualitaria è stata spesso indicata come riferimento tradizionale della democrazia dei Saharawi. Il loro spirito nazionalista si è manifestato sempre in modo molto netto: tra la fine degli anni Sessanta e Settanta si assiste ad un vero e proprio risveglio della coscienza, accompagnato dall'uso delle armi nei confronti delle potenze colonialiste ma anche del confinante Marocco che non voleva cedere i suoi territori. Le lotte violente portano nel 1976 alla nascita della Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD), seguita, qualche anno dopo, dall'ammissione all'OUA, l'Organizzazione dell'Unità Africana. 
Dopo aver delineato alcuni tratti fondamentali delle vicende storico-politiche algerine, si può passare direttamente al testo di Chohra, Volevo diventare bianca: esso appartiene al genere del romanzo autobiografico ed è organizzato in venti brevi capitoli dai titoli essenziali e lapidari, di cui due caratterizzati da antitesi: Gelato e peperoncino e Comunione e peccato. Il genere romanzo, secondo Benjamin, appare il più adatto alla rappresentazione delle vicende umane:

il luogo di nascita del romanzo è l'individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso che lo riguardano più davvicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri. Scrivere un romanzo significa esasperare l'incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente. 

Michail Bachtin, da parte sua, ha teorizzato che

esso si intreccia indissolubilmente con l'azione immediata di quei mutamenti nella realtà che determinano anche il romanzo e che hanno condizionato il dominio del romanzo nella data epoca. Il romanzo è l'unico genere letterario in divenire e quindi esso riflette il divenire della stessa realtà in modo più profondo, essenziale, sensibile e rapido. Solo chi diviene può capire il divenire. Il romanzo è diventato il protagonista del dramma dello sviluppo letterario dell'età moderna proprio perché esso esprime meglio di tutti le tendenze del divenire del mondo moderno: è infatti l'unico genere letterario procreato dal mondo moderno e gli è in tutto e per tutto consustanziale.

Il romanzo, dunque, presenta la vocazione "a riflettere il e sul presente":10 attraverso di esso, "il libero soggetto si alza, liberandosi dai legami con le corporazioni, le tradizioni, i dogmi religiosi e la minorità politica e dichiara il suo diritto all'autonomia e alla responsabilità".
René Wellek e Austin Warren teorizzano nel loro contributo Teoria della letteratura che il romanzo sarebbe "il discendente moderno dell'epica"; inoltre, risulterebbe fuorviante sia la sua riduzione a mero divertimento, svago ed evasione, sia la sua interpretazione alla stregua di un documento o una narrazione storica. Ciò non significa che esso non stabilisca una "riconoscibile relazione con la vita", anche se, rispetto ad essa, rappresenta una selezione. Inoltre, "a differenza dei grandi generi letterari, epica, romanzo, dramma, saggio, lirica, l'autobiografia permette l'accesso ad ogni persona in grado di scrivere. Tutti abbiamo una biografia ed anche una matita".
Secondo Maria Zambrano, il romanzo autobiografico apparirebbe come il genere più prossimo alla confessione, intesa da un punto di vista letterario:

sono parenti e quasi coetanei, in quanto entrambi sono espressioni di esseri individualizzati ai quali si riconosce una storia. Il presupposto della confessione, come del romanzo, è che l'individuo soffre e rischia di perdersi […] Tutta la confessione è parlata, è una lunga conversazione e ha la stessa durata di quella reale. Come un romanzo, ci porta in un tempo immaginario, in un tempo creato dall'immaginazione.

Tuttavia, si tratta di due generi non affini se li si considera alla luce di un'altra prospettiva, quella cioè dell'autore dello scritto:

la confessione è il linguaggio di qualcuno che non ha annullato la sua condizione di soggetto; è il linguaggio del soggetto in quanto tale. Non sono i suoi sentimenti, i suoi desideri, né le sue speranze; sono semplicemente i suoi sforzi di essere. E' un atto in cui il soggetto si rivela a se stesso perché ha orrore del suo essere a metà e confuso. Chi si racconta, chi fa un romanzo autobiografico, rivela un certo compiacimento di se stesso, per lo meno un'accettazione del proprio essere, del proprio fallimento, magari; cosa che chi porge la confessione non fa in alcun modo. 

Lo scritto autobiografico di Nassera Chohra presenta una trama semplice e lineare, ma riesce a dare comunque spunti di riflessione significativi: occorre infatti considerare il non detto, l'implicito, ciò che rimane fuori. Dietro la narrazione si intrecciano, infatti, le tradizioni musulmane e il nomadismo, la situazione francese a contatto con gli immigrati e il razzismo latente, il confronto tra il cristianesimo e l'islamismo, l'incontro tra culture diverse e l'esigenza di sceglierne una in particolare. 
Cercare di valutare tale opera con le categorie letterarie tradizionali risulterebbe fuorviante; a questo proposito, Graziella Parati sostiene che sarebbe importante considerare la novità di tale letteratura, il fatto che sia "an emerging minor literature" e che risulti, di conseguenza, necessario ridefinire i modelli letterari, come appunto il concetto di letteratura ai margini. In riferimento al testo di Chohra, annota: 

Chora's representation of herself defines her double identity as both insider and outsider in the Western societies in which she has lived. Her short trip in Algeria makes her realize her estrangement from the parental culture. Divided between the language, culture and values that dominate the familiar sphere and the education she acquires in French school, Chohra chooses to add another face to her already hybrid identity by moving to Italy and writing her life in Italian.

Parati pone in rilievo la peculiarità dell'esperienza descritta da Chohra: se confrontata con altre storie di donne immigrate, la vicenda narrata dalla scrittrice franco-algerina apparirebbe, da alcuni punti di vista, privilegiata: 

it has very little in common with most migrant women's experiences as domestic laborers. Chohra first came to Italy as a tourist and later became an "accidental immigrant" when she met and married an Italian man. She grew up in Marseilles, France, but she never wrote in the language of her education.

Ulteriore aspetto che differenzia il caso di Nassera da quello di altri immigrati appare l'assenza di una comunità a cui fare riferimento, una volta giunta in Italia:

Chohra, the tourist in Italy, acquires a position within the Italian middle class without going through intermediate stages, as do most other immigrants. The new community to which she relates in Italy is very different from all the diasporic groups, founded by immigrants such as the Senegalese community or the Moroccan community, which link immigrants to their past and work as support groups in their present lives. Chohra narrates the uniqueness of her experience. Her European experience becomes the filter through which she reads her future and raises her son who is taught Arabic, French, and Italian. 

