CULTURE/Libri

15/05/2003
Parole di sabbia

Francesco Argento, Alberto Melandri, Paolo Trabucco (a cura di), Parole di sabbia, Edizioni Il Grappolo 2002, euro 10, pp.113


Ci sono parole che mentre le senti scivolare via, mentre le guardi scorrere e le pensi perdute, come la sabbia s'insinuano fra le pieghe della mente e, invisibili, restano, testimoni eccentriche di altro che il pensiero non aveva contemplato, come quando la pioggia deposita sulle città la sabbia del deserto.
Le parole della raccolta declinano in prosa e versi un «esilio del senso», «un altro modo di abitare il mondo»: sono parole migranti che traghettano il senso da un esilio all'altro nel perenne attraversamento dell'«eterno viaggio del ritorno verso di sé». Nella fatica delle frontiere attraversate, nel dolore delle parole trascinate lontano, seppellite dentro, nel cimitero del silenzio, tracciano linee sottili di storie invisibili, lasciano intravedere tenaci possibilità nuove di mondi possibili. Perché «da nessuna parte è il luogo».
E' un poeta statunitense, «il più importante poeta vivente d’America» secondo il Poet News, Jack Hirschman, espulso per la tenace opposizione alla guerra in Vietnam dall'università di Los Angeles, a raccontare i giorni sfatti di chi non ha luogo in nessun posto, di quelli costretti a essere «più miserabili dell'essere miserabile - schiacciati, benché la nostra lingua possa / sperare così profonda e piangere così piena di stelle», quando «la notte con le unghie / gridava contro il ferro / i graffiti di / moribondi rantoli da dentro / il forno».
Cantano la libertà dal «fardello di certezze, / visioni affrancate / da nascere / sul muso dell'aurora» i versi di Haward, erede della cultura nomade dei Ikazkazen (tuareg del Sahara centrale) che muove le parole al ritmo del movimento.
Poesia d'azione, scritta su bastoni di castagno, pulsione di respiro e sangue, è il Contributo alla creazione di un partito del ritmo di Serge Pey, originario dell'Occitania, figlio di profughi catalani rifugiati in Francia, perché «in una poesia si può sistemare / tutto il futuro / che si vorrebbe far esistere».
Un mendicante raccoglie nelle pagine, della brasiliana Christiane de Caldas Brito, parole abbandonate come monete da passanti distratti o perduti. E' il mendicante a ricercare e riscoprire suono e senso: le parole abusate le soppesa vuote, ingombranti, pompose, mute, le conserva paziente nell'attesa di suoni di senso che riempiano lo spazio del respiro di mareggiate, fogliami, assenze. Anche «lo straniero Mohamed» (nel secondo racconto della Brito) reinventa e riscopre una lingua nel suo italiano modulato sul ritmo di una melodia araba, prima di tuffarsi ad annegare nel fiume delle parole negate. E frontiere chiuse sono le labbra di chi si porta «un cimitero di parole dentro», perché l'esilio del senso è prima di tutto un esilio linguistico.
«Il soffio di vento che attraversa la steppa» riporta l'iracheno Yousif Latif Jaralla a ricongiungersi nel flusso dei fiumi del tempo alle terre lontane di voci che restano musica. Lo sradicamento subìto come una colpa, i ricordi portati a spalla, sacchi sempre più ingombranti man mano si allontana il punto di partenza, finché il tempo s'avvita e tutto finisce in uno specchio «e lo specchio in una bisaccia e la bisaccia su un cammello, e il cammello per la stanchezza o per l'età butterà quella bisaccia lungo il suo cammino in uno dei tanti deserti».
La voce dell'algerino Tahar Lamri scava nell'italiano, insegue nei dialetti (romagnolo, mantovano, veneto) scambi e resistenze in un pellegrinaggio attraverso l'eco in cui sopravvivono, sfumando gli uni negli altri, storie, sogni e ricordi.
Nella parola che «può sconfiggere la morte ma può anche darla» ricompone le lacerazioni dello sradicamento Kossi Komla-Ebri (Togo). Solo la ricomposizione di una nuova lingua, dove i suoni della nuova terra si modellano sulle forme della narrativa africana, scava un varco d'accesso alla comunicazione.
In bilico fra due mondi, nell'equilibrio incerto tra presente, rimpianto e nostalgia l'italo-argentina Sandra Ammendola cerca nel canto della memoria il senso della condizione perpetua dell'emigrare, dei perpetui confini.
Ma sono parole migranti anche quelle di Carmine Abate, che costruisce in versi una lingua possibile, un'identità perseguita e fondata sull'ibrido. Come ancora nella mescolanza Alberto Masala trova l'unica lingua di affermazione e liberazione.

Brevi schede in fondo al volume offrono informazioni su ognuno degli autori della raccolta. I curatori sono insegnanti di Lettere nelle scuole medie superiori e fanno parte del Cies (Centro informazione educazione allo sviluppo). Sono membri della redazione del sito Voci dal silenzio, che si occupa di letteratura della migrazione, e sono stati tra I promotori del primo convegno nazionale Culture della migrazione e scrittori migranti (Ferrara, 19 e 20 aprile 2002.

Su Yousif Latif Jaralla leggi anche «Il poeta non è qui». Intervista a Yousif Latif Jaralla, artista iracheno di Virginia Farina (*)
Su Kossi Komla-Ebri leggi: In questo mondo l’unico avventuriero è il migrante: intervista a Kossi Komla-Ebri, medico e scrittore di Sabatino Annecchiarico


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