Introduzione
La
letteratura di immigrazione in lingua italiana costituisce l’oggetto del
presente studio. Nella prima parte di questo contributo sono state analizzate,
in linee generali, le principali caratteristiche di tale fenomeno: le cause
della sua origine, le tematiche più ricorrenti, gli aspetti formali e
linguistici. Si è sottolineato, in particolar modo, il carattere eclettico ed
eterogeneo di tali scritti. Nella seconda parte è stato considerato il
romanzo Volevo diventare bianca della scrittrice Nassera
Chohra: in esso si narra un’esperienza autobiografica, significativa in
quanto vissuta da una donna figlia di immigrati. Tale condizione rende
difficoltoso l’inserimento nella società occidentale, prima francese e poi
italiana, ed anche l’accettazione della cultura d’origine, avvertita come
estranea. Si tratta dunque di una doppia dislocazione, che fa sentire la
protagonista straniera sia nel luogo in cui è nata, l’Europa, sia in quello
della famiglia d’origine, l’Algeria.
Silvia
Camilotti
Capitolo II°
Nassera Chohra è nata nel 1963 a Marsiglia, da genitori Saharawi, popolazioni
nomadi del deserto. Appartiene alla "categoria" degli immigrati di
seconda generazione; situazione che rende ancor più difficoltosa, sotto certi
punti di vista, l'individuazione di una propria identità: si tratta di
scegliere, infatti, tra la cultura e le tradizioni della propria famiglia e
quelle della società ospitante, la Francia. Ella ha scritto un romanzo
autobiografico, Volevo diventare bianca, in cui ripercorre la sua esistenza a
partire dall'infanzia, nella Francia dagli anni Sessanta in poi, e un racconto
inedito dal titolo La signora del deserto. Nasce e cresce in una numerosa
famiglia stabilitasi a Marsiglia, in condizioni, inizialmente, davvero pessime:
la povertà la attanaglia, per cui i suoi componenti possono solo permettersi di
occupare, in nove, un paio di stanze. Cambieranno abitazione e quartiere
numerose volte, migliorando lentamente la loro condizione. Il padre, figura
onnipresente ma silenziosa, lavora duramente, anche se colei che detiene di
fatto il potere in casa ed educa i figli è la madre. Nassera riceve
un'istruzione scolastica, non smettendo mai di coltivare i suoi sogni, primo fra
tutti quello di recitare. La sua famiglia non la appoggia in nessuna occasione,
anzi, ma nonostante questo ella raggiunge i suoi obiettivi, trasferendosi, da
adulta, in Italia: qui costruisce una sua famiglia, realizzandosi pienamente
come donna.
La realtà francese di quegli anni risulta scossa dai sempre più consistenti
flussi migratori, provenienti dalle molteplici regioni del sud del mondo, che si
riversano nelle periferie urbane. Spesso, nel romanzo, è descritta la
convivenza, negli stessi quartieri, di persone appartenenti a razze diverse:
arabi, zingari, corsi ed italiani. Inizialmente sono presenti anche francesi,
che poi, spinti dal continuo flusso di immigrati, si trasferiscono in altre
zone, più ricche e meno pericolose. Le condizioni di vita pessime e la mancanza
di istruzione causano tensioni nei quartieri e portano inevitabilmente alla
diffusione della criminalità.
L'ondata migratoria è anche ascrivibile al fatto che nelle regioni d'origine
degli immigrati si sta avviando un rapido processo di decolonizzazione: molti
paesi rivendicano la loro autonomia dalle rispettive madre-patrie, provocando
spesso sanguinosi scontri. L'Algeria, terra d'origine della famiglia Chohra,
appartiene alla Francia sin dal 1830. Gli effetti di una colonizzazione di così
lunga durata si ripercuotono violentemente contro la madre-patria a partire
dalla metà del XX secolo: la maggioranza musulmana in Algeria avvia sanguinosi
scontri che provocano campagne terroristiche anche nelle città francesi.
L'indipendenza della regione maghrebina è ottenuta nel 1962, al prezzo di
gravissime perdite: viene contrastata duramente dall'OAS (l'organizzazione
terroristica di coloni francesi appoggiati da molti sostenitori in patria), che
però non riesce a realizzare i suoi intenti.
Una situazione siffatta ha sollecitato numerose riflessioni, analisi e
testimonianze in Francia ad opera di uomini politici, ma anche di militari. Le
condizioni del neo-stato algerino appaiono comunque gravi: la popolazione,
infatti, è più che raddoppiata dagli anni Trenta agli anni Sessanta,
incentivando così gli spostamenti, sia interni sia verso l'estero, in
particolar modo in direzione dell'ex madre-patria. Il governo francese si trova,
dunque, nella condizione di dover affrontare la questione dell'immigrazione con
tutte le sue problematiche conseguenze: poiché interi quartieri vengono
"occupati" dai nuovi arrivati, l'avversione verso di questi non fa che
alimentarsi. Occorre quindi inserire tali individui nella società, renderli
parte attiva ed arginare le forme di razzismo che vi sorgono
inevitabilmente.
L'Algeria, unita alla Tunisia ed al Marocco, forma la grande regione del Maghreb,
che costituisce il punto in cui Africa e Islam vengono a contatto con il mondo
occidentale; le popolazioni che ne fanno parte appartengono alla grande area
dell'Islam. Quest'ultimo costituisce, quindi, l'elemento caratterizzante la zona
culturale mediorientale, di cui l'Africa mediterranea, con il retroterra
sahariano, rappresenta la sottoarea occidentale (non a caso la parola "maghreb",
in arabo, significa "occidente").
I Saharawi abitano la zona a ovest del deserto. Nel romanzo, non si fa esplicita
menzione della loro storia anche se la descrizione di certi tratti
caratteristici non può non invitare ad approfondirla. Le loro tribù sono
organizzate da secoli in modo autonomo, con forme proprie di lingua, cultura e
organizzazione sociale, nomadi fino a tempi recenti. Verso la fine del periodo
coloniale, i Saharawi apparivano già largamente sedentarizzati e urbanizzati,
ma sempre legati alle proprie tradizioni. La loro origine si può ricondurre
all'immigrazione degli arabi Maquil, provenienti dallo Yemen. La religione è
l'Islam sunnita, come nella maggior parte del Maghreb, e l'organizzazione
sociale si basava su un consiglio (Consiglio dei Quaranta) che riuniva
periodicamente i capi delle tribù per prendere collegialmente decisioni
riguardanti gli interessi della comunità. Tale struttura egualitaria è stata
spesso indicata come riferimento tradizionale della democrazia dei Saharawi. Il
loro spirito nazionalista si è manifestato sempre in modo molto netto: tra la
fine degli anni Sessanta e Settanta si assiste ad un vero e proprio risveglio
della coscienza, accompagnato dall'uso delle armi nei confronti delle potenze
colonialiste ma anche del confinante Marocco che non voleva cedere i suoi
territori. Le lotte violente portano nel 1976 alla nascita della Repubblica
Araba Saharawi Democratica (RASD), seguita, qualche anno dopo, dall'ammissione
all'OUA, l'Organizzazione dell'Unità Africana.
Dopo aver delineato alcuni tratti fondamentali delle vicende storico-politiche
algerine, si può passare direttamente al testo di Chohra, Volevo diventare
bianca: esso appartiene al genere del romanzo autobiografico ed è organizzato
in venti brevi capitoli dai titoli essenziali e lapidari, di cui due
caratterizzati da antitesi: Gelato e peperoncino e Comunione e peccato. Il
genere romanzo, secondo Benjamin, appare il più adatto alla rappresentazione
delle vicende umane:
il luogo di nascita del romanzo è l'individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso che lo riguardano più davvicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri. Scrivere un romanzo significa esasperare l'incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente.
Michail Bachtin, da parte sua, ha teorizzato che
esso si intreccia indissolubilmente con l'azione immediata di quei mutamenti nella realtà che determinano anche il romanzo e che hanno condizionato il dominio del romanzo nella data epoca. Il romanzo è l'unico genere letterario in divenire e quindi esso riflette il divenire della stessa realtà in modo più profondo, essenziale, sensibile e rapido. Solo chi diviene può capire il divenire. Il romanzo è diventato il protagonista del dramma dello sviluppo letterario dell'età moderna proprio perché esso esprime meglio di tutti le tendenze del divenire del mondo moderno: è infatti l'unico genere letterario procreato dal mondo moderno e gli è in tutto e per tutto
consustanziale.
