Io, polpastrello 5.423
di Christiana de Caldas Brito


Davanti a me c'erano cinquemila quattrocento ventidue polpastrelli, tutti imbrattati di inchiostro. 
"Polpastrello 5.423!" 
Dopo una fila di più di un giorno (notte compresa), una fila che era durata quasi trenta ore, toccava a me. Radunai le mie forze: "Eccomi!"
La questura era un subbuglio di polpastrelli neri, bianchi, polpastrelli sudamericani, africani, asiatici e quelli dell'Europa dell'est. I poliziotti ci stringevano e ci macchiavano con quel liquido nerastro. 
In quel dannato mattino dell'estate romana, non c'era polpastrello che si reggesse più in piedi. E guardate che per un polpastrello già non è facile stare in piedi… 
Alcuni polpastrelli rischiavano la disidratazione. Altri erano mosci come fiori dopo il funerale. Un caldo da record. I giornali continuavano a ripetere che erano almeno dieci anni che i romani non sentivano tanto caldo. Confesso che anche a noi, polpastrelli, quel caldo dava fastidio. L'idea di staccarci dai corpi dei nostri padroni per andare in questura, in seimila, era il nostro battesimo non di acqua ma di fuoco. A trentasette gradi all'ombra, possiamo proprio parlare di fuoco, no?
Il giorno prima, quando ci era stato aperto il cancello della questura, avevamo sentito il portiere esclamare: "Mio Dio!" Ci aveva guardato dall'alto in basso e tremava: "Cosa sono questi bastoncini?" Senza sentirci offesi per l'appellativo, noi, seimila polpastrelli, siamo entrati in questura in modo assolutamente pacifico e in ordinata fila, come si usa dalle nostre parti. Se proprio devo dire la verità, erano loro, i poliziotti, ad essere nervosi. Forse ne avevano ragione. Non tutti i giorni un poliziotto trova davanti a sé seimila polpastrelli separati dalle mani, seimila polpastrelli allontanati dai corpi a cui appartenevano. Veri e propri pollicini, ci sentivamo un po' deboli e indifesi, ma uniti dalla coraggiosa decisione presa al cantinone. Eravamo venuti in questura disposti a portare fino in fondo il nostro piano. 
I poliziotti continuavano ad imbrattarci di inchiostro, ci pestavano e gridavano: "Un'invasione di polpastrelli! Una calamità!" 

Una notte, prima di venire in questura, mentre i corpi dei nostri padroni dormivano, noi, polpastrelli immigrati, ci staccammo dalle mani che ci avevano sempre sostenuto e, di comune accordo, ci radunammo in un cantinone vuoto. Lì, ci siamo contati: eravamo, in tutto, seimila. Nel conteggio, a me era toccato il numero 5.423. Per salvaguardare l'identità delle persone che noi rappresentavamo (le chiamiamo "padroni" perché in fondo sono stati sempre loro a comandarci), abbiamo deciso di identificarci con i numeri che ci erano toccati durante il conteggio. Io, polpastrello 5.423, feci subito amicizia con il polpastrello 3.986 che era anche lui del mio paese di origine. Insieme, abbiamo osservato gli altri polpastrelli. Alcuni avevano delle righe così profonde che sembravano pieni di cicatrici; altri esponevano i loro calli conquistati con duri lavori; ne erano orgogliosi come se quei calli fossero delle raffinate incisioni. C'erano polpastrelli sporchi di pomodoro, venuti al cantinone subito dopo una raccolta in campagna. Altri, macchiati di sangue, venivano dagli ospedali dove accudivano i malati, come infermieri. Polpastrelli immigrati, stanchi nell'eseguire quelle funzioni disdegnate dagli italiani. Lo so che esistono polpastrelli pigri o disonesti anche tra di noi, e non solo tra i governanti e i ricchi, ma se debbo dire la verità, al nostro raduno nel cantinone erano venuti dei polpastrelli di tutto rispetto. Il numero 1600, per esempio, un polpastrello femminile, era addirittura sporco di cacca. Apparteneva ad una giovane immigrata che passava le notti con una signora anziana. Il polpastrello 702, che lavava i piatti in un ristorante, aveva un'allergia a detersivi ed era completamente rovinato. Nonostante tutto, era lì nel cantinone, pronto a prendere una decisione comune. 
In mezzo alle discussioni, cominciammo a capire che l'unione era la forza dei polpastrelli. Sapevamo bene che, grazie a noi, ogni persona è diversa e che grazie a noi una persona può essere riconosciuta, ma eravamo amareggiati dalla legge che ci chiamava in questura. Avevamo capito che quella legge ci manipolava. Le impronte digitali, espressioni visibili della individualità di ogni persona, sarebbero state usate a scopi polizieschi e a noi quello non sembrava giusto. Perché solo le impronte digitali degli immigrati ai quali appartenevamo? Non avevano polpastrelli pure gli onorevoli? Perché non venivano in questura pure loro? 
La legge diceva che dovevano essere prese le impronte digitali degli immigrati? Ebbene, nel rispetto della legge, in questura saremmo andati tutti insieme. Dal cantinone direttamente alla questura. In seimila. Un vero esercito di polpastrelli.
Ci dispiaceva lasciare le mani dei nostri padroni, ma si trattava di un'urgente decisione strategica. 

