Intervista a Julio Monteiro Martins
 
a cura della Redazione

Julio Monteiro Martins, da qualche parte hai dichiarato che essere scrittore è in un certo senso essere straniero. La tua biografia è densa di viaggi, luoghi diversi che hai attraversato, e ci racconta di un rapporto sempre strettissimo con la letteratura. In una delle epigrafi del tuo nuovo libro di racconti, La passione del vuoto, riporti alcuni versi di Giorgio Caproni: "Il mio viaggiare/è stato tutto un restare/qua, dove non fui mai".
Che rapporto c'è tra il tuo viaggiare, il tuo essere straniero, e il tuo modo di intendere e fare letteratura?


  Quando, negli anni ’60, si è voluto creare un termine gergale per definire il ritrovato sconfinare della fantasia, della creatività e della percezione sensoriale amplificata, si è ripreso il verbo “viaggiare” con un senso nuovo, come sintesi di queste esperienze. In tutte le lingue occidentali il “viaggio”, il trip, era lo stesso. Questo non è un caso. “Viaggiare” è la più potente e seduttrice metafora della liberazione individuale, della micro-rivoluzione che si può fare nel proprio quotidiano, della ricerca della verità velata dell’essere. E qualcuno – magari esasperato dalla rigidezza, dall’apatia o dalla mediocrità della propria vita – compie il “viaggio” anche letteralmente, oltre che simbolicamente,  e viaggia a volte molto lontano. Quando uno parte, si sa, dev’essere pronto a tornare o a non tornare affatto. È una porta che lui apre all’interno di una stanza buia, e che a volte si rinchiude da sola alle sue spalle.
Già emigrare –  partire con un’idea chiara del non ritorno – è la radicalizzazione di questa esperienza. È rinunciare a un certo “se stesso” (e quindi accettare il lutto di vederlo prima atrofizzarsi e poi perire per totale assenza di contiguità con i personaggi del passato), per scommettere su un futuro “se stesso” totalmente ipotetico: un rischio assoluto.
Quando la scimmia lascia il ramo dov’è appesa, per aggrapparsi a un altro che ha intravisto tra il fogliame, può sembrare a chi l’osserva che voglia spiccare il volo senza ali di sorta. Ma per istinto la scimmia sa benissimo che non precipiterà nel vuoto. Allo stesso modo, qualcosa dentro al migrante sa dove si trova esattamente il ramo che lo aspetta, che aspetta le sue mani sicure, ed è questo qualcosa che lo spinge al salto.
Le figure, allo stesso tempo mitologiche e contemporanee - il “migrante”, il “viaggiatore”, il “profugo”, il peregrino”, il “vagabondo” , il “naufrago” - rappresentano certe configurazioni dell’inconscio collettivo, certi archetipi, presenti anche nell’uomo di oggi, in tutti gli uomini. Così, l’uomo “stanziale” – il “paesano”, per restare in un linguaggio mitico – che ascolta le disavventure di un migrante (o il lettore che compra e legge un libro di uno scrittore migrante), lo fa perché vi si riconosce a livello inconscio. Anche l’uomo più immobile, forse inconsapevolmente, condivide la condizione della migranza, perché oggigiorno “restare” non è altro che un’illusione, restare significa viaggiare a ritroso. Questo era per me il vero senso dei versi di Caproni che ho inserito come epigrafe de La passione del vuoto. La migranza è una dimensione allo stesso tempo ineluttabile e irrimediabile della condizione umana, nel nostro periodo storico. E la letteratura – rappresentazione tanto fedele e adiacente alla condizione umana da confondersi con essa – non può che diventare la sua massima espressione.

Con La passione del vuoto riproponi, dopo Racconti italiani un libro di racconti: Il racconto breve è un genere che ti risulta particolarmente congeniale o ti è parsa la forma narrativa più adatta a rappresentare uno spaccato del nostro tempo come fai nei tuoi libri?
 

Tutte e due le cose. Il racconto è il genere narrativo più congeniale alla odierna sensibilità generale, e alla mia  in particolare, di scrittore ma anche di lettore. Il dominio di una soggettività frammentaria, in perenne tensione tra libero pensiero e manipolazione, fa sì che essa si possa rispecchiare soltanto nel modo di narrare frammentario dei racconti, piuttosto che in quello artificiosamente integro e coerente del romanzo tradizionale, di stampo ottocentesco. Anche perché noi, uomini di questo nuovo secolo, non abbiamo una storia, ma solo storie. Proprio come nei racconti. E c’è un’altra ragione che mi ha spinto a approfondire le tecniche del racconto breve: noi latino-americani – ed io non sfuggo alla regola – consideriamo il racconto breve l’apice della scrittura narrativa, la sua massima sfida. Il racconto è allo stesso tempo sintesi e parabola. Non ammette la "flaccidezza", la retorica autocompiacente e il “grasso diegetico” presenti nei romanzi di oggi, con rare eccezioni. Il racconto invece è teso, tondo, fulminante e tentato dalla perfezione. Dico sempre che lo scrittore di racconti è un romanziere posseduto da un poeta.
Il mio prossimo libro pubblicato, però,
madrelingua, sarà molto probabilmente un romanzo. Ma questo non è un paradosso, perché oltre ai racconti e alla poesia, mi dedico alla ricerca di nuove forme possibili di romanzo, che lo avvicini all’efficacia dei racconti, e madrelingua è proprio un romanzo che discute i problemi del romanzo, che si disintegra per cercare una nuova struttura, che tradisce il romanzo per riproporlo.