La religione ha da sempre rivestito un ruolo primario nella cultura della scrittrice: l'islamismo si pone come "un modello integrale di organizzazione sociale e politica, al di fuori di un clero dalle funzioni sacramentali e di una Chiesa così come li troviamo in Occidente". Questa caratteristica condiziona e orienta fortemente la quotidianità, come emerge dal romanzo, causando spesso rammarico nella giovane protagonista: "non ci fu nessuna festa per il mio compleanno: mia madre era convinta che le feste le facessero solo i cristiani. Dalla finestra vedevo tutti i miei amici in cortile e pensavo che mi sarebbe piaciuto molto poterli invitare a festeggiare con me".
Essere musulmano, secondo Fatima Mernissi, scrittrice marocchina impegnata nella lotta per i diritti delle donne nella sua terra, appare come "uno stato civile, una carta nazionale, un passaporto, un codice di famiglia, un codice preciso delle libertà pubbliche" e prescinde dal fattore religioso; inoltre, occorre distinguere tra Islam come fede, come scelta personale, e Islam come legge, come religione di stato. Nassera non può aver chiare tali distinzioni, dal momento che riesce a malapena a tracciare un confine tra credo musulmano e cristiano. Si interpretano, insomma, le tradizioni musulmane attraverso una chiave di lettura cattolica: il Ramadan diventa una sorta di "Quaresima", la festa dell'Aid è paragonata al Natale, anche se avviene in un altro periodo e non prevede doni per i più piccoli. Certo, i suoi occhi di bambina colgono solo gli aspetti più superficiali di questi eventi, quali le feste, i doni, l'abito bianco della comunione. I suoi tentativi di emulazione delle compagne francesi sono destinati a fallire, dati gli interventi sempre devastanti della madre, che si ostina a non comprendere il senso di disagio della figlia. L'immagine che Nassera dà della religione islamica può risultare a volte semplicistica, ma d'altronde ella riporta quelle che sono le risposte che gli adulti le forniscono, nel momento in cui le spiegano le differenze tra un musulmano ed un cattolico: "la differenza è che noi musulmani non mangiamo maiale, non beviamo alcolici, preghiamo Allah e quando moriremo andremo dritti in paradiso". Quindi, quale soluzione migliore per diventare cattolica se non infrangere queste norme? Quando poi le si insinua il sospetto che ciò non basti per convertirsi, viene investita da terribili dubbi:

d'un tratto fui assalita dal terrore. Se non sono diventata cattolica, vuol dire che sono ancora musulmana. E se sono ancora musulmana ho un gravissimo peccato sulla coscienza; vino e salame, pensai angosciata. E se il mio buon Allah mi avesse cancellata? Che cosa sarò mai adesso? E dopo la vita che farò? Non potrò andare in nessun paradiso, né in quello cattolico, né in quello musulmano. 

In realtà, sono cinque i doveri a cui ogni musulmano dovrebbe attenersi, che Fatima Mernissi riassume nel suo saggio:

il primo dovere è la Shahada, una professione di fede che consiste nel riconoscere che Allah è l'unico Dio e Maometto il suo profeta. La Çalat, la preghiera recitata cinque volte al giorno, è il secondo, ed è un rapidissimo esercizio di intensa meditazione […] Digiunare nel mese del Ramandan, dall'alba al tramonto, è il terzo dovere. Fare l'elemosina, la Zacat, è il quarto. Il quinto dovere, infine, per quelli che possono permetterselo, è il pellegrinaggio alla Mecca.

La religione rappresenta dunque un elemento fortemente condizionante la vita di un musulmano, anche se vi è un altro livello di identificazione molto forte, costituito dalle tradizioni locali. Il periodo trascorso dalla famiglia Chohra in Algeria, che i figli visitano per la prima volta, è vissuto, infatti, all'insegna della tradizione e dei riti autoctoni. La popolazione conduce una vita semplice, basata sulla stretta simbiosi tra nomadismo pastorale e agricoltura delle oasi: nel romanzo vengono narrati gli spostamenti da un'oasi all'altra, le notti trascorse a dormire sotto le stelle, le abitudini che i figli devono rispettare. La stretta dipendenza dalle condizioni ambientali costituisce un aspetto tipico della cultura nomade: "il nomadismo rappresenta l'espressione più piena e prodigiosa dell'uomo di replicare all'imperativo ambientale, di rincorrere, con una tenacia costante, le sue più esigue risorse". La protagonista definisce, inizialmente, "selvaggi" i suoi parenti e prova ribrezzo per il loro modo di vivere; l'atteggiamento di rifiuto che avverte

deriva dal confronto operato fra alcuni aspetti tradizionali della loro cultura e alcuni aspetti della vita moderna (leggasi anche occidentale e occidentalizzata), collegati soprattutto allo sviluppo tecnologico […] Da ciò, confondendo tra tecnologia e valori, la condanna di una minore evoluzione, soprattutto in campo tecnologico, porta erroneamente e sbrigativamente alla condanna globale della cultura di tipo tradizionale.

La modernità occidentale, simboleggiata dagli oggetti nuovi e sconosciuti che gli emigranti portano nelle loro terre d'origine, si intreccia con la cultura e con le tradizioni dei Saharawi: la madre di Nassera, per esempio, reca dalla Francia medicinali per i bambini e generi di prima necessità: 

mia madre si portava appresso tutto ciò che lì, fra la sabbia del Sahara, era difficile trovare. Ne ha salvati moltissimi di bambini con ascessi o ferite infette che sarebbero quasi sicuramente morti senza le sue cure.

Anche la mentalità che dimostra di aver assunto Nassera presenta tratti fortemente occidentalizzanti. Infatti, una delle prime domande che la bambina si pone riguarda l'assenza di molte "comodità" a cui era abituata: 

non è possibile, questi non possono essere nostri parenti; non hanno catenelle allo scarico del bagno, al posto delle case hanno delle tende come gli indiani, al posto delle lampadine usano le candele, sfido io, non hanno i soffitti, dove li attaccano i lampadari? Dormono in mezzo alla strada e il letto non è nemmeno morbido, non ci sono rubinetti e, cosa gravissima, non hanno neppure la tivù! Io qui non ci sto più. Domani ritorno in Francia.

Nelle serate a Marsiglia l'intera famiglia, infatti, guarda la televisione, concepita come uno strumento utile per una maggiore integrazione nella società ospitante, ma soprattutto perché essa rappresenta una piacevole novità. La televisione diventa un oggetto indispensabile, volto a riempire il vuoto di certe serate: 

quando a casa nostra mancava la tivù, era come se mancasse una persona cara. Forse anche peggio. E quella sera la maledizione degli scioperi televisivi ci aveva colpiti senza alcun preavviso. Io e i miei fratelli ci annoiavamo a morte.  

In altre occasioni spicca la mentalità acquisita da Nassera in Francia:

anche lì, nel deserto, avrei voluto fare delle trasformazioni. Innanzitutto, via le tende. Avrei costruito grandi case con tutt'intorno prato all'inglese e tantissimi fiori colorati. Alle donne avrei distribuito delle mutande e nelle abitazioni avrei messo anche un bagno; uno vero, che si potesse anche chiudere a chiave. Nelle cucine tutti avrebbero avuto un frigorifero pieno di bottiglie d'acqua fresca e ai bambini del villaggio avrei procurato delle scarpe per proteggere i loro piedi dalla sabbia bollente.

Un atteggiamento siffatto non sembra essere condiviso da coloro che circondano la protagonista, che anzi reagiscono duramente alle sue lamentele: 

dissi tutte queste cose a mia sorella, sperando che anche lei fosse d'accordo, così potevamo ripartire insieme, ma lei invece s'arrabbiò moltissimo. Alzò persino la voce, lei che è sempre calma. "senti, non ti rendi conto che stai rovinando la nostra vacanza? Qui sono tutti gentili con te e tu per tutta risposta non fai che lamentarti e li tratti da selvaggi. Se c'è una selvaggia, qui, quella sei tu! E se qui c'è qualcosa che non ti piace te ne puoi anche andare, ma da sola!" Me ne andai a dormire con il muso lungo. 