Il romanzo, dunque, presenta la vocazione "a riflettere il e sul
presente":10 attraverso di esso, "il libero soggetto si alza,
liberandosi dai legami con le corporazioni, le tradizioni, i dogmi religiosi e
la minorità politica e dichiara il suo diritto all'autonomia e alla
responsabilità".
René Wellek e Austin Warren teorizzano nel loro contributo Teoria della
letteratura che il romanzo sarebbe "il discendente moderno
dell'epica"; inoltre, risulterebbe fuorviante sia la sua riduzione a mero
divertimento, svago ed evasione, sia la sua interpretazione alla stregua di un
documento o una narrazione storica. Ciò non significa che esso non stabilisca
una "riconoscibile relazione con la vita", anche se, rispetto ad essa,
rappresenta una selezione. Inoltre, "a differenza dei grandi generi
letterari, epica, romanzo, dramma, saggio, lirica, l'autobiografia permette
l'accesso ad ogni persona in grado di scrivere. Tutti abbiamo una biografia ed
anche una matita".
Secondo Maria Zambrano, il romanzo autobiografico apparirebbe come il genere
più prossimo alla confessione, intesa da un punto di vista letterario:
sono parenti e quasi coetanei, in quanto entrambi sono espressioni di esseri
individualizzati ai quali si riconosce una storia. Il presupposto della
confessione, come del romanzo, è che l'individuo soffre e rischia di perdersi […]
Tutta la confessione è parlata, è una lunga conversazione e ha la stessa
durata di quella reale. Come un romanzo, ci porta in un tempo immaginario, in un
tempo creato dall'immaginazione.
Tuttavia, si tratta di due generi non affini se li si considera alla luce di
un'altra prospettiva, quella cioè dell'autore dello scritto:
la confessione è il linguaggio di qualcuno che non ha annullato la sua condizione di soggetto; è il linguaggio del soggetto in quanto tale. Non sono i suoi sentimenti, i suoi desideri, né le sue speranze; sono semplicemente i suoi sforzi di essere. E' un atto in cui il soggetto si rivela a se stesso perché ha orrore del suo essere a metà e confuso. Chi si racconta, chi fa un romanzo autobiografico, rivela un certo compiacimento di se stesso, per lo meno un'accettazione del proprio essere, del proprio fallimento, magari; cosa che chi porge la confessione non fa in alcun modo.
Lo scritto autobiografico di Nassera Chohra presenta una trama semplice e
lineare, ma riesce a dare comunque spunti di riflessione significativi: occorre
infatti considerare il non detto, l'implicito, ciò che rimane fuori. Dietro la
narrazione si intrecciano, infatti, le tradizioni musulmane e il nomadismo, la
situazione francese a contatto con gli immigrati e il razzismo latente, il
confronto tra il cristianesimo e l'islamismo, l'incontro tra culture diverse e
l'esigenza di sceglierne una in particolare.
Cercare di valutare tale opera con le categorie letterarie tradizionali
risulterebbe fuorviante; a questo proposito, Graziella Parati sostiene che
sarebbe importante considerare la novità di tale letteratura, il fatto che sia
"an emerging minor literature" e che risulti, di conseguenza,
necessario ridefinire i modelli letterari, come appunto il concetto di
letteratura ai margini. In riferimento al testo di Chohra, annota:
Chora's representation of herself defines her double identity as both insider and outsider in the Western societies in which she has lived. Her short trip in Algeria makes her realize her estrangement from the parental culture. Divided between the language, culture and values that dominate the familiar sphere and the education she acquires in French school, Chohra chooses to add another face to her already hybrid identity by moving to Italy and writing her life in
Italian.
Parati pone in rilievo la peculiarità dell'esperienza descritta da Chohra: se
confrontata con altre storie di donne immigrate, la vicenda narrata dalla
scrittrice franco-algerina apparirebbe, da alcuni punti di vista,
privilegiata:
it has very little in common with most migrant women's experiences as domestic laborers. Chohra first came to Italy as a tourist and later became an "accidental immigrant" when she met and married an Italian man. She grew up in Marseilles, France, but she never wrote in the language of her
education.
Ulteriore aspetto che differenzia il caso di Nassera da quello di altri
immigrati appare l'assenza di una comunità a cui fare riferimento, una volta
giunta in Italia:
Chohra, the tourist in Italy, acquires a position within the Italian middle class without going through intermediate stages, as do most other immigrants. The new community to which she relates in Italy is very different from all the diasporic groups, founded by immigrants such as the Senegalese community or the Moroccan community, which link immigrants to their past and work as support groups in their present lives. Chohra narrates the uniqueness of her experience. Her European experience becomes the filter through which she reads her future and raises her son who is taught Arabic, French, and Italian.
La religione ha da sempre rivestito un ruolo primario nella cultura della
scrittrice: l'islamismo si pone come "un modello integrale di
organizzazione sociale e politica, al di fuori di un clero dalle funzioni
sacramentali e di una Chiesa così come li troviamo in Occidente". Questa
caratteristica condiziona e orienta fortemente la quotidianità, come emerge dal
romanzo, causando spesso rammarico nella giovane protagonista: "non ci fu
nessuna festa per il mio compleanno: mia madre era convinta che le feste le
facessero solo i cristiani. Dalla finestra vedevo tutti i miei amici in cortile
e pensavo che mi sarebbe piaciuto molto poterli invitare a festeggiare con
me".
Essere musulmano, secondo Fatima Mernissi, scrittrice marocchina impegnata nella
lotta per i diritti delle donne nella sua terra, appare come "uno stato
civile, una carta nazionale, un passaporto, un codice di famiglia, un codice
preciso delle libertà pubbliche" e prescinde dal fattore religioso;
inoltre, occorre distinguere tra Islam come fede, come scelta personale, e Islam
come legge, come religione di stato. Nassera non può aver chiare tali
distinzioni, dal momento che riesce a malapena a tracciare un confine tra credo
musulmano e cristiano. Si interpretano, insomma, le tradizioni musulmane
attraverso una chiave di lettura cattolica: il Ramadan diventa una sorta di
"Quaresima", la festa dell'Aid è paragonata al Natale, anche se
avviene in un altro periodo e non prevede doni per i più piccoli. Certo, i suoi
occhi di bambina colgono solo gli aspetti più superficiali di questi eventi,
quali le feste, i doni, l'abito bianco della comunione. I suoi tentativi di
emulazione delle compagne francesi sono destinati a fallire, dati gli interventi
sempre devastanti della madre, che si ostina a non comprendere il senso di
disagio della figlia. L'immagine che Nassera dà della religione islamica può
risultare a volte semplicistica, ma d'altronde ella riporta quelle che sono le
risposte che gli adulti le forniscono, nel momento in cui le spiegano le
differenze tra un musulmano ed un cattolico: "la differenza è che noi
musulmani non mangiamo maiale, non beviamo alcolici, preghiamo Allah e quando
moriremo andremo dritti in paradiso". Quindi, quale soluzione migliore per
diventare cattolica se non infrangere queste norme? Quando poi le si insinua il
sospetto che ciò non basti per convertirsi, viene investita da terribili dubbi:
d'un tratto fui assalita dal terrore. Se non sono diventata cattolica, vuol dire che sono ancora musulmana. E se sono ancora musulmana ho un gravissimo peccato sulla coscienza; vino e salame, pensai angosciata. E se il mio buon Allah mi avesse cancellata? Che cosa sarò mai adesso? E dopo la vita che farò? Non potrò andare in nessun paradiso, né in quello cattolico, né in quello musulmano.
In realtà, sono cinque i doveri a cui ogni musulmano dovrebbe attenersi, che
Fatima Mernissi riassume nel suo saggio:
il primo dovere è la Shahada, una professione di fede che consiste nel
riconoscere che Allah è l'unico Dio e Maometto il suo profeta. La Çalat, la
preghiera recitata cinque volte al giorno, è il secondo, ed è un rapidissimo
esercizio di intensa meditazione […] Digiunare nel mese del Ramandan,
dall'alba al tramonto, è il terzo dovere. Fare l'elemosina, la Zacat, è il
quarto. Il quinto dovere, infine, per quelli che possono permetterselo, è il
pellegrinaggio alla Mecca.
