Meticcio
narrativo
Vero
è che una somma di indizi non vale come prova, ma quanto meno alimenta il
sospetto che rende necessario un supplemento di indagine.
Si sta radicando una nuova coscienza nell’ambito narrativo del nostro paese,
le tracce si trovano in quotidiani, libri che parlano di narrativa
dell’immigrazione, riviste di scrittura, bimestrali o periodici, siti
internet. Vediamo di cosa si tratta.
Esistono
scrittori la cui lingua principale è diversa dalla italiana, eppure, per
svariati motivi, decidono di comunicare, scrivendo, con la lingua di Dante. Ecco
i nomi: Ron
Kubati, Younis Tawfik, Smari Abdel Malek, Muin Madih Masri, Jadelin M. Gangbo,
Christiana de Caldas Brito, Mbacke Gadji, Julio Cesar Monteiro, Mohamed Ghonim,
Emmanuel Tano Zagbla, Alvaro Santo, Mohsen Melliti.
Tutti gli autori
appena nominati hanno scritto uno o più libri senza un coautore, provengono
dalle più svariate parti del mondo, hanno scelto la lingua italiana per farsi
capire e comunicare.
La letteratura che producono non è letteratura marginale, narrativa
etnica, esotica o chissà cos’altro. Questa è letteratura tout court, perché
innova il dire e la rappresentazione di mondi possibili. C’è molta
consapevolezza di scrittura in tutti gli scrittori immigrati. Il più delle
volte sono intellettuali motivati, animatori culturali di riviste, associazioni
culturali, convegni e seminari. Non si cada nell’errore di scambiare i loro
libri per “strategie letterarie di sopravvivenza”, come ha scritto la
studiosa Nadia Valgimigli sulla rivista Africa
e Mediterraneo (n.1/1997). Tutti i libri di questi autori sono testimonianze
letterarie di una palingenesi del linguaggio e delle tecniche narrative di una
lingua viva: l’italiano .
Nel novembre del ’99 sul Corriere della sera, in occasione dell’uscita dei libri La
straniera ed. Bompiani di Younis Tawfik e Nel
sole d’inverno ed. Portofranco di Muin Madih Masri, la giornalista Cinzia
Fiori chiedeva: “Ma attraverso quali processi può cambiare la lingua letteraria di un
paese? Egi Volterrani, traduttore di Ben Jelloun, porta l’esempio della
Francia. «Lì – dice – l’influenza degli immigrati è stata molto
evidente. Su Nedjma, pubblicato nel 1956 dal drammaturgo arabo Kateb Yacine,
sono state scritte decine di tesi di laurea. E’ un romanzo che vive di
scrittura, Yacine usa il francese con un fervore tale da rendere efficacemente
atmosfere quasi intraducibili. Per ottenere questo risultato, non esita a
cambiare la struttura della frase: non mette sempre il soggetto, non usa le
dipendenti e, anche quando sceglie una sintassi tradizionale, lo fa in modo
inaudito. Grazie ad autori come lui la letteratura francese ha perso aulicità.
Poi altri fenomeni sono venuti, penso alla torrenzialità equatoriale di Sony
Labou Tansi, ottenuta con l’utilizzo di centinaia di termini anziché
accontentarsi di uno. Ma potrei portare altri esempi, per dire come
l’attenzione posta dagli autori francofoni agli etimi delle parole, abbia
segnato la narrativa francese».
Per tornare in Italia, dove il caso della letteratura scritta da stranieri
non è paragonabile al fenomeno di scrittori anglofoni o francofoni,
l’americanista Marisa Bulgheroni puntualizza:
«La lingua prescelta tende ad essere modificata secondo due linee. La prima è
una trasformazione profonda, ottenuta tramite invenzioni idiomatiche partite
dalla lingua d’origine. La seconda è una trasformazione nascosta, che non
altera formalmente la lingua acquisita, ma con qualcosa di simile a una
pronuncia mentale la piega all’espressione di rituali e comportamenti che le
sono estranei. C’è però una differenza fra le letterature anglofone o
francofone, nate dal desiderio di dar voce a un passato soffocato, e il
mutamento spinto dalla necessità vitale di comunicare in un paese nuovo, con
una nuova lingua. In questo senso, quanto si annuncia in Italia è simile a ciò
che è avvenuto negli Usa. Lì ogni etnia ha riformato l’inglese partendo dal
proprio patrimonio, arrivando a creare delle vere e proprie letterature, poi
entrate nella storia letteraria americana».
Nel caso dell’Italia conclude: “Penso che passeremo per una fase di espressività, con modi di dire,
come quelli in siciliano di Camilleri, che pur forzando la convenzione, non
riescono a diventare neologismi. Soltanto se l’immigrazione continuerà,
l’italiano orale dei vari gruppi etnici giungerà ad arricchire d’invenzioni
la nostra letteratura, com’è successo in America”.