I poliziotti si erano rivolti al questore: "Cosa dobbiamo fare?" Il questore prese il telefono per chiamare il sottosegretario del Ministro dell'Interno: "Volevo avvertire che nella questura ci sono… ci sono… beh, non so come dire… ci sono polpastrelli!" "Bene" rispose il sottosegretario del Ministro che parlava così forte che potevamo sentire la sua voce. "Come bene?" domandò il questore, "è una vera e propria invasione! Non sappiamo cosa fare." Il sottosegretario del Ministro gridò: "Lavorate!" e chiuse il telefono in faccia al questore. 
"Cosa dobbiamo fare?" chiesero un'altra volta i poliziotti al questore. "Lavorate!" gridò il questore. 
Il polpastrello 79 riuscì a salire sul tavolo del questore. "Via, animale, via!" urlò il questore. "Guardi che non sono un animale" disse con calma il polpastrello 79, "rappresento l'identità di un essere umano. Esigo rispetto!" Il questore gli mandò una sberla così forte che il polpastrello 79 volò per aria. Seguirono delle manganellate a destra e a manca. I poliziotti si abbassavano per raggiungerci. Sembravano impazziti. 
Io, polpastrello 5423, balzai in avanti: "Caro questore e cari poliziotti, siamo un gruppo pacifico. Non potete trattarci così!" "Sta' zitto!" mi gridò il questore, "perché siete venuti?, cosa volete?" Come facevo a fornirgli delle spiegazioni se dovevo stare zitto? Aspettai un nuovo ordine che arrivò subito: "Parla, imbecille!" Dal basso della mia piccolezza, io, polpastrello 5.423, dissi: "Caro signor questore, sono l'umile polpastrello di un immigrato, non un imbecille. Cosa vogliamo? Vogliamo rispettare la legge. Non avete ordinato che ci presentassimo in questura per lasciarvi le nostre impronte digitali? Eccoci!"
Avrei potuto continuare il mio discorso. Avrei potuto parlare dell'ingiustizia di una legge che voleva schedare gli immigrati. Avrei potuto parlare di come era assurdo usare noi, polpastrelli che rappresentavamo l'unicità di ogni essere umano, proprio per accomunarci in un'indifferenziata discriminazione. Avrei potuto parlare di cose sublimi come il misterioso segreto di ogni identità, racchiuso nelle nostre linee, ma dissi soltanto: "Siamo polpastrelli venuti da paesi più o meno lontani. Viviamo e lavoriamo qui, in Italia. Non siamo dei criminali. Siamo venuti in questura per rispetto della legge." "Legge del cazzo!" urlò il questore. "Ha ragione, signor questore, anch'io la penso come lei!" dissi io.
Il nostro piano lillipuziano andava esattamente nella direzione che avevamo previsto al cantinone.
Uno dei poliziotti aveva cominciato a piangere: "Sono stufo di prendere impronte digitali." Un altro si tolse la giacca, la camicia, la canottiera e, a torso nudo, reclamava la calura di quella giornata infernale piena di polpastrelli. 
Il questore chiese ad un poliziotto dalla barba scura di andare a prendere tutte le impronte digitali rilevate da quando avevamo invaso la questura. Erano migliaia di impronte in fogli bianchi. Uno ad uno, il questore strappò i fogli. "Ma che fa?" indagò il poliziotto dalla barba scura. "Sta' zitto, imbecille!" A questo punto, noi polpastrelli, ci siamo guardati in faccia (si fa per dire), e ci era venuta una gran voglia di ridere.
Dopo aver strappato tutti i fogli che contenevano l'individualità dei nostri padroni, il questore si alzò. In un gesto, un tantino drammatico per il gusto di un polpastrello, disse: "Chiedo le dimissioni." "E noi, signor questore, che dobbiamo fare?" mi azzardai a domandargli. "Sparite! Sparite da qui!" gridò il questore.
Non abbiamo aspettato un secondo ordine. Eravamo davvero preoccupati con i nostri padroni senza polpastrelli. Cosa poteva essere successo all'Italia senza di loro nelle fonderie e nelle fabbriche, negli ospedali, nelle case di famiglia, negli uffici, nei benzinai, nei ristoranti, nella pulizia delle strade, nei mercati e negli alberghi?
Il polpastrello 3986, il mio connazionale, mi affrettò: "Dai, corriamo, senza di noi, l'Italia si ferma!"



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