La religione rappresenta dunque un elemento fortemente condizionante la vita di
un musulmano, anche se vi è un altro livello di identificazione molto forte,
costituito dalle tradizioni locali. Il periodo trascorso dalla famiglia Chohra
in Algeria, che i figli visitano per la prima volta, è vissuto, infatti,
all'insegna della tradizione e dei riti autoctoni. La popolazione conduce una
vita semplice, basata sulla stretta simbiosi tra nomadismo pastorale e
agricoltura delle oasi: nel romanzo vengono narrati gli spostamenti da un'oasi
all'altra, le notti trascorse a dormire sotto le stelle, le abitudini che i
figli devono rispettare. La stretta dipendenza dalle condizioni ambientali
costituisce un aspetto tipico della cultura nomade: "il nomadismo
rappresenta l'espressione più piena e prodigiosa dell'uomo di replicare
all'imperativo ambientale, di rincorrere, con una tenacia costante, le sue più
esigue risorse". La protagonista definisce, inizialmente,
"selvaggi" i suoi parenti e prova ribrezzo per il loro modo di vivere;
l'atteggiamento di rifiuto che avverte
deriva dal confronto operato fra alcuni aspetti tradizionali della loro cultura
e alcuni aspetti della vita moderna (leggasi anche occidentale e
occidentalizzata), collegati soprattutto allo sviluppo tecnologico […] Da
ciò, confondendo tra tecnologia e valori, la condanna di una minore evoluzione,
soprattutto in campo tecnologico, porta erroneamente e sbrigativamente alla
condanna globale della cultura di tipo tradizionale.
La modernità occidentale, simboleggiata dagli oggetti nuovi e sconosciuti che
gli emigranti portano nelle loro terre d'origine, si intreccia con la cultura e
con le tradizioni dei Saharawi: la madre di Nassera, per esempio, reca dalla
Francia medicinali per i bambini e generi di prima necessità:
mia madre si portava appresso tutto ciò che lì, fra la sabbia del Sahara, era difficile trovare. Ne ha salvati moltissimi di bambini con ascessi o ferite infette che sarebbero quasi sicuramente morti senza le sue
cure.
Anche la mentalità che dimostra di aver assunto Nassera presenta tratti
fortemente occidentalizzanti. Infatti, una delle prime domande che la bambina si
pone riguarda l'assenza di molte "comodità" a cui era abituata:
non è possibile, questi non possono essere nostri parenti; non hanno catenelle allo scarico del bagno, al posto delle case hanno delle tende come gli indiani, al posto delle lampadine usano le candele, sfido io, non hanno i soffitti, dove li attaccano i lampadari? Dormono in mezzo alla strada e il letto non è nemmeno morbido, non ci sono rubinetti e, cosa gravissima, non hanno neppure la tivù! Io qui non ci sto più. Domani ritorno in
Francia.
Nelle serate a Marsiglia l'intera famiglia, infatti, guarda la televisione,
concepita come uno strumento utile per una maggiore integrazione nella società
ospitante, ma soprattutto perché essa rappresenta una piacevole novità. La
televisione diventa un oggetto indispensabile, volto a riempire il vuoto di
certe serate:
quando a casa nostra mancava la tivù, era come se mancasse una persona cara. Forse anche peggio. E quella sera la maledizione degli scioperi televisivi ci aveva colpiti senza alcun preavviso. Io e i miei fratelli ci annoiavamo a morte.
In altre occasioni spicca la mentalità acquisita da Nassera in Francia:
anche lì, nel deserto, avrei voluto fare delle trasformazioni. Innanzitutto, via le tende. Avrei costruito grandi case con tutt'intorno prato all'inglese e tantissimi fiori colorati. Alle donne avrei distribuito delle mutande e nelle abitazioni avrei messo anche un bagno; uno vero, che si potesse anche chiudere a chiave. Nelle cucine tutti avrebbero avuto un frigorifero pieno di bottiglie d'acqua fresca e ai bambini del villaggio avrei procurato delle scarpe per proteggere i loro piedi dalla sabbia
bollente.
Un atteggiamento siffatto non sembra essere condiviso da coloro che circondano
la protagonista, che anzi reagiscono duramente alle sue lamentele:
dissi tutte queste cose a mia sorella, sperando che anche lei fosse d'accordo, così potevamo ripartire insieme, ma lei invece s'arrabbiò moltissimo. Alzò persino la voce, lei che è sempre calma. "senti, non ti rendi conto che stai rovinando la nostra vacanza? Qui sono tutti gentili con te e tu per tutta risposta non fai che lamentarti e li tratti da selvaggi. Se c'è una selvaggia, qui, quella sei tu! E se qui c'è qualcosa che non ti piace te ne puoi anche andare, ma da sola!" Me ne andai a dormire con il muso lungo.
L'attenzione della protagonista, tuttavia, viene rapita da altre
"stranezze", che allontanano rapidamente il senso di delusione
iniziale. Il ruolo che a Marsiglia rivestiva la televisione viene infatti
sostituito dal racconto di leggende e miti antichi: in queste occasioni, il
deserto si anima, le montagne e le fonti divengono teatro e protagonisti di
gesta epiche, narrate dalle donne, depositarie della cultura:
per tutta la settimana, ogni sera mi addormentai durante quell'ultimo pasto, ascoltando le leggende appassionanti che le donne più anziane ci raccontavano nel buio. Quelle ultime notti nel Sahara mi convinsero che si poteva vivere anche senza
tivù.
La tradizione orale costituisce una forma tipica del nomadismo. Anche nel breve
racconto
La signora del deserto, che deve questo titolo alla protagonista, la
maga Mochina, Nassera s'incanta ascoltando le leggende che la donna narra
intorno alla vita del suo popolo. L'atmosfera che viene a crearsi è soffusa di
incanti, antiche credenze e superstizioni, conservate dai Saharawi con grande
devozione.
Accanto al ruolo di "narratrici", le donne svolgono compiti di
notevole rilievo, dando prova di grande praticità ed essenzialità.
Differentemente da quanto si possa pensare,
in nessun altro popolo di fede islamica il potere e l'autonomia al femminile sono così vasti. Le tuniche tradizionali, le acconciature, i monili, tutti gli ornamenti rilucono sotto il sole, mentre le donne preparano il cibo, insegnano ai loro bambini, curano i malati, riuniscono le amministrazioni dei vari campi che compongono la loro patria provvisoria: il 90% dei "consiglieri comunali" sono donne, così come gli
insegnanti.
Queste parole si riferiscono alla situazione attuale dei Saharawi, ma anche nel
romanzo sono presenti aspetti non molto lontani da tale realtà.
L'intraprendenza femminile si manifesta, in primis, nella protagonista,
che sin da piccola dimostra di avere un carattere molto forte e deciso, mai
disposto a cedere pur di raggiungere i propri obiettivi; tenacia e costanza che,
alla fine, verranno premiate. Le donne, dunque, risultano essere le protagoniste
delle vicende descritte, vissute accanto a uomini che spesso rappresentano più
ostacoli che appoggi: la società occidentale descritta nel romanzo appare
piuttosto "maschilista", fatta da e per gli uomini, i quali esercitano
la loro forza fisica per sopraffare la sventurata di turno. Ciò non significa,
comunque, che le figure femminili descritte siano arrendevoli e
accondiscendenti: questa caratteristica costituisce una delle cause del
tormentato rapporto tra Nassera e sua madre, figura onnipresente e autoritaria.
Si tratta in entrambi i casi di caratteri molto forti, che inevitabilmente
vengono a scontrarsi. Nassera incarna la metamorfosi della donna musulmana che
rifiuta ruoli marginali e imposti da altri, rivendicando un'autonoma
identità:
un'identità di donna, piena, intera e consapevole che l'avversario da
combattere è soprattutto e davanti a tutto la multisecolare mentalità maschile
[…] Una mentalità questa che non imperversa solo nel campo dei partigiani di
Dio, ma purtroppo, più sommessa, più ambigua, anche in ben altri.
Scrive così Hinde Taarji, giornalista marocchina, considerando alcune delle
laceranti contraddizioni che l'universo femminile arabo vive in questi anni. Nel
caso di Nassera, ella si ritrova a gestire un difficile rapporto con sua madre,
emblema di un più complesso sistema, che risulta però indebolito dal fatto che
le vicende si sviluppano al di fuori dei territori arabi.