Oltre agli scrittori nominati poco fa ce ne sono altri che non
arrivano dai cosiddetti “Mondi sud” ma che provengono e si sono formati in
altri Paesi per poi approdare in Italia e scrivere con una lingua diversa dalla
originaria. Questi scrittori sono: Helga Schneider, Giorgio Pressburger, Jarmila
Ockayovà, Alice Oxman, Helena Janeczek. Sono polacchi, come nel caso della
Schneider e della Janeczek, ungheresi di Budapest come Pressburger. Jarmila
Ockayova è Ceca e Alice Oxman degli Stati Uniti. Un bel giro del mondo!
Storia
alternativa
Sulla
rivista Afriche e Orienti
dell’autunno-inverno 2000, Nadia Valgimigli nel suo saggio Nel
ventre della balena sancisce la nascita di questa letteratura
“emergente”, come la chiama lei, con l’avvenimento dell’assassinio di
Jerry Essan Masslo avvenuto il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Razzismo e
intolleranza, nei fatti di cronaca, entrano nella letteratura di alcuni migrant
writers e, come nel caso di Essan Masslo, vengono cristallizzati come «evento-limite»,
dice la studiosa. L’evento è preso come convenzione, con tutti i pregi e i
limiti del caso.
Naturalmente prima di quella data scrittori stranieri avevano già scritto e
pubblicato in Italiano. Primo tra tutti l’indimenticabile J.Rodolfo Wilcock.
Approdato in Italia da Buenos Aires, già alla fine degli anni ’50 dello
scorso secolo ha iniziato a pubblicare scrivendo direttamente in Italiano
trasfondendosi con un’operazione che solo a pochissimi, come Conrad e Nabokov
per l’inglese è riuscita.
Nel processo di sviluppo della letteratura di
immigrazione, possiamo distinguere tre momenti sfumati tra di loro. Il primo è
costituito dalla cosiddetta letteratura di testimonianza, nata dal bisogno di
comunicare, attraverso la scrittura, direttamente con il pubblico italiano. Di
questo filone sono espressione i romanzi, scritti tutti a quattro mani con
autori o giornalisti italiani, di Salah Methnani che scrisse Immigrato
ed. Teoria nel ‘90, Nassera Chohra con Volevo
diventare bianca ed. E/O del 1993, Saidou Moussa Ba con La
promessa di Hamadi ed. De Agostani 1991, Pap Khouma con Io
venditore di elefanti ed. Garzanti del 1990. Testimonianze che vogliono
rappresentare violenza e razzismo, solitudine e nostalgia (la gurba) sempre
sottesa dalla voglia di integrazione con la società "ospitante". In
tempi più recenti, una seconda ondata di scrittori dell'immigrazione ha
incominciato ad emanciparsi dalla scrittura in collaborazione con autori o
giornalisti italiani e sta mostrando di volersi costituire e presentare come
scrittori dalla voluta dimensione letteraria. Diventano così testimoni e allo
stesso tempo usano spaesamento e malinconia come carburante per scrivere e “ventriloquizzarsi”.
Sono nati così testi letterari dai risultati alterni ma che cercano, nella
poetica dell’autore, di narrare l’evoluzione di una vita da emigrato che
cerca tematiche alternative alla tematica testimoniale. Un terzo momento della
scrittura di immigrati la spiega bene lo scrittore Carmine Abate in una recente
intervista al sito di Voci dal Silenzio (http//:digilander.iol.it/vocidalsilenzio)
“Ho seguito questa letteratura fin dalla nascita e devo dire che col
tempo sto scoprendo degli autori che hanno davvero molto da dirci e lo dicono
sempre meglio. Oggi è stata superata la fase che Armando Gnisci, appassionato
esperto di questa letteratura, aveva definito efficacemente “carsica”, cioè
“resa invisibile dall’industria culturale”. Autori come Yunis Tawfik, Muin
Masri, Momhse Melliti, Christina de Caldas Brito, Jadelin Mabiala Gangbo, Ron
Kubati, Gezim Hajdari, per citare qualche nome, o scrittori come Dante Liano,
Jarmila Ockajovà, Alice Oxman, che scrivono in italiano, ma non (ancora) sui
temi dell’immigrazione, hanno conquistato uno spazio importante nel panorama
letterario italiano. A me sembra che anche in Italia cominci a prendere forma
una letteratura che ha alla base il dialogo, affiorino i primi tentativi di
incrocio e ibridazione di modelli letterari, di lingue, di storie, si creino i
presupposti di quella che dovremmo cominciare
a chiamare letteratura multiculturale. Una letteratura fatta dallo
sguardo plurimo e ibrido sul mondo, di cui è portatore chi parte e vive
altrove”.
Tra qualche anno avremo anche in Italia casi editoriali come quelli di Salman
Rushdie, Tahar Ben Jelloun, Hanif Kureishi. Si tratta solo di aspettare.
* Articolo apparso sulla rivista FERNANDEL numero 30 (ottobre-dicembre 2001)
|