L'attenzione della protagonista, tuttavia, viene rapita da altre "stranezze", che allontanano rapidamente il senso di delusione iniziale. Il ruolo che a Marsiglia rivestiva la televisione viene infatti sostituito dal racconto di leggende e miti antichi: in queste occasioni, il deserto si anima, le montagne e le fonti divengono teatro e protagonisti di gesta epiche, narrate dalle donne, depositarie della cultura:

per tutta la settimana, ogni sera mi addormentai durante quell'ultimo pasto, ascoltando le leggende appassionanti che le donne più anziane ci raccontavano nel buio. Quelle ultime notti nel Sahara mi convinsero che si poteva vivere anche senza tivù.

La tradizione orale costituisce una forma tipica del nomadismo. Anche nel breve racconto La signora del deserto, che deve questo titolo alla protagonista, la maga Mochina, Nassera s'incanta ascoltando le leggende che la donna narra intorno alla vita del suo popolo. L'atmosfera che viene a crearsi è soffusa di incanti, antiche credenze e superstizioni, conservate dai Saharawi con grande devozione. 
Accanto al ruolo di "narratrici", le donne svolgono compiti di notevole rilievo, dando prova di grande praticità ed essenzialità. Differentemente da quanto si possa pensare, 

in nessun altro popolo di fede islamica il potere e l'autonomia al femminile sono così vasti. Le tuniche tradizionali, le acconciature, i monili, tutti gli ornamenti rilucono sotto il sole, mentre le donne preparano il cibo, insegnano ai loro bambini, curano i malati, riuniscono le amministrazioni dei vari campi che compongono la loro patria provvisoria: il 90% dei "consiglieri comunali" sono donne, così come gli insegnanti.

Queste parole si riferiscono alla situazione attuale dei Saharawi, ma anche nel romanzo sono presenti aspetti non molto lontani da tale realtà. 
L'intraprendenza femminile si manifesta, in primis, nella protagonista, che sin da piccola dimostra di avere un carattere molto forte e deciso, mai disposto a cedere pur di raggiungere i propri obiettivi; tenacia e costanza che, alla fine, verranno premiate. Le donne, dunque, risultano essere le protagoniste delle vicende descritte, vissute accanto a uomini che spesso rappresentano più ostacoli che appoggi: la società occidentale descritta nel romanzo appare piuttosto "maschilista", fatta da e per gli uomini, i quali esercitano la loro forza fisica per sopraffare la sventurata di turno. Ciò non significa, comunque, che le figure femminili descritte siano arrendevoli e accondiscendenti: questa caratteristica costituisce una delle cause del tormentato rapporto tra Nassera e sua madre, figura onnipresente e autoritaria. Si tratta in entrambi i casi di caratteri molto forti, che inevitabilmente vengono a scontrarsi. Nassera incarna la metamorfosi della donna musulmana che rifiuta ruoli marginali e imposti da altri, rivendicando un'autonoma identità: 

un'identità di donna, piena, intera e consapevole che l'avversario da combattere è soprattutto e davanti a tutto la multisecolare mentalità maschile […] Una mentalità questa che non imperversa solo nel campo dei partigiani di Dio, ma purtroppo, più sommessa, più ambigua, anche in ben altri.

Scrive così Hinde Taarji, giornalista marocchina, considerando alcune delle laceranti contraddizioni che l'universo femminile arabo vive in questi anni. Nel caso di Nassera, ella si ritrova a gestire un difficile rapporto con sua madre, emblema di un più complesso sistema, che risulta però indebolito dal fatto che le vicende si sviluppano al di fuori dei territori arabi. 
La nostra identità tradizionale riconosceva a stento l'individuo, aborrito in quanto perturbatore dell'armonia collettiva. Nell'Islam non esiste la nozione di individuo allo stato di natura, nel senso filosofico del termine. La società tradizionale fabbricava musulmani, letteralmente dei "sottomessi" alla volontà del gruppo. L'individualità in un sistema simile è scoraggiata, ogni iniziativa privata è bid'a, innovazione, che costituisce necessariamente un errore. La società tradizionale cercava di fermare lo sviluppo della personalità a uno stadio che non minacciasse l'autorità del capo, un abbozzo di individuo che non perveniva all'autonomia (identificata con la ribellione). 

Con una cultura simile alle spalle, risulta arduo costruire una propria identità, mentre ogni giorno si profila una sfida diversa. La spietata asprezza materna si rileva sin dalle prime pagine: la prima azione descritta appare la "tortura", quasi compiaciuta, a cui la donna sottopone i figli nei giorni di festa, differentemente dal padre che li veste e pettina "con una delicatezza insospettabile per quelle sue grosse mani da muratore". Il carattere della donna presenta i suoi peggiori aspetti quando si tratta di punire i figli, in particolare Nassera: le infligge spesso umilianti e ingiusti castighi, volti a ferire la femminilità della figlia (dal taglio delle amate trecce all'uso del peperoncino strofinato sui genitali). 
Nassera spiega queste crudeltà, spesso gratuite, con il complesso di inferiorità della madre dovuto al colore della propria pelle. Scrive a questo proposito: "forse avrà pensato che doveva farmela pagare molto cara proprio perché anche lei era nera. E insomma, per sfogare con qualcuno i suoi complessi, se la prese con le mie trecce". 
"Essere nera" viene vissuto, infatti, come un problema, una limitazione, da Naci:
 
the body becomes for Naci the mirror that reflects a black woman's limitation, that defines her as the reflection of her mother […] Naci finds herself divided between her desire of whiteness and order and the feeling of being trapped in black disorder and imperfection. 

Quando Corinne, una giovane francese, rifiuta di prestare una bambola a Nassera adducendo come motivazione il colore scuro della sua pelle,
 
fu come se mi avesse dato uno schiaffo. Nessuno me lo aveva mai detto - per la verità non me n' ero mai accorta - che il colore della mia pelle facesse differenza, che essere nera fosse peggio che essere bianca […] Corsi in casa come una furia alla ricerca di uno specchio. Ne trovai uno in fondo ad un cassetto: era piccolo, con un graffio proprio nel mezzo. Non importa - pensai - per quel che mi serve è perfetto. Mi osservai a lungo, mi toccavo la guancia con l'indice della mano destra per vedere se, per una qualche magia, si riuscisse a far sparire un po' di quel colore che mi riempiva tutta. Niente da fare: continuavo a vedermi tutta nera, a parte i denti e il bianco degli occhi. Alla fine dovetti arrendermi all'evidenza: ero diversa da Corinne. Lei era bianca ed io ero nera. Questo spiega tutto! - conclusi - ecco perché non ho bambole e niente di quello che hanno le mia amichette bianche. Devo provvedere al più presto. Devo diventare bianca. 