La nostra identità tradizionale riconosceva a stento l'individuo, aborrito in quanto perturbatore dell'armonia collettiva. Nell'Islam non esiste la nozione di individuo allo stato di natura, nel senso filosofico del termine. La società tradizionale fabbricava musulmani, letteralmente dei "sottomessi" alla volontà del gruppo. L'individualità in un sistema simile è scoraggiata, ogni iniziativa privata è
bid'a, innovazione, che costituisce necessariamente un errore. La società tradizionale cercava di fermare lo sviluppo della personalità a uno stadio che non minacciasse l'autorità del capo, un abbozzo di individuo che non perveniva all'autonomia (identificata con la ribellione).
Con una cultura simile alle spalle, risulta arduo costruire una propria
identità, mentre ogni giorno si profila una sfida diversa. La spietata asprezza
materna si rileva sin dalle prime pagine: la prima azione descritta appare la
"tortura", quasi compiaciuta, a cui la donna sottopone i figli nei
giorni di festa, differentemente dal padre che li veste e pettina "con una
delicatezza insospettabile per quelle sue grosse mani da muratore". Il
carattere della donna presenta i suoi peggiori aspetti quando si tratta di
punire i figli, in particolare Nassera: le infligge spesso umilianti e ingiusti
castighi, volti a ferire la femminilità della figlia (dal taglio delle amate
trecce all'uso del peperoncino strofinato sui genitali).
Nassera spiega queste crudeltà, spesso gratuite, con il complesso di
inferiorità della madre dovuto al colore della propria pelle. Scrive a questo
proposito: "forse avrà pensato che doveva farmela pagare molto cara
proprio perché anche lei era nera. E insomma, per sfogare con qualcuno i suoi
complessi, se la prese con le mie trecce".
"Essere nera" viene vissuto, infatti, come un problema, una
limitazione, da Naci:
the body becomes for Naci the mirror that reflects a black woman's limitation,
that defines her as the reflection of her mother […] Naci finds herself
divided between her desire of whiteness and order and the feeling of being
trapped in black disorder and imperfection.
Quando Corinne, una giovane francese, rifiuta di prestare una bambola a Nassera
adducendo come motivazione il colore scuro della sua pelle,
fu come se mi avesse dato uno schiaffo. Nessuno me lo aveva mai detto - per la
verità non me n' ero mai accorta - che il colore della mia pelle facesse
differenza, che essere nera fosse peggio che essere bianca […] Corsi in casa
come una furia alla ricerca di uno specchio. Ne trovai uno in fondo ad un
cassetto: era piccolo, con un graffio proprio nel mezzo. Non importa - pensai -
per quel che mi serve è perfetto. Mi osservai a lungo, mi toccavo la guancia
con l'indice della mano destra per vedere se, per una qualche magia, si
riuscisse a far sparire un po' di quel colore che mi riempiva tutta. Niente da
fare: continuavo a vedermi tutta nera, a parte i denti e il bianco degli occhi.
Alla fine dovetti arrendermi all'evidenza: ero diversa da Corinne. Lei era
bianca ed io ero nera. Questo spiega tutto! - conclusi - ecco perché non ho
bambole e niente di quello che hanno le mia amichette bianche. Devo provvedere
al più presto. Devo diventare bianca.
Nassera prova spesso rancore e rabbia verso la madre e "quel suo sangue
africano": esso le causa molteplici difficoltà ed, inoltre, rinvia ad un
sistema di valori che la bambina non capisce, poiché le vengono imposti, non
facendo che aumentare il suo smarrimento e la sua dislocazione. A tali
sentimenti, si aggiunge anche un senso di vergogna nei confronti della madre,
che induce Nassera, in occasione dell'uscita da scuola, ad evitarla; poi, da
adulta, riconoscerà il suo errore: "per una settimana mi sono vergognata
moltissimo di mia madre e del colore della mia pelle, e solo ora so che non
potrò mai vergognarmi abbastanza a lungo per essermi vergognata di lei".
Tale sentimento risulta intollerabile per la madre, poiché lo interpreta come
un rifiuto della figlia nei confronti della famiglia e delle sue tradizioni.
Esso è provocato da un senso di insufficienza nella bambina, ma anche di paura
del ridicolo, ed insorge nel momento in cui l'ideale prefissato non viene
raggiunto. In questo caso, il voler diventare bianca appare un obiettivo
destinato a rimanere frustrato, che però nel corso del romanzo perde
progressivamente di importanza: la protagonista approderà, infatti, alla piena
accettazione e realizzazione di sé, senza alcun complesso di inferiorità.
Durante l'infanzia, però, risulta arduo possedere una tale maturità, tanto che
in un'altra occasione si ribadisce la sensazione di imbarazzo: Nassera è stata
ricoverata in ospedale per un'appendicite e quando la madre scopre che condivide
la stanza con un altro bambino, grida allo scandalo fino a quando non ottiene
che quest'ultimo venga trasferito:
appena mia madre s'accorse che nella mia stessa stanza c'era un bambino maschio
fece fuoco e fiamme come un drago. Mi vergognai molto, anche quella volta, di
lei e della sua reazione. Volle a tutti i costi parlare con la caposala e
strillò così forte che il mio nuovo amico fu trasferito altrove in un baleno.
Hinde Taarji definirebbe questa donna come una di quelle "che conoscono una
sola parola, quella di Dio", per indicare il fanatismo che la
caratterizza. La madre assume spesso le fattezze di una megera agli occhi di
Nassera: "fece fuoco e fiamme come un drago", "urlò come
un'ossessa", "sembrava un animale feroce pronto a straziare la sua
preda", "ricomparve con la cinta dei calzoni di mio padre stretta in
una mano e il solito peperoncino nell'altra. Credo che le sue urla abbiano
raggiunto tutto il quartiere".
L'atteggiamento severo, talvolta spietato, non ha alcun effetto positivo
sull'educazione dei figli, anzi ottiene i risultati opposti a quelli sperati:
Nassera ammette di non averle mai dato retta e nel momento in cui ha dovuto
scegliere, ha dimostrato una fermezza non comune: "da una parte c'erano i
miei sogni, dall'altra mia madre. Decisi per i miei sogni". Lo stesso
discorso vale anche per le altre figlie, che sono più benvolute rispetto a
Nassera, ma che di fatto si comportano in maniera riprovevole:
mia sorella Fati a scuola era una persona diversa. Rideva forte, strillava,
voleva essere sempre al centro dell'attenzione. Non faceva mai i compiti e
frequentava un gruppo di ragazze poco raccomandabili. Erano appena più grandi
di me, ma vestivano come fossero donne mature, fumavano e trattavano tutte le
altre compagne con aria di sufficienza. Tra loro parlavano sempre di ragazzi e
Dio sa solo di cos'altro!
Fati, poi, lascerà la famiglia per trasferirsi a Parigi, dimenticando gli
insegnamenti islamici e la cultura dei genitori .
Il rigido atteggiamento materno cela un disagio di fondo: nel romanzo, per
esempio, non si fa mai cenno ad alcun tentativo, da parte della donna, di legare
con qualcuno, anzi, le raccomandazioni sono quelle di non dare confidenza a
quanti potrebbero incarnare la corruzione ed il vizio. Ella, troppo occupata
dalle faccende domestiche e dai figli, non bada a ciò che accade fuori della
sua casa, a quel mondo estraneo e ostile. Il suo carattere intollerante la porta
a disapprovare le amicizie della figlia, adducendo come motivo la scarsa
serietà di certe ragazzine; in realtà si tratta di giovani francesi, per cui
instaurare un rapporto con loro viene letto alla stregua di un
"tradimento". La sua intransigenza spicca in molte altre occasioni:
non accetta che le proprie figlie conservino foto o poster di cantanti, che
facciano innocenti apprezzamenti su attori che vedono in televisione, per non
parlare poi della passione di Nassera per la recitazione, assolutamente
riprovevole. Si tratta di una battaglia destinata a rimanere invitta, poiché
risulta impossibile ignorare tutti gli spunti che la società occidentale offre
ed i compromessi che richiede.
Il rapporto conflittuale con la madre costituisce, tra l'altro, l'oggetto di uno
studio di Luce Irigaray: esso "è desiderio folle, perché è il
"continente nero" per eccellenza. Resta nell'ombra delle nostra
cultura, è la sua notte e i suoi inferi". Prendere consapevolezza di
ciò che la studiosa francese indica come "il primo corpo a corpo con la
madre" significherebbe, per le donne, pervenire ad una definitiva
"istituzione dell'identità sessuale", che fin'ora è mancata.