Nei tuoi racconti, come in una sequenza di istantanee su una realtà composita e multiforme, si alternano uomini ibernati, i fatti di Genova, supermarket di carne umana, I B movies degli anni '60, John Lennon e Rita Pavone, Che Guevara e Lupo Alberto, i Simpsons e inquietanti fantasmi....
Rappresentano miti del nostro tempo o una marmellata omologante che ci fa smarrire il senso autentico delle cose? Insomma, è anche questo "passione del vuoto"?
 

  Tutti questi personaggi... Lupo Alberto, i Simpsons, Rita Pavone... è strano per me vederli messi insieme così. Ma sì, hai ragione, sono icone della modernità, miti del nostro tempo, e servono alla narrativa come una sorta di "ancoraggio" all' esperienza diretta dei lettori, o meglio, alla loro esperienza attraverso la mitologia costruita dai media.
E quanto ai B movies... ma ti sei guardato intorno ultimamente? Scherzo (mica tanto...).
Sì, il titolo La passione del vuoto –, che è quello di un racconto del libro che tratta dell’ascesa e della caduta del despota poco illuminato Celso Pandolfini... nel 2030! – credo che esprima fedelmente il panorama generale del mondo dei paesi ricchi oggi, il loro sentimento prevalente, la loro singolare perversione: questo strano fascino per il nulla, la voglia di cartapesta che forse preannuncia la voglia di ceneri di cartapesta. Il nirvana mediatico raggiunto attraverso non la cancellazione dell’io, ma la cancellazione di tutto! L’ascesa attraverso la volgarità. La pedagogia dell’autocannibalismo. L’essere che si contorce e implode allegramente, per poi scomparire nel limbo digitale.
 

La tua scrittura presenta delle scelte stilistiche peculiari e modalità espressive non comuni per la narrativa italiana, come l'adozione di punti di vista insoliti o l'uso del dialogo in forma quasi cinematografica. Nel tuo caso, e più in generale per gli scrittori stranieri che scrivono in italiano, è possibile parlare di un significativo contributo per il rinnovamento della letteratura italiana?
 

    Ma non c’è bisogno di molto per rinnovare l’attuale letteratura italiana. O mi sbaglio?
Comunque, se pensi che ognuno di questi scrittori porta alla letteratura italiana non solo se stesso, ma anche tutta la tradizione letteraria e lo sviluppo dell’arte della letteratura del proprio paese d’origine... è sicuramente un apporto di una ricchezza incalcolabile, e gli effetti cominciano già a farsi sentire.
Qualcuno ha già detto, con ragione, che la letteratura “migrante” è la vera avanguardia della letteratura italiana nel XXI secolo. Ed è curioso che si riprenda nel caso proprio il concetto di “avanguardia”, così caro agli italiani per ragioni molto diverse.
Non c’è dubbio che si tratta di una potente, quasi traumatica scossa linguistica, tematica, filosofica, concettuale, etica e ideologica. Tanto è vero che non esiste tuttora in Italia una critica che metta insieme, dentro la stessa cornice di “letteratura italiana contemporanea”, gli scrittori “stanziali” e quelli “migranti”. O si scrive solo degli uni, o solo degli altri. Peggio ancora: anche i critici sono divisi in due gruppi incomunicabili, uno dedicato agli “stanziali” e l’altro ai “migranti”. Una sorta di schizofrenia che sfiora il patetico. Come se ci fossero due storie italiane parallele, simultanee ma reciprocamente invisibili, con degli scrittori che producono in dimensioni diverse. Roba da fantascienza. Forse la critica letteraria ha abbandonato il postmodernismo per adottare la teoria quantica? O forse nel suo ambito si ritrova una  sorta di "paura della contaminazione”  che rispecchia fedelmente la paura nell’ambito sociale? Una paura che è gestita – malissimo – proprio come fanno gli struzzi: con la testa dentro la sabbia. Negazione e rimozione sono le parole d’ordine, da un lato e dall’altro. Ma se è vero che le linee parallele si incontrano all’infinito... allora si può ancora sperare.
 

Quali sono i tuoi progetti letterari per l'immediato futuro?
 

    Il romanzo madrelingua (il titolo è scritto così, con la “m” minuscola, per non tradire l’intimità) è già pronto, e ora comincerò a trattare la sua pubblicazione con le case editrici  eventualmente interessate. Un altro romanzo, L’ultima pelle – che ho iniziato a scrivere in Brasile, in portoghese naturalmente, quindici anni fa, e ho finito in Toscana cinque anni fa – è appena stato tradotto, una bellissima e accurata traduzione di Antonello Piana, ed è anch’esso disponibile per le case editrici interessate.
Al momento sto lavorando a una nuova raccolta di racconti, El Carnal, che penso di finire nel 2004 (anche se il verbo “finire” ha un senso diverso per un libro di racconti o per un romanzo, perché una raccolta di racconti “finisce” quando sembra che una certa struttura, l’organizzazione dei testi all’interno del libro, sia armonica e trasmetta al lettore un senso di compiutezza; e questo può cambiare con l’aggiunta di nuovi racconti, oppure con gli stessi si può sperimentare un’ “architettura” diversa. Può essere bella con dodici racconti e altrettanto bella, ma diversa, con ventiquattro o trentasei racconti).
Allo stesso tempo, lungo gli anni, metto insieme una raccolta di poesie, il mio lato “certosino”. Per ora si chiama “Eclissare il Taj Mahal”. Come vedi, vivo proprio immerso nell’attività creativa, che è per me vocazione, divertimento, lavoro, avventura e sacerdozio. Ma ogni tanto ritorno in superficie per prendere una boccata d’aria e per osservare lo stato delle cose.


(Ferrara - Lucca, dicembre 2003)

 

   


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