Nassera prova spesso rancore e rabbia verso la madre e "quel suo sangue africano": esso le causa molteplici difficoltà ed, inoltre, rinvia ad un sistema di valori che la bambina non capisce, poiché le vengono imposti, non facendo che aumentare il suo smarrimento e la sua dislocazione. A tali sentimenti, si aggiunge anche un senso di vergogna nei confronti della madre, che induce Nassera, in occasione dell'uscita da scuola, ad evitarla; poi, da adulta, riconoscerà il suo errore: "per una settimana mi sono vergognata moltissimo di mia madre e del colore della mia pelle, e solo ora so che non potrò mai vergognarmi abbastanza a lungo per essermi vergognata di lei". Tale sentimento risulta intollerabile per la madre, poiché lo interpreta come un rifiuto della figlia nei confronti della famiglia e delle sue tradizioni. Esso è provocato da un senso di insufficienza nella bambina, ma anche di paura del ridicolo, ed insorge nel momento in cui l'ideale prefissato non viene raggiunto. In questo caso, il voler diventare bianca appare un obiettivo destinato a rimanere frustrato, che però nel corso del romanzo perde progressivamente di importanza: la protagonista approderà, infatti, alla piena accettazione e realizzazione di sé, senza alcun complesso di inferiorità. Durante l'infanzia, però, risulta arduo possedere una tale maturità, tanto che in un'altra occasione si ribadisce la sensazione di imbarazzo: Nassera è stata ricoverata in ospedale per un'appendicite e quando la madre scopre che condivide la stanza con un altro bambino, grida allo scandalo fino a quando non ottiene che quest'ultimo venga trasferito: 

appena mia madre s'accorse che nella mia stessa stanza c'era un bambino maschio fece fuoco e fiamme come un drago. Mi vergognai molto, anche quella volta, di lei e della sua reazione. Volle a tutti i costi parlare con la caposala e strillò così forte che il mio nuovo amico fu trasferito altrove in un baleno.

Hinde Taarji definirebbe questa donna come una di quelle "che conoscono una sola parola, quella di Dio", per indicare il fanatismo che la caratterizza. La madre assume spesso le fattezze di una megera agli occhi di Nassera: "fece fuoco e fiamme come un drago", "urlò come un'ossessa", "sembrava un animale feroce pronto a straziare la sua preda", "ricomparve con la cinta dei calzoni di mio padre stretta in una mano e il solito peperoncino nell'altra. Credo che le sue urla abbiano raggiunto tutto il quartiere". 
L'atteggiamento severo, talvolta spietato, non ha alcun effetto positivo sull'educazione dei figli, anzi ottiene i risultati opposti a quelli sperati: Nassera ammette di non averle mai dato retta e nel momento in cui ha dovuto scegliere, ha dimostrato una fermezza non comune: "da una parte c'erano i miei sogni, dall'altra mia madre. Decisi per i miei sogni". Lo stesso discorso vale anche per le altre figlie, che sono più benvolute rispetto a Nassera, ma che di fatto si comportano in maniera riprovevole:

mia sorella Fati a scuola era una persona diversa. Rideva forte, strillava, voleva essere sempre al centro dell'attenzione. Non faceva mai i compiti e frequentava un gruppo di ragazze poco raccomandabili. Erano appena più grandi di me, ma vestivano come fossero donne mature, fumavano e trattavano tutte le altre compagne con aria di sufficienza. Tra loro parlavano sempre di ragazzi e Dio sa solo di cos'altro!

Fati, poi, lascerà la famiglia per trasferirsi a Parigi, dimenticando gli insegnamenti islamici e la cultura dei genitori .
Il rigido atteggiamento materno cela un disagio di fondo: nel romanzo, per esempio, non si fa mai cenno ad alcun tentativo, da parte della donna, di legare con qualcuno, anzi, le raccomandazioni sono quelle di non dare confidenza a quanti potrebbero incarnare la corruzione ed il vizio. Ella, troppo occupata dalle faccende domestiche e dai figli, non bada a ciò che accade fuori della sua casa, a quel mondo estraneo e ostile. Il suo carattere intollerante la porta a disapprovare le amicizie della figlia, adducendo come motivo la scarsa serietà di certe ragazzine; in realtà si tratta di giovani francesi, per cui instaurare un rapporto con loro viene letto alla stregua di un "tradimento". La sua intransigenza spicca in molte altre occasioni: non accetta che le proprie figlie conservino foto o poster di cantanti, che facciano innocenti apprezzamenti su attori che vedono in televisione, per non parlare poi della passione di Nassera per la recitazione, assolutamente riprovevole. Si tratta di una battaglia destinata a rimanere invitta, poiché risulta impossibile ignorare tutti gli spunti che la società occidentale offre ed i compromessi che richiede. 
Il rapporto conflittuale con la madre costituisce, tra l'altro, l'oggetto di uno studio di Luce Irigaray: esso "è desiderio folle, perché è il "continente nero" per eccellenza. Resta nell'ombra delle nostra cultura, è la sua notte e i suoi inferi". Prendere consapevolezza di ciò che la studiosa francese indica come "il primo corpo a corpo con la madre" significherebbe, per le donne, pervenire ad una definitiva "istituzione dell'identità sessuale", che fin'ora è mancata.

Ma dove si trova, per noi, l'immaginario e la simbolica della vita intrauterina e del primo corpo a corpo con la madre? In quale notte, in quale follia vengono lasciati? E il rapporto con la placenta, questa prima casa che ci circonda e il cui alone noi portiamo ovunque, come una sicurezza della prima ora, come si presenta nella nostra cultura? […]Così l'apertura della madre, l'apertura alla madre, appaiono come una minaccia di contagio, di contaminazione, di sprofondamento nella malattia, nella follia, nella morte […] La madre è diventata mostro divorante per effetto di ritorno del cieco consumo di lei. Il suo ventre, talvolta il suo petto sono come ferite aperte dalla gestazione,
dalla nascita, dalla vita che lì sono state donate senza niente in cambio. Se non l'uccisione, reale e culturale, per annullare il debito? Dimenticare la dipendenza? Distruggere la potenza

La durezza della donna, tuttavia, sembra svanire quando ritorna per un breve periodo con la famiglia, nel Maghreb: il senso di dislocazione, causa di tante tensioni, si dissolve, l'atteggiamento dei genitori muta. Tale attaccamento alla terra non può essere sentito dalla giovane protagonista, alla quale si presenta un mondo totalmente nuovo:

fuori ci aspettava un altro mondo. Le case erano tutte basse, al massimo due piani. Bianchissime e abbellite da molti architetti. Eravamo completamente circondati da bancarelle coloratissime. C'era un sacco di gente e tutti erano vestiti come dei poveracci, con tuniche stracciate o pantaloni rattoppati alla meglio. Le donne poi, erano coperte fino ai piedi. Quasi tutte portavano in testa un velo nero, qualcuna bianco. Non riuscivo neppure a distinguere il colore dei loro occhi: sembravano fantasmi. Tutt'a un tratto mi sentii a disagio, avevo la sensazione di avere centinaia di occhi addosso…Sentivo musica provenire da ogni direzione, ma non ballava nessuno, non c'era nessuna festa.

Superato, con qualche difficoltà, il primo impatto, Nassera inizia ad abituarsi al nuovo mondo: la chiave di svolta è data dalla visita all'oasi, luogo affascinante e paradisiaco:

un'oasi - l'ho ripensato spesso - è proprio un posto da sogno. Non ricordo d'aver mai visto altrove alberi così grandi e così belli […] D'un tratto i miei parenti mi sembrarono meno selvaggi e anch'io mi sentii un po' più ricca. Tutto in quel posto era grande ai limiti dell'immaginabile: lo spazio, il silenzio, il cielo, il sole. E anche le palme da datteri. E le angurie, i pomodori. Capii che questi erano i veri tesori della gente del deserto e che anche di questo si poteva avere nostalgia. Mi sembrò di capire meglio mio padre e mia madre, quelle lacrime che avevano versato il giorno dell'arrivo. La tristezza dei loro occhi quando ci raccontavano del loro paese d'origine.