Ma dove si trova, per noi, l'immaginario e la simbolica della vita intrauterina
e del primo corpo a corpo con la madre? In quale notte, in quale follia vengono
lasciati? E il rapporto con la placenta, questa prima casa che ci circonda e il
cui alone noi portiamo ovunque, come una sicurezza della prima ora, come si
presenta nella nostra cultura? […]Così l'apertura della madre, l'apertura
alla madre, appaiono come una minaccia di contagio, di contaminazione, di
sprofondamento nella malattia, nella follia, nella morte […] La madre è
diventata mostro divorante per effetto di ritorno del cieco consumo di lei. Il
suo ventre, talvolta il suo petto sono come ferite aperte dalla gestazione,
dalla nascita, dalla vita che lì sono state donate senza niente in cambio. Se
non l'uccisione, reale e culturale, per annullare il debito? Dimenticare la
dipendenza? Distruggere la potenza
La durezza della donna, tuttavia, sembra svanire quando ritorna per un breve
periodo con la famiglia, nel Maghreb: il senso di dislocazione, causa di tante
tensioni, si dissolve, l'atteggiamento dei genitori muta. Tale attaccamento alla
terra non può essere sentito dalla giovane protagonista, alla quale si presenta
un mondo totalmente nuovo:
fuori ci aspettava un altro mondo. Le case erano tutte basse, al massimo due
piani. Bianchissime e abbellite da molti architetti. Eravamo completamente
circondati da bancarelle coloratissime. C'era un sacco di gente e tutti erano
vestiti come dei poveracci, con tuniche stracciate o pantaloni rattoppati alla
meglio. Le donne poi, erano coperte fino ai piedi. Quasi tutte portavano in
testa un velo nero, qualcuna bianco. Non riuscivo neppure a distinguere il
colore dei loro occhi: sembravano fantasmi. Tutt'a un tratto mi sentii a
disagio, avevo la sensazione di avere centinaia di occhi addosso…Sentivo
musica provenire da ogni direzione, ma non ballava nessuno, non c'era nessuna
festa.
Superato, con qualche difficoltà, il primo impatto, Nassera inizia ad abituarsi
al nuovo mondo: la chiave di svolta è data dalla visita all'oasi, luogo
affascinante e paradisiaco:
un'oasi - l'ho ripensato spesso - è proprio un posto da sogno. Non ricordo
d'aver mai visto altrove alberi così grandi e così belli […] D'un tratto i
miei parenti mi sembrarono meno selvaggi e anch'io mi sentii un po' più ricca.
Tutto in quel posto era grande ai limiti dell'immaginabile: lo spazio, il
silenzio, il cielo, il sole. E anche le palme da datteri. E le angurie, i
pomodori. Capii che questi erano i veri tesori della gente del deserto e che
anche di questo si poteva avere nostalgia. Mi sembrò di capire meglio mio padre
e mia madre, quelle lacrime che avevano versato il giorno dell'arrivo. La
tristezza dei loro occhi quando ci raccontavano del loro paese d'origine.
Le oasi rappresentano le uniche fonti di vita agricola nel deserto, sono
preziosi nodi del grande tessuto commerciale che ha animato il vuoto tra le
sponde mediterranee e l'Africa nera. Costituiscono un crocevia di popoli e
tribù, di cui si fa cenno anche nel romanzo: in quest'occasione, infatti,
Nassera osserva una carovana di nomadi e constata la correttezza e il rispetto
delle regole: "nelle oasi non ci sono guardiani. In quei posti nessuno ruba
e non c'è bisogno nemmeno di steccati per dividere i terreni: ognuno sa fin
dove arriva la sua proprietà e non va oltre". Tale esperienza
rappresenta una lezione di civiltà dinanzi agli occhi meravigliati della
bambina, che invece erano abituati a tutt'altre scene nei quartieri degradati di
Marsiglia.
La visita in Algeria della famiglia Chohra permette al lettore di
"sbirciare" nelle tradizioni del luogo: viene dato molto spazio al
trattamento delle donne, al rito del matrimonio, all'iniziazione delle ragazze
al mondo adulto. Nassera assiste alla celebrazione di un connubio, che è
considerato uno dei momenti più importanti nella vita di una donna: si
sottolinea così il concetto tradizionale secondo cui una singola persona non
può esistere per se stessa, ma solo come membro del gruppo a cui appartiene,
che gestisce gli individui e, quindi, anche i matrimoni. Il fatto che questi non
costituiscano una scelta individuale, bensì l'esito della decisione dei
parenti, non appare contraddittorio agli occhi della bambina; lo diventerebbe,
invece, se venisse imposto al di fuori dell'ambito musulmano. Nassera stessa
afferma che il matrimonio è "un vero e proprio atto di commercio. Non si
tratta di cammelli o capre, ma di milioni. E la richiesta aumenta quanto più la
ragazza è istruita. Una figlia dunque è anche un investimento
finanziario". Nel suo modo ingenuo, Nassera contribuisce ad abbattere uno
degli stereotipi più diffusi relativi al mondo musulmano:
non è affatto vero quel che si usa dire degli arabi che sono sempre pronti a
dare i loro cammelli in cambio delle turiste europee. Un musulmano non darebbe
via un cammello, che per lui è un mezzo di sostentamento, per una donna che non
accetterebbe certo di lavargli i piedi! Sono solo trovate delle agenzie di
viaggio per divertire i turisti.
Ulteriore evento a cui la giovane protagonista partecipa è il rito di
"battesimo" dei suoi fratelli, ossia la circoncisione: alle donne
sarebbe preclusa la partecipazione, ma la curiosità è troppo forte:
mi toccò disubbidire ancora una volta. Mi intrufolai nella tenda di nascosto e
rimasi acquattata in un angolo per tutto il tempo con il fiato sospeso. Non
riuscivo a vedere i miei fratelli, ma sentivo perfettamente tutto ciò che si
diceva. Semplici parole di auguri. A un tratto però il sangue mi si gelò nelle
vene. Uno strillo fortissimo attraversò improvvisamente l'aria, la voce mi
sembrò quella di Mourad. Dopo nemmeno un minuto riconobbi la voce di Ahmed in
un lamento straziante.
La considerazione ironica a cui perviene è la seguente: "ancora una volta
fui grata a mia madre per avermi fatto femmina", che, detto da una donna
araba, può apparire insolito ad orecchi occidentali.
Nel romanzo si coglie un rapido cenno alla pratica islamica del Ramadan, che per
Nassera rappresenta un'occasione in più di festa. A dimostrazione della
fedeltà dei Saharawi alle tradizioni, i suoi genitori rispettano tale usanza
anche in Francia, compiendo enormi sacrifici per farla sopravvivere ai ritmi
della società occidentale:
gli adulti temono un po' questo periodo, soprattutto i Saharawi che devono
rimanere senza bere sotto quel sole cocente: durante il Ramadan, infatti, la
maggior parte degli adulti dorme quasi tutto il giorno, per far sì che i
bisogni del corpo si facciano sentire il meno possibile. Fu terribile per mio
padre e mia madre che, al ritorno delle ferie, in Francia durante il giorno
dovettero andare lo stesso a lavorare.
Tra le abitudini trasferite in Francia, anche l'aspetto musicale presenta un
certo rilievo: Nassera si diverte a intrattenere i familiari deliziandoli con
improvvisate danze del ventre, che sin dai tempi antichi animavano le giornate e
le notti dei sultani negli harem:
quella domenica sembrava irrimediabilmente rovinata, finché non mi venne
un'idea. Misi sul piatto del giradischi un disco arabo e mi infilai il vestito
buono di mia madre. Con un foulard stretto intorno ai fianchi feci il mio
ingresso dalla porta della camera da letto, improvvisando una danza del ventre
come avevo visto fare alle ballerine che ci sono sempre in ogni matrimonio che
si rispetti.
Differentemente dalle figure femminili, quelle maschili non hanno mai un ruolo
protagonista, sia nel periodo trascorso in Algeria, sia nella vita a Marsiglia.