Le oasi rappresentano le uniche fonti di vita agricola nel deserto, sono preziosi nodi del grande tessuto commerciale che ha animato il vuoto tra le sponde mediterranee e l'Africa nera. Costituiscono un crocevia di popoli e tribù, di cui si fa cenno anche nel romanzo: in quest'occasione, infatti, Nassera osserva una carovana di nomadi e constata la correttezza e il rispetto delle regole: "nelle oasi non ci sono guardiani. In quei posti nessuno ruba e non c'è bisogno nemmeno di steccati per dividere i terreni: ognuno sa fin dove arriva la sua proprietà e non va oltre". Tale esperienza rappresenta una lezione di civiltà dinanzi agli occhi meravigliati della bambina, che invece erano abituati a tutt'altre scene nei quartieri degradati di Marsiglia. 
La visita in Algeria della famiglia Chohra permette al lettore di "sbirciare" nelle tradizioni del luogo: viene dato molto spazio al trattamento delle donne, al rito del matrimonio, all'iniziazione delle ragazze al mondo adulto. Nassera assiste alla celebrazione di un connubio, che è considerato uno dei momenti più importanti nella vita di una donna: si sottolinea così il concetto tradizionale secondo cui una singola persona non può esistere per se stessa, ma solo come membro del gruppo a cui appartiene, che gestisce gli individui e, quindi, anche i matrimoni. Il fatto che questi non costituiscano una scelta individuale, bensì l'esito della decisione dei parenti, non appare contraddittorio agli occhi della bambina; lo diventerebbe, invece, se venisse imposto al di fuori dell'ambito musulmano. Nassera stessa afferma che il matrimonio è "un vero e proprio atto di commercio. Non si tratta di cammelli o capre, ma di milioni. E la richiesta aumenta quanto più la ragazza è istruita. Una figlia dunque è anche un investimento finanziario". Nel suo modo ingenuo, Nassera contribuisce ad abbattere uno degli stereotipi più diffusi relativi al mondo musulmano:

non è affatto vero quel che si usa dire degli arabi che sono sempre pronti a dare i loro cammelli in cambio delle turiste europee. Un musulmano non darebbe via un cammello, che per lui è un mezzo di sostentamento, per una donna che non accetterebbe certo di lavargli i piedi! Sono solo trovate delle agenzie di viaggio per divertire i turisti. 

Ulteriore evento a cui la giovane protagonista partecipa è il rito di "battesimo" dei suoi fratelli, ossia la circoncisione: alle donne sarebbe preclusa la partecipazione, ma la curiosità è troppo forte: 

mi toccò disubbidire ancora una volta. Mi intrufolai nella tenda di nascosto e rimasi acquattata in un angolo per tutto il tempo con il fiato sospeso. Non riuscivo a vedere i miei fratelli, ma sentivo perfettamente tutto ciò che si diceva. Semplici parole di auguri. A un tratto però il sangue mi si gelò nelle vene. Uno strillo fortissimo attraversò improvvisamente l'aria, la voce mi sembrò quella di Mourad. Dopo nemmeno un minuto riconobbi la voce di Ahmed in un lamento straziante. 

La considerazione ironica a cui perviene è la seguente: "ancora una volta fui grata a mia madre per avermi fatto femmina", che, detto da una donna araba, può apparire insolito ad orecchi occidentali. 
Nel romanzo si coglie un rapido cenno alla pratica islamica del Ramadan, che per Nassera rappresenta un'occasione in più di festa. A dimostrazione della fedeltà dei Saharawi alle tradizioni, i suoi genitori rispettano tale usanza anche in Francia, compiendo enormi sacrifici per farla sopravvivere ai ritmi della società occidentale:

gli adulti temono un po' questo periodo, soprattutto i Saharawi che devono rimanere senza bere sotto quel sole cocente: durante il Ramadan, infatti, la maggior parte degli adulti dorme quasi tutto il giorno, per far sì che i bisogni del corpo si facciano sentire il meno possibile. Fu terribile per mio padre e mia madre che, al ritorno delle ferie, in Francia durante il giorno dovettero andare lo stesso a lavorare. 

Tra le abitudini trasferite in Francia, anche l'aspetto musicale presenta un certo rilievo: Nassera si diverte a intrattenere i familiari deliziandoli con improvvisate danze del ventre, che sin dai tempi antichi animavano le giornate e le notti dei sultani negli harem:

quella domenica sembrava irrimediabilmente rovinata, finché non mi venne un'idea. Misi sul piatto del giradischi un disco arabo e mi infilai il vestito buono di mia madre. Con un foulard stretto intorno ai fianchi feci il mio ingresso dalla porta della camera da letto, improvvisando una danza del ventre come avevo visto fare alle ballerine che ci sono sempre in ogni matrimonio che si rispetti.

Differentemente dalle figure femminili, quelle maschili non hanno mai un ruolo protagonista, sia nel periodo trascorso in Algeria, sia nella vita a Marsiglia. Il padre di Nassera viene descritto come una figura silenziosa, per nulla autoritaria, dedita alla famiglia ed al lavoro. I dialoghi che lo vedono come interlocutore sono rarissimi e se parla si rivolge alla figlia; appare inoltre una figura anonima nel senso letterale del termine, dal momento che non è dato conoscere il suo nome. Il suo personaggio compare sin dalle prime pagine del romanzo ed il lettore prova subito un sentimento di simpatia verso questo uomo forte e, contemporaneamente, dolce:

mio padre era uno con cui si poteva sempre scherzare, anche quando tornava a casa stanco morto. Era sempre a disposizione dei suoi bambini. Insieme, tutte le sere, guardavamo la tivù e spesso ci addormentavamo tra le sue braccia. E lui era così felice di portarci a letto; stava attentissimo a non svegliarci mentre ci infilava sotto le coperte, come fosse una benedizione di Dio potersi sacrificare per noi. 