Il padre di Nassera viene descritto come una figura silenziosa, per nulla
autoritaria, dedita alla famiglia ed al lavoro. I dialoghi che lo vedono come
interlocutore sono rarissimi e se parla si rivolge alla figlia; appare inoltre
una figura anonima nel senso letterale del termine, dal momento che non è dato
conoscere il suo nome. Il suo personaggio compare sin dalle prime pagine del
romanzo ed il lettore prova subito un sentimento di simpatia verso questo uomo
forte e, contemporaneamente, dolce:
mio padre era uno con cui si poteva sempre scherzare, anche quando tornava a
casa stanco morto. Era sempre a disposizione dei suoi bambini. Insieme, tutte le
sere, guardavamo la tivù e spesso ci addormentavamo tra le sue braccia. E lui
era così felice di portarci a letto; stava attentissimo a non svegliarci mentre
ci infilava sotto le coperte, come fosse una benedizione di Dio potersi
sacrificare per noi.
La figura paterna appare l'unica verso la quale Nassera nutre rispetto
("per farlo felice io avrei fatto qualunque cosa"); deluderlo
significa compiere il peggior atto possibile, molto più grave di qualsiasi
altra mancanza. Addirittura ella arriva a chiedersi, ingenuamente, come un uomo
come suo padre, così bianco e bello, possa aver sposato una donna così nera
come sua madre. I confronti tra queste due figure risultano inevitabili: egli
non si arrabbia mai, è aperto al dialogo, risponde pazientemente alle domande
della figlia, diversamente dalla madre che va in escandescenze ogni volta. La
sua inusitata bontà, però, lo porta ad essere vittima della situazione:
ricorrendo all'espressione di Giacomo Debenedetti, in Il romanzo del
Novecento,
lo si potrebbe definire come un "uomo tra parentesi" (espressione
che il critico usa a proposito del noto personaggio pirandelliano Mattia Pascal),
dalla quale non può né vuole uscire in quanto confinatovi dalla moglie e, in
seguito, dal figlio maggiore. Egli sceglie di non scegliere, di compromettersi
il meno possibile, in modo tale che, "qualunque guaio o incombenza succeda,
egli sia in grado di sentirsene immune o, alla peggio, ferito il meno
possibile". Egli cerca di continuo una posizione defilata, limitandosi a
"sbrigare quest'incombenza di vivere", caratterizzata dalla
dedizione quasi meccanica al lavoro. Il suo potere decisionale appare ridotto a
zero ed il suo ruolo viene ben presto sostituito da Mohamed, il figlio maggiore:
quest'ultimo sfoga spesso la sua ira nei confronti di Nassera. La situazione
degenera fino a quando ella sporgerà denuncia, ponendo fine ad una serie
inaudita di percosse e violenze. Nemmeno in questi frangenti estremi, però, il
padre interviene, schierandosi in difesa del più debole. Tale personaggio
impersona l'esatta antitesi delle figure maschili dei romanzi di Federigo Tozzi,
soprattutto se si considera Con gli occhi chiusi, opera edita nel 1919, in cui
la violenza ed il brutale protagonismo paterno rendono il figlio e la moglie,
finché questa è in vita, sottomessi ed infelici. In Volevo diventare
bianca, i
ruoli sono invertiti: la madre domina completamente la situazione, tanto che i
riferimenti che, nel corso del romanzo, riguardano il marito, alla fine
scompariranno del tutto. Infine, si ha un breve cenno al personaggio del nonno
materno, incontrato in Algeria, ed alle sue due mogli: la poligamia viene
descritta, nel romanzo, come una pratica ancora in uso. Nei paesi arabi, poiché
l'usanza voleva che si pagasse un prezzo per ogni moglie, essa rappresentava
un evidente un segno di benessere economico.
Si può facilmente constatare, quindi, che le figure maschili, nel romanzo, non
rivestono ruoli centrali e, quando compaiono, si presentano delineate piuttosto
negativamente: degli uomini vengono ripresi gli aspetti più violenti,
istintivi, quasi animaleschi.
Nassera sviluppa un atteggiamento diffidente nei loro confronti, dovuto sia alla
demonizzazione attuata dalla madre, sia alle esperienze che vive: da bambina è
riuscita fortunosamente a fuggire dalle molestie di un uomo in casa di sua zia,
in cui era stata temporaneamente trasferita, per non parlare delle percosse che
subisce dal fratello maggiore. Ma anche da adulta deve difendersi dalle brame di
un "amico" di sua sorella, a Parigi, presso il quale viene ospitata.
Quando poi Nassera intraprende il viaggio in Italia, con un'altra sua sorella,
Ablà, è costretta a respingere le numerose proposte che uomini italiani
avanzano nei suoi confronti; paradossalmente le uniche persone amiche che le
giovani incontrano sono due ragazzi, che poi si riveleranno essere omosessuali.
Lo stereotipo, secondo cui l'uomo sarebbe un cacciatore di donne destinate a
divenire vere e proprie prede, non risulta, dunque, del tutto infondato.
Tuttavia nel testo, la figura di Nassera si riscatta: "questo libro ci
offre un'altra prospettiva, un'immagine diversa della donna immigrata, non
necessariamente vittima, non passiva, non subalterna; capace, al contrario, di
progettare il proprio futuro".
Il tema della violenza contro le donne rappresenta un argomento che Fatima
Mernissi prende in considerazione nella sua analisi della letteratura religiosa: questa tematica, sin dai tempi di Maometto, è stata al centro di
un acceso dibattito al cui interno sono emerse posizioni molto contrastanti,
divise tra coloro che legittimavano l'uso della violenza nei confronti di una
donna che si nega al marito e coloro che disapprovavano atteggiamenti
aggressivi.
Tale discorso conduce alla questione della sessualità, strettamente connessa a
quella della verginità, tematica che percorre l'intero romanzo. Per gli arabi
sarebbe la garanzia del valore di una donna (una sposa viene ripudiata se il
marito constata che ha avuto rapporti con altri uomini, senza contare che ciò
screditerebbe l'intera famiglia della giovane): "l'Islam condanna duramente
ogni relazione sessuale al di fuori del matrimonio, incoraggiando uomini e donne
a sposarsi, dal momento che il celibato era considerato la porta d'accesso di
tentazioni d'ogni tipo".
Nassera stessa, in Algeria, viene sottoposta ad un rito che dovrebbe preservarla
dal pericolo di stupro, che, nel romanzo, rappresenta quasi un'ossessione per la
madre: anche quando non è più una bambina, il personaggio che dice io viene
costretto ad esibire regolarmente un certificato medico che attesti la sua
"purezza". Anche i racconti che ascolta, nel deserto, sono tutti volti
a sottolineare l'importanza di questo aspetto, dal quale dipende l'onore di una
donna. Nassera fa suo tale insegnamento, poiché lo approva e non lo vive come
un'imposizione: se lo percepisse come tale, farebbe qualsiasi cosa per non
rispettarlo.
Fatima Mernissi, da parte sua, sottolinea l'ossessione degli arabi per tutto
ciò che riguarda la sfera sessuale, etichettata come qualcosa di impuro: tale
questione si è rivelata oggetto di secolari discussioni e riflessioni, sin dai
tempi antichi. La scrittrice marocchina analizza numerosi detti misogini volti a
sottolineare l'inferiorità della donna: ella sostiene che si tratterebbe di
strumentalizzazioni degli insegnamenti del Profeta, il quale, nei confronti
dell'universo femminile, manteneva un atteggiamento di assoluto rispetto e
benevolenza. La sessualità vissuta come un tabù dalla protagonista rappresenta
il retaggio di una lunga tradizione secolare ed offre lo spunto per una
riflessione sulla superficialità dei rapporti, sulla facilità con cui essi si
creano e si sfaldano in tutti gli ambienti che Nassera frequenta: in particolar
modo si dimostra essere promiscuo l'ambiente del cinema, di cui ella farà
parte, senza però scendere agli sgradevoli compromessi che spesso
comporta.
Non sono solo le questioni di natura religiosa a preoccuparla, ma anche le
discriminazioni di tipo razzista che subisce: si è visto come l'afflusso di
migliaia di extra-comunitari causi tensioni e manifestazioni xenofobe da parte
dei cittadini francesi: "la Francia è stata troppo buona con voi. Se
dipendesse da me, di stranieri non ne farei entrare nemmeno uno",
"non ti sopporto più, brutta negraccia", "al primo piano di
fronte a noi c'era una coppia con due figli: il padre non salutava mai né gli
arabi né i negri", "man mano che alla Savine (quartiere di
Marsiglia) si trasferivano altre famiglie di immigrati, il malumore dei francesi
che vi abitavano cresceva", "io non sono affatto razzista, per
carità, ma la gente di colore mi fa un po' senso".