La figura paterna appare l'unica verso la quale Nassera nutre rispetto ("per farlo felice io avrei fatto qualunque cosa"); deluderlo significa compiere il peggior atto possibile, molto più grave di qualsiasi altra mancanza. Addirittura ella arriva a chiedersi, ingenuamente, come un uomo come suo padre, così bianco e bello, possa aver sposato una donna così nera come sua madre. I confronti tra queste due figure risultano inevitabili: egli non si arrabbia mai, è aperto al dialogo, risponde pazientemente alle domande della figlia, diversamente dalla madre che va in escandescenze ogni volta. La sua inusitata bontà, però, lo porta ad essere vittima della situazione: ricorrendo all'espressione di Giacomo Debenedetti, in Il romanzo del Novecento, lo si potrebbe definire come un "uomo tra parentesi" (espressione che il critico usa a proposito del noto personaggio pirandelliano Mattia Pascal), dalla quale non può né vuole uscire in quanto confinatovi dalla moglie e, in seguito, dal figlio maggiore. Egli sceglie di non scegliere, di compromettersi il meno possibile, in modo tale che, "qualunque guaio o incombenza succeda, egli sia in grado di sentirsene immune o, alla peggio, ferito il meno possibile". Egli cerca di continuo una posizione defilata, limitandosi a "sbrigare quest'incombenza di vivere", caratterizzata dalla dedizione quasi meccanica al lavoro. Il suo potere decisionale appare ridotto a zero ed il suo ruolo viene ben presto sostituito da Mohamed, il figlio maggiore: quest'ultimo sfoga spesso la sua ira nei confronti di Nassera. La situazione degenera fino a quando ella sporgerà denuncia, ponendo fine ad una serie inaudita di percosse e violenze. Nemmeno in questi frangenti estremi, però, il padre interviene, schierandosi in difesa del più debole. Tale personaggio impersona l'esatta antitesi delle figure maschili dei romanzi di Federigo Tozzi, soprattutto se si considera Con gli occhi chiusi, opera edita nel 1919, in cui la violenza ed il brutale protagonismo paterno rendono il figlio e la moglie, finché questa è in vita, sottomessi ed infelici. In Volevo diventare bianca, i ruoli sono invertiti: la madre domina completamente la situazione, tanto che i riferimenti che, nel corso del romanzo, riguardano il marito, alla fine scompariranno del tutto. Infine, si ha un breve cenno al personaggio del nonno materno, incontrato in Algeria, ed alle sue due mogli: la poligamia viene descritta, nel romanzo, come una pratica ancora in uso. Nei paesi arabi, poiché l'usanza voleva che si pagasse un prezzo per ogni moglie, essa rappresentava un evidente un segno di benessere economico.
Si può facilmente constatare, quindi, che le figure maschili, nel romanzo, non rivestono ruoli centrali e, quando compaiono, si presentano delineate piuttosto negativamente: degli uomini vengono ripresi gli aspetti più violenti, istintivi, quasi animaleschi. 
Nassera sviluppa un atteggiamento diffidente nei loro confronti, dovuto sia alla demonizzazione attuata dalla madre, sia alle esperienze che vive: da bambina è riuscita fortunosamente a fuggire dalle molestie di un uomo in casa di sua zia, in cui era stata temporaneamente trasferita, per non parlare delle percosse che subisce dal fratello maggiore. Ma anche da adulta deve difendersi dalle brame di un "amico" di sua sorella, a Parigi, presso il quale viene ospitata. Quando poi Nassera intraprende il viaggio in Italia, con un'altra sua sorella, Ablà, è costretta a respingere le numerose proposte che uomini italiani avanzano nei suoi confronti; paradossalmente le uniche persone amiche che le giovani incontrano sono due ragazzi, che poi si riveleranno essere omosessuali. Lo stereotipo, secondo cui l'uomo sarebbe un cacciatore di donne destinate a divenire vere e proprie prede, non risulta, dunque, del tutto infondato. Tuttavia nel testo, la figura di Nassera si riscatta: "questo libro ci offre un'altra prospettiva, un'immagine diversa della donna immigrata, non necessariamente vittima, non passiva, non subalterna; capace, al contrario, di progettare il proprio futuro". 
Il tema della violenza contro le donne rappresenta un argomento che Fatima Mernissi prende in considerazione nella sua analisi della letteratura religiosa: questa tematica, sin dai tempi di Maometto, è stata al centro di un acceso dibattito al cui interno sono emerse posizioni molto contrastanti, divise tra coloro che legittimavano l'uso della violenza nei confronti di una donna che si nega al marito e coloro che disapprovavano atteggiamenti aggressivi.
Tale discorso conduce alla questione della sessualità, strettamente connessa a quella della verginità, tematica che percorre l'intero romanzo. Per gli arabi sarebbe la garanzia del valore di una donna (una sposa viene ripudiata se il marito constata che ha avuto rapporti con altri uomini, senza contare che ciò screditerebbe l'intera famiglia della giovane): "l'Islam condanna duramente ogni relazione sessuale al di fuori del matrimonio, incoraggiando uomini e donne a sposarsi, dal momento che il celibato era considerato la porta d'accesso di tentazioni d'ogni tipo". 
Nassera stessa, in Algeria, viene sottoposta ad un rito che dovrebbe preservarla dal pericolo di stupro, che, nel romanzo, rappresenta quasi un'ossessione per la madre: anche quando non è più una bambina, il personaggio che dice io viene costretto ad esibire regolarmente un certificato medico che attesti la sua "purezza". Anche i racconti che ascolta, nel deserto, sono tutti volti a sottolineare l'importanza di questo aspetto, dal quale dipende l'onore di una donna. Nassera fa suo tale insegnamento, poiché lo approva e non lo vive come un'imposizione: se lo percepisse come tale, farebbe qualsiasi cosa per non rispettarlo. 
Fatima Mernissi, da parte sua, sottolinea l'ossessione degli arabi per tutto ciò che riguarda la sfera sessuale, etichettata come qualcosa di impuro: tale questione si è rivelata oggetto di secolari discussioni e riflessioni, sin dai tempi antichi. La scrittrice marocchina analizza numerosi detti misogini volti a sottolineare l'inferiorità della donna: ella sostiene che si tratterebbe di strumentalizzazioni degli insegnamenti del Profeta, il quale, nei confronti dell'universo femminile, manteneva un atteggiamento di assoluto rispetto e benevolenza. La sessualità vissuta come un tabù dalla protagonista rappresenta il retaggio di una lunga tradizione secolare ed offre lo spunto per una riflessione sulla superficialità dei rapporti, sulla facilità con cui essi si creano e si sfaldano in tutti gli ambienti che Nassera frequenta: in particolar modo si dimostra essere promiscuo l'ambiente del cinema, di cui ella farà parte, senza però scendere agli sgradevoli compromessi che spesso comporta. 
Non sono solo le questioni di natura religiosa a preoccuparla, ma anche le discriminazioni di tipo razzista che subisce: si è visto come l'afflusso di migliaia di extra-comunitari causi tensioni e manifestazioni xenofobe da parte dei cittadini francesi: "la Francia è stata troppo buona con voi. Se dipendesse da me, di stranieri non ne farei entrare nemmeno uno", "non ti sopporto più, brutta negraccia", "al primo piano di fronte a noi c'era una coppia con due figli: il padre non salutava mai né gli arabi né i negri", "man mano che alla Savine (quartiere di Marsiglia) si trasferivano altre famiglie di immigrati, il malumore dei francesi che vi abitavano cresceva", "io non sono affatto razzista, per carità, ma la gente di colore mi fa un po' senso". 
Accanto a tali evidenti segnali di intolleranza, occorre evidenziare un ulteriore atteggiamento discriminante nei confronti dei "diversi", assunto da un'insegnante di Nassera: "non faceva che ripetere che chi si trasferisce a vivere in un altro paese deve adeguarsi agli usi e costumi di quel paese". Parati, a questo proposito, ricorre all'espressione "reductio ad unum" indicativa di una "ideology of immediate assimilation based on the superiority of white French traditions".
Si sa, e questo romanzo lo sottolinea ancora una volta, che l'intransigenza nei confronti di altre culture nasce dalla scarsa informazione che si ha intorno a queste: "una delle cause del razzismo, infatti, è data proprio dalla mancanza di conoscenza di questo mondo e soprattutto dall'abitudine storica a considerare questa popolazioni pericolose e la loro religione arretrata e integralista".
La consapevolezza dell'impossibilità di un ritorno ad un'unica identità, origine e cultura, provoca spesso in Nassera un senso di isolamento e di incomprensione; il fatto che si senta estranea alla cultura maghrebina e che in Italia e in Francia sia percepita come una persona appartenente a quella medesima cultura la fa sentire una straniera ovunque. Tale sensazione percorre l'intero testo sin dalle prima pagine: "in quel posto ormai tutti mi facevano sentire diversa, estranea" (riferito alla casa di una zia), "in classe ero l'unica ragazzina di colore. E questo sentirmi diversa dagli altri mi faceva essere permalosa e aggressiva", "io ormai stavo quasi sempre da sola", "io mi sentivo molto sola e incompresa", "io che non ho una patria né una bandiera da venerare". Tale stato d'animo verrà meno solamente alla fine, quando la ricerca di dignità e autonomia della giovane in balia delle sue inquietudini avrà finalmente compimento:

mia madre probabilmente oggi, guardando mio figlio, si chiede quale Dio pregherà, che vita farà, quale lingua parlerà. Ma mio figlio le lingue le sta imparando tutte: l'arabo, il francese, l'italiano; e spero che possa crescere serenamente, prendendo di qua e di là, tutto ciò che potrà renderlo felice. Ma mi auguro, soprattutto, che il futuro gli dimostri che bianco e nero non sono altro che sfumature. 