Accanto a tali evidenti segnali di intolleranza, occorre evidenziare un
ulteriore atteggiamento discriminante nei confronti dei "diversi",
assunto da un'insegnante di Nassera: "non faceva che ripetere che chi si
trasferisce a vivere in un altro paese deve adeguarsi agli usi e costumi di quel
paese". Parati, a questo proposito, ricorre all'espressione
"reductio ad unum" indicativa di una "ideology of immediate
assimilation based on the superiority of white French traditions".
Si sa, e questo romanzo lo sottolinea ancora una volta, che l'intransigenza nei
confronti di altre culture nasce dalla scarsa informazione che si ha intorno a
queste: "una delle cause del razzismo, infatti, è data proprio dalla
mancanza di conoscenza di questo mondo e soprattutto dall'abitudine storica a
considerare questa popolazioni pericolose e la loro religione arretrata e
integralista".
La consapevolezza dell'impossibilità di un ritorno ad un'unica identità,
origine e cultura, provoca spesso in Nassera un senso di isolamento e di
incomprensione; il fatto che si senta estranea alla cultura maghrebina e che in
Italia e in Francia sia percepita come una persona appartenente a quella
medesima cultura la fa sentire una straniera ovunque. Tale sensazione percorre
l'intero testo sin dalle prima pagine: "in quel posto ormai tutti mi
facevano sentire diversa, estranea" (riferito alla casa di una zia),
"in classe ero l'unica ragazzina di colore. E questo sentirmi diversa dagli
altri mi faceva essere permalosa e aggressiva", "io ormai stavo
quasi sempre da sola", "io mi sentivo molto sola e
incompresa", "io che non ho una patria né una bandiera da
venerare". Tale stato d'animo verrà meno solamente alla fine, quando la
ricerca di dignità e autonomia della giovane in balia delle sue inquietudini
avrà finalmente compimento:
mia madre probabilmente oggi, guardando mio figlio, si chiede quale Dio
pregherà, che vita farà, quale lingua parlerà. Ma mio figlio le lingue le sta
imparando tutte: l'arabo, il francese, l'italiano; e spero che possa crescere
serenamente, prendendo di qua e di là, tutto ciò che potrà renderlo felice.
Ma mi auguro, soprattutto, che il futuro gli dimostri che bianco e nero non sono
altro che sfumature.
In un interessante intervento dal titolo Gelato e peperoncino, che riprende uno
dei capitolo del romanzo autobiografico, Gian Paolo Biasin analizza la metafora
del cibo nell'opera di Chohra:
la contrapposizione tra il gelato ed il peperoncino contiene in nuce il
contrasto fra due culture: il gelato è il prodotto della tecnologia occidentale
applicata al benessere fisico (la tecnica del freddo permette di confezionare un
prodotto che allevia il calore e nello stesso tempo piace al palato); il
peperoncino verde, ingrediente di cucina comunissimo nei climi caldi, è usato
anche come un castigo fisico che mortifica il corpo della piccola peccatrice,
con un contrappasso insieme letterale e simbolico (il fuoco dopo il ghiaccio)
che sottolinea efficacemente la preminenza del rigore morale-sociale della
tribù sull'edonismo occidentalizzante e troppo disinvolto dell'individuo. […]
Esso ha una evidente funzione come demarcatore culturale e religioso, informando
inoltre i lettori occidentali dei costumi arabi: per esempio, il menù della
famiglia di Naci durante la visita ai parenti nel deserto è composto di cuscus,
frutta (molti i datteri, naturalmente) e tè alla menta per i grandi, e acqua
per i bambini […] Così, attraverso i cibi e i relativi rapporti
interpersonali e interculturali, si compie la formazione di Naci.
In Volevo diventare bianca, la narrazione avviene in prima persona, o, secondo
la definizione di Genette, si tratta di un narratore interno alle vicende, che
racconta una storia a cui ha direttamente partecipato, di cui è il
protagonista. La struttura di questo tipo di narrazione prevede uno sdoppiamento
tra l'io narrante, (il personaggio nell'atto del narrare) e l'io narrato, (il
personaggio nell'atto di vivere). Si tratta quindi di due livelli diversi della
storia, che, nel caso in questione, si ricongiungono all'altezza dell'explicit.
I tempi verbali sottolineano questo aspetto: l'intera vicenda è narrata al
passato, sino a quando, nel finale, l'autrice tratta della sua situazione
attuale, al presente. Ciò non significa che non esistano differenze tra
io-narrante e io-narrato:
nella maggior parte dei casi tra il protagonista nell'atto di cominciare a
vivere l'esperienza e il protagonista medesimo nell'atto di narrarla il solco è
profondo. Questo accade generalmente proprio perché se un individuo narra una
storia che lo riguarda lo fa perché la ritiene, oltre che degna di interesse,
tale da avergli insegnato qualcosa o almeno da averlo mutato.
Così, il passato, tempo dell'avventura riferito all'io-narrato, si ricongiunge
al presente, tempo della scrittura riferito all'io-narrante; questi due tempi
riguardano la medesima persona, in quanto protagonista e narratrice delle
vicende. Il ricongiungimento dal punto di vista temporale, formale, appare
specchio di un altro, di tipo contenutistico, tematico: sembra che l'autrice
abbia finalmente trovato un suo equilibrio, realizzandosi pienamente e prendendo
consapevolezza della sua "multiculturalità", non vissuta più come
una debolezza, bensì come un vantaggio.
Certamente, nell'atto di scrivere il libro, ogni scrittore si pone in una
condizione psicologica ed emotiva tale da indurlo a rivelare, a sé e agli
altri, un'immagine momentanea e parziale di sé, accentuando magari
involontariamente aspetti positivi o negativi della propria personalità.
Nonostante la stretta aderenza alla realtà, risulta inevitabile che in un
genere quale l'autobiografia non si prescinda da un processo di elaborazione
letteraria:
d'altronde il fatto che la letteratura non coincida in senso stretto con la
realtà, non è mai stato veramente in discussione […] La verità ed il
riscontro oggettivo in particolare sono, caso mai, problemi di altri generi: ad
esempio, per l'agire umano, la storiografia, che pur non rinunciando a
interpretare i fatti reali si propone un'assoluta fedeltà ad essi.
Nel momento in cui l'autore decide di narrare la propria esistenza, deve
necessariamente operare una selezione dei fatti, altrimenti rischierebbe di
giungere agli esiti paradossali denunciati ironicamente da Laurence Sterne in
The Life and Opinions of Tristam Shandy (1767): "quanto a me, affermo che
mi ci sono dedicato in queste ultime sei settimane, spicciandomi più che
potevo, eppure, ora come ora, non sono ancora nato", annota il
narratore.
Si ritrovano, dunque, lungo tutto il romanzo, ellissi e riassunti funzionali
all'accelerazione del racconto, ancor più giustificati nel caso specifico, in
cui la narrazione ricopre l'arco di una vita.
Per quanto concerne la dimensione spaziale, essa rispecchia una concezione
latamente romantica: la degenerazione o il miglioramento degli ambienti sembrano
influire sullo stato d'animo della protagonista. Le condizioni di vita della
famiglia Chohra migliorano progressivamente nel corso della vicenda, che si apre
con una descrizione ad effetto dell'abitazione, facendo precipitare
immediatamente il lettore nella squallida realtà in cui vivono gli
immigrati:
la nuova casa era un buco: cinquanta metri quadri scarsi per noi che eravamo in
nove persone. Due stanzette e la cucina, sistemata in corridoio. Infine uno
stanzino che con molta fantasia poteva sembrare un bagno; un buco per terra,
parente lontano di un cesso alla turca. La nostra vasca da bagno era una
bacinella ovale di metallo grigio.
Nel corso degli anni, la situazione sembra migliorare: i trasferimenti da un
quartiere all'altro sono numerosi, ma l'animo della protagonista non sembra
sollevarsi:
erano trascorsi tre anni da quando ci eravamo trasferiti alla Savine. Allora
avevamo pensato tutti che avremmo cambiato vita. E in un certo senso così era
stato. La casa era più grande ed il quartiere più pulito, ma mio padre
continuò ad ammazzarsi di lavoro per pagare l'affitto, mia madre non smise
neppure per un giorno di lavare e cucinare, io e i miei fratelli eravamo
diventati grandi e ci toccò fare i conti con la durezza e il cinismo del mondo
degli adulti.