In un interessante intervento dal titolo Gelato e peperoncino, che riprende uno dei capitolo del romanzo autobiografico, Gian Paolo Biasin analizza la metafora del cibo nell'opera di Chohra:

la contrapposizione tra il gelato ed il peperoncino contiene in nuce il contrasto fra due culture: il gelato è il prodotto della tecnologia occidentale applicata al benessere fisico (la tecnica del freddo permette di confezionare un prodotto che allevia il calore e nello stesso tempo piace al palato); il peperoncino verde, ingrediente di cucina comunissimo nei climi caldi, è usato anche come un castigo fisico che mortifica il corpo della piccola peccatrice, con un contrappasso insieme letterale e simbolico (il fuoco dopo il ghiaccio) che sottolinea efficacemente la preminenza del rigore morale-sociale della tribù sull'edonismo occidentalizzante e troppo disinvolto dell'individuo. […] Esso ha una evidente funzione come demarcatore culturale e religioso, informando inoltre i lettori occidentali dei costumi arabi: per esempio, il menù della famiglia di Naci durante la visita ai parenti nel deserto è composto di cuscus, frutta (molti i datteri, naturalmente) e tè alla menta per i grandi, e acqua per i bambini […] Così, attraverso i cibi e i relativi rapporti interpersonali e interculturali, si compie la formazione di Naci.

In Volevo diventare bianca, la narrazione avviene in prima persona, o, secondo la definizione di Genette, si tratta di un narratore interno alle vicende, che racconta una storia a cui ha direttamente partecipato, di cui è il protagonista. La struttura di questo tipo di narrazione prevede uno sdoppiamento tra l'io narrante, (il personaggio nell'atto del narrare) e l'io narrato, (il personaggio nell'atto di vivere). Si tratta quindi di due livelli diversi della storia, che, nel caso in questione, si ricongiungono all'altezza dell'explicit. I tempi verbali sottolineano questo aspetto: l'intera vicenda è narrata al passato, sino a quando, nel finale, l'autrice tratta della sua situazione attuale, al presente. Ciò non significa che non esistano differenze tra io-narrante e io-narrato: 

nella maggior parte dei casi tra il protagonista nell'atto di cominciare a vivere l'esperienza e il protagonista medesimo nell'atto di narrarla il solco è profondo. Questo accade generalmente proprio perché se un individuo narra una storia che lo riguarda lo fa perché la ritiene, oltre che degna di interesse, tale da avergli insegnato qualcosa o almeno da averlo mutato.

Così, il passato, tempo dell'avventura riferito all'io-narrato, si ricongiunge al presente, tempo della scrittura riferito all'io-narrante; questi due tempi riguardano la medesima persona, in quanto protagonista e narratrice delle vicende. Il ricongiungimento dal punto di vista temporale, formale, appare specchio di un altro, di tipo contenutistico, tematico: sembra che l'autrice abbia finalmente trovato un suo equilibrio, realizzandosi pienamente e prendendo consapevolezza della sua "multiculturalità", non vissuta più come una debolezza, bensì come un vantaggio. 
Certamente, nell'atto di scrivere il libro, ogni scrittore si pone in una condizione psicologica ed emotiva tale da indurlo a rivelare, a sé e agli altri, un'immagine momentanea e parziale di sé, accentuando magari involontariamente aspetti positivi o negativi della propria personalità. Nonostante la stretta aderenza alla realtà, risulta inevitabile che in un genere quale l'autobiografia non si prescinda da un processo di elaborazione letteraria: 

d'altronde il fatto che la letteratura non coincida in senso stretto con la realtà, non è mai stato veramente in discussione […] La verità ed il riscontro oggettivo in particolare sono, caso mai, problemi di altri generi: ad esempio, per l'agire umano, la storiografia, che pur non rinunciando a interpretare i fatti reali si propone un'assoluta fedeltà ad essi.

Nel momento in cui l'autore decide di narrare la propria esistenza, deve necessariamente operare una selezione dei fatti, altrimenti rischierebbe di giungere agli esiti paradossali denunciati ironicamente da Laurence Sterne in The Life and Opinions of Tristam Shandy (1767): "quanto a me, affermo che mi ci sono dedicato in queste ultime sei settimane, spicciandomi più che potevo, eppure, ora come ora, non sono ancora nato", annota il narratore. 
Si ritrovano, dunque, lungo tutto il romanzo, ellissi e riassunti funzionali all'accelerazione del racconto, ancor più giustificati nel caso specifico, in cui la narrazione ricopre l'arco di una vita. 
Per quanto concerne la dimensione spaziale, essa rispecchia una concezione latamente romantica: la degenerazione o il miglioramento degli ambienti sembrano influire sullo stato d'animo della protagonista. Le condizioni di vita della famiglia Chohra migliorano progressivamente nel corso della vicenda, che si apre con una descrizione ad effetto dell'abitazione, facendo precipitare immediatamente il lettore nella squallida realtà in cui vivono gli immigrati: 
la nuova casa era un buco: cinquanta metri quadri scarsi per noi che eravamo in nove persone. Due stanzette e la cucina, sistemata in corridoio. Infine uno stanzino che con molta fantasia poteva sembrare un bagno; un buco per terra, parente lontano di un cesso alla turca. La nostra vasca da bagno era una bacinella ovale di metallo grigio.

Nel corso degli anni, la situazione sembra migliorare: i trasferimenti da un quartiere all'altro sono numerosi, ma l'animo della protagonista non sembra sollevarsi: 

erano trascorsi tre anni da quando ci eravamo trasferiti alla Savine. Allora avevamo pensato tutti che avremmo cambiato vita. E in un certo senso così era stato. La casa era più grande ed il quartiere più pulito, ma mio padre continuò ad ammazzarsi di lavoro per pagare l'affitto, mia madre non smise neppure per un giorno di lavare e cucinare, io e i miei fratelli eravamo diventati grandi e ci toccò fare i conti con la durezza e il cinismo del mondo degli adulti.

Solamente con l'arrivo in Italia, la vita sembra arridere a Nassera: 

appena uscimmo dalla stazione ci trovammo su un lungo viale, intorno a noi la gente passeggiava con aria così spensierata che il solo fatto di essere lì mi mise di buon umore […] Tutto mi appariva bello come nelle favole, le case, le strade, i giardini.