Solamente con l'arrivo in Italia, la vita sembra arridere a Nassera:
appena uscimmo dalla stazione ci trovammo su un lungo viale, intorno a noi la
gente passeggiava con aria così spensierata che il solo fatto di essere lì mi
mise di buon umore […] Tutto mi appariva bello come nelle favole, le case, le
strade, i giardini.
Altrettanto significativo appare l'arrivo a Roma:
la metropolitana ci sbarcò direttamente a Piazza di Spagna e il mio primo
pensiero, uscita dal tunnel, fu: ecco, qui voglio vivere il resto della mia
vita. Non so se mi innamorai del cielo azzurro, o del colore dei palazzi antichi
che si alzavano tutt'intorno, non so se fu quella visione a farmi presagire che
la mia vita, con quel viaggio, sarebbe cambiata completamente, o se solo
desiderassi intensamente passare il resto dei miei giorni in un attico lassù,
fra i tetti, in mezzo al blu.
Spesso l'ambiente diviene quindi la causa del comportamento e dello stato
d'animo dei protagonisti: appare emblematica la considerazione di Nassera
riguardante il mutato atteggiamento di alcuni arabi nella loro terra d'origine e
in Francia: "questo fatto mi colpì molto perché a Marsiglia gli unici che
rubano in continuazione sono proprio gli arabi. Lì, invece, niente di
niente".
A questo proposito, appare utile parlare del concetto di milieu social, ossia di
ambiente sociale, che Grosser sviluppa nel suo saggio, nel capitolo riferito
alla storia della rappresentazione spaziale tra Ottocento e Novecento: il
discorso riguarda il ciclo dei Rougon-Macquart di Emile Zola e quello verghiano
dei vinti, in cui i personaggi sono in stretta connessione con lo spazio che li
circonda:
il concetto stesso di milieu social (ambiente sociale), dominante nella
riflessione teorica, sembra legare inscindibilmente, in un rapporto di reciproca
influenza, i gruppi sociali allo spazio (paesaggio naturale o umano) in cui si
trovano ad agire, che hanno contribuito a creare, che li rispecchia e da cui
sono necessariamente influenzati.
Il linguaggio di cui si fa uso nel romanzo non appare letterariamente ricercato
e si basa fondamentalmente sulla paratassi. Presenta espressioni colorite e
strutture tipiche del parlato, dai tratti colloquiali e vivaci. Da un punto di
vista sintattico, per esempio, si rileva spesso la prolessi del complemento
oggetto: l'anticipazione, cioè, di quest'ultimo, rispetto al predicato verbale.
Si riportano alcuni esempi: "Corinne il suo gelato lo mangiava
velocemente", "il peso dei pacchi non lo sentivo nemmeno",
"ma mio figlio, le lingue, le sta imparando tutte". Tale costrutto
appartiene, infatti alla sfera dell'oralità e tende ad enfatizzare l'oggetto in
questione. Anche lo stile paratattico, caratterizzato cioè dall'accostamento di
molti enunciati, negati ad un rapporto di subordinazione, sottolinea la
linearità del discorso. Il linguaggio, come si è detto, è caratterizzato da
tratti vivaci e colloquiali: l'impressione che percepisce il lettore è che le
vicende siano narrate da una voce infantile, che si pone in modo ingenuo e
smaliziato, senza artifici retorici o ricercati espedienti. Ciò può essere
letto come una precisa scelta stilistica da parte dell'autrice, che, per quanto
voglia far apparire le vicende narrate da una ragazzina, non può non applicare
dei, seppur minimi, espedienti narrativi. Anche una forma così apparentemente
semplice e spontanea implica, quindi, una scelta letteraria precisa.
L'infanzia, che si ritrova la centro dell'esperienza autobiografica, si
riflette anche da un punto di vista formale: i pensieri e le parole appaiono
quelli di un bambino, perlomeno all'inizio della narrazione.
L'umorismo appare un'altra traccia che percorre la narrazione: si rivela questo,
infatti, l'atteggiamento con cui la protagonista si pone nei confronti di ciò
che la circonda, ma soprattutto di se stessa.
Ne dà una definizione semplice Tahar Ben Jelloun, nel saggio Il razzismo
spiegato a mia figlia, testo estremamente utile per comprendere, almeno in
parte, cosa spinga l'uomo ad adottare certi atteggiamenti nei confronti del
"diverso". A questo proposito, lo scrittore marocchino sostiene che
una persona razzista non ha senso dell'umorismo, sa solo ridere degli altri in
modo cattivo, mettendone in evidenza i difetti, come se lui ne fosse
privo:
per potersi burlare degli altri, bisogna saper ridere di se stessi. Se no, non
si ha il senso dell'umorismo. L'umorismo è una forza […] Avere senso
dell'umorismo è saper scherzare senza mai prendersi sul serio. E' saper far
venire fuori di ogni cosa l'aspetto che fa ridere o sorridere.
Le caratteristiche formali considerate sino ad ora, sono ascrivibili ad una
scelta da parte dell'autrice, ma dipendono anche da un altro fattore, che è
necessario sottolineare: il fatto che si stia trattando di scrittori immigrati,
non, quindi, di nazionalità italiana, comporta alcune rilevanti conseguenze
linguistiche. Nassera Chohra ha ricevuto un'istruzione ed una formazione
francese, sin dalla nascita:
the immigrant writers have been highly influenced by the cultural, historical,
social and linguistic changes brought about by French colonialism. Although they
come from different national contexts, a large number of these writers were
educated in France's ex-colonies, and therefore share a "Francophone"
identity. The act of becoming an Italophone writer and expressing oneself in
Italian marks both a separation from and a connection with Francophone cultures,
which have become a mediating element between western and non-Western languages
and cultures.
(Per altri scrittori, da Saidou Moussa Ba a Pap Khouma, a Salah Methnami, non
c'è stato questo tipo di "intermezzo", in quanto si sono trasferiti
dalla loro terra d'origine, l'Africa, all'Italia).
Alessandra Atti Di Sarro, che ha curato l'edizione di Volevo diventare
bianca,
mi illustra la peculiarità dell'esperienza di Nassera: la visione della
scrittrice appare quella di una cittadina europea che confronta due mondi ai
quali si sente legata. Differentemente da altri immigrati, l'ambiente che la
circonda non la stupisce, non rappresenta una novità, poiché ella è nata e
vissuta in Europa. L'arrivo in Italia (inizialmente nei panni di una turista),
la successiva decisione di stabilirvisi e, infine, il matrimonio con un uomo
italiano, creano le condizioni per l'ideazione di un romanzo autobiografico. Per
ovviare alle inevitabili difficoltà linguistiche che un progetto siffatto pone,
l'autrice ha dettato il testo al marito. Alessandra Atti Di Sarro è
intervenuta, in seguito, per conferire una forma corretta al canovaccio
iniziale. Ha reso omogeneo l'uso dei tempi verbali, riconducendo le vicende ad
una dimensione passata. (Nella prima stesura, la scrittrice era ricorsa
unicamente alla forma verbale del presente, anche per narrare vicende passate).
La curatrice italiana ha dunque voluto sottolineare la dimensione diacronica,
consequenziale, del testo, facilitandone anche la pubblicazione. Non si può
parlare, dunque, di piena autonomia da un punto di vista linguistico.
Il caso considerato rientra in una fase intermedia della letteratura
d'immigrazione, relativa ai primi anni Novanta: solamente a partire dalla
seconda metà di tale decennio, scrittori come Chohra raggiungeranno una totale
autonomia artistica e letteraria, affrancandosi totalmente dai colleghi
italiani.
Atti Di Sarro sottolinea, tuttavia, una peculiarità di tale scritto rispetto
agli altri: l'idea del romanzo autobiografico nasce autonomamente nella
scrittrice, senza alcun intervento esterno.
Graziella Parati, da parte sua, ricorre all'espressione, in riferimento a Chohra,
di "indipendent writer who has now found a voice, una scrittura",
il cui intento, dichiarato, "è di informare sull'esperienza
dell'emigrazione, senza drammatizzare, né turbare, il lettore".
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