Altrettanto significativo appare l'arrivo a Roma: 

la metropolitana ci sbarcò direttamente a Piazza di Spagna e il mio primo pensiero, uscita dal tunnel, fu: ecco, qui voglio vivere il resto della mia vita. Non so se mi innamorai del cielo azzurro, o del colore dei palazzi antichi che si alzavano tutt'intorno, non so se fu quella visione a farmi presagire che la mia vita, con quel viaggio, sarebbe cambiata completamente, o se solo desiderassi intensamente passare il resto dei miei giorni in un attico lassù, fra i tetti, in mezzo al blu.

Spesso l'ambiente diviene quindi la causa del comportamento e dello stato d'animo dei protagonisti: appare emblematica la considerazione di Nassera riguardante il mutato atteggiamento di alcuni arabi nella loro terra d'origine e in Francia: "questo fatto mi colpì molto perché a Marsiglia gli unici che rubano in continuazione sono proprio gli arabi. Lì, invece, niente di niente".
A questo proposito, appare utile parlare del concetto di milieu social, ossia di ambiente sociale, che Grosser sviluppa nel suo saggio, nel capitolo riferito alla storia della rappresentazione spaziale tra Ottocento e Novecento: il discorso riguarda il ciclo dei Rougon-Macquart di Emile Zola e quello verghiano dei vinti, in cui i personaggi sono in stretta connessione con lo spazio che li circonda: 

il concetto stesso di milieu social (ambiente sociale), dominante nella riflessione teorica, sembra legare inscindibilmente, in un rapporto di reciproca influenza, i gruppi sociali allo spazio (paesaggio naturale o umano) in cui si trovano ad agire, che hanno contribuito a creare, che li rispecchia e da cui sono necessariamente influenzati

Il linguaggio di cui si fa uso nel romanzo non appare letterariamente ricercato e si basa fondamentalmente sulla paratassi. Presenta espressioni colorite e strutture tipiche del parlato, dai tratti colloquiali e vivaci. Da un punto di vista sintattico, per esempio, si rileva spesso la prolessi del complemento oggetto: l'anticipazione, cioè, di quest'ultimo, rispetto al predicato verbale. Si riportano alcuni esempi: "Corinne il suo gelato lo mangiava velocemente", "il peso dei pacchi non lo sentivo nemmeno", "ma mio figlio, le lingue, le sta imparando tutte". Tale costrutto appartiene, infatti alla sfera dell'oralità e tende ad enfatizzare l'oggetto in questione. Anche lo stile paratattico, caratterizzato cioè dall'accostamento di molti enunciati, negati ad un rapporto di subordinazione, sottolinea la linearità del discorso. Il linguaggio, come si è detto, è caratterizzato da tratti vivaci e colloquiali: l'impressione che percepisce il lettore è che le vicende siano narrate da una voce infantile, che si pone in modo ingenuo e smaliziato, senza artifici retorici o ricercati espedienti. Ciò può essere letto come una precisa scelta stilistica da parte dell'autrice, che, per quanto voglia far apparire le vicende narrate da una ragazzina, non può non applicare dei, seppur minimi, espedienti narrativi. Anche una forma così apparentemente semplice e spontanea implica, quindi, una scelta letteraria precisa. 

L'infanzia, che si ritrova la centro dell'esperienza autobiografica, si riflette anche da un punto di vista formale: i pensieri e le parole appaiono quelli di un bambino, perlomeno all'inizio della narrazione. 
L'umorismo appare un'altra traccia che percorre la narrazione: si rivela questo, infatti, l'atteggiamento con cui la protagonista si pone nei confronti di ciò che la circonda, ma soprattutto di se stessa. 
Ne dà una definizione semplice Tahar Ben Jelloun, nel saggio Il razzismo spiegato a mia figlia, testo estremamente utile per comprendere, almeno in parte, cosa spinga l'uomo ad adottare certi atteggiamenti nei confronti del "diverso". A questo proposito, lo scrittore marocchino sostiene che una persona razzista non ha senso dell'umorismo, sa solo ridere degli altri in modo cattivo, mettendone in evidenza i difetti, come se lui ne fosse privo: 

per potersi burlare degli altri, bisogna saper ridere di se stessi. Se no, non si ha il senso dell'umorismo. L'umorismo è una forza […] Avere senso dell'umorismo è saper scherzare senza mai prendersi sul serio. E' saper far venire fuori di ogni cosa l'aspetto che fa ridere o sorridere.

Le caratteristiche formali considerate sino ad ora, sono ascrivibili ad una scelta da parte dell'autrice, ma dipendono anche da un altro fattore, che è necessario sottolineare: il fatto che si stia trattando di scrittori immigrati, non, quindi, di nazionalità italiana, comporta alcune rilevanti conseguenze linguistiche. Nassera Chohra ha ricevuto un'istruzione ed una formazione francese, sin dalla nascita: 

the immigrant writers have been highly influenced by the cultural, historical, social and linguistic changes brought about by French colonialism. Although they come from different national contexts, a large number of these writers were educated in France's ex-colonies, and therefore share a "Francophone" identity. The act of becoming an Italophone writer and expressing oneself in Italian marks both a separation from and a connection with Francophone cultures, which have become a mediating element between western and non-Western languages and cultures.

(Per altri scrittori, da Saidou Moussa Ba a Pap Khouma, a Salah Methnami, non c'è stato questo tipo di "intermezzo", in quanto si sono trasferiti dalla loro terra d'origine, l'Africa, all'Italia). 
Alessandra Atti Di Sarro, che ha curato l'edizione di Volevo diventare bianca, mi illustra  la peculiarità dell'esperienza di Nassera: la visione della scrittrice appare quella di una cittadina europea che confronta due mondi ai quali si sente legata. Differentemente da altri immigrati, l'ambiente che la circonda non la stupisce, non rappresenta una novità, poiché ella è nata e vissuta in Europa. L'arrivo in Italia (inizialmente nei panni di una turista), la successiva decisione di stabilirvisi e, infine, il matrimonio con un uomo italiano, creano le condizioni per l'ideazione di un romanzo autobiografico. Per ovviare alle inevitabili difficoltà linguistiche che un progetto siffatto pone, l'autrice ha dettato il testo al marito. Alessandra Atti Di Sarro è intervenuta, in seguito, per conferire una forma corretta al canovaccio iniziale. Ha reso omogeneo l'uso dei tempi verbali, riconducendo le vicende ad una dimensione passata. (Nella prima stesura, la scrittrice era ricorsa unicamente alla forma verbale del presente, anche per narrare vicende passate). La curatrice italiana ha dunque voluto sottolineare la dimensione diacronica, consequenziale, del testo, facilitandone anche la pubblicazione. Non si può parlare, dunque, di piena autonomia da un punto di vista linguistico.
Il caso considerato rientra in una fase intermedia della letteratura d'immigrazione, relativa ai primi anni Novanta: solamente a partire dalla seconda metà di tale decennio, scrittori come Chohra raggiungeranno una totale autonomia artistica e letteraria, affrancandosi totalmente dai colleghi italiani.
Atti Di Sarro sottolinea, tuttavia, una peculiarità di tale scritto rispetto agli altri: l'idea del romanzo autobiografico nasce autonomamente nella scrittrice, senza alcun intervento esterno.
Graziella Parati, da parte sua, ricorre all'espressione, in riferimento a Chohra, di "indipendent writer who has now found a voice, una scrittura", il cui intento, dichiarato, "è di informare sull'esperienza dell'emigrazione, senza drammatizzare, né turbare, il lettore".


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