Lo zio d’America
di Giuseppe De Santis

 Uno stuolo di parenti e amici l’accolsero, più bramosi d’un marito la sposa la prima notte di nozze. Come gazze ciarliere vanno a nido, erta la coda, gli si fecero innanzi più affamati d’una lupa coi lupacchiotti. E venne in tanta commozione, d’essere accolto in tanta affabilità, che fin gli occhi divennero piccini a sorridere, sbaciucchiare e salutare, e v’era più gusto d’essere a casa povero e in canna e non ricco e famoso in esilio.
    Ma…, povero e in canna, ad onor del vero, lo zio d’America proprio non era. Dopo più di sessant’anni di lavoro, dondolando il capo, un po’ di qua e un po’ di là, a riempire il vuoto d’una vita grama, s’era fatto un bel gruzzolo, d’averne a campare per un’altra vita. Che non abbiate a pensare male, lavoro onesto e probo, s’intende, come si suole tra pari in grado a patire il freddo, a fare la fame, a piangere lacrime amare, con le tasche vuote, nell’unico sollievo d’una amante di colore. Eh, già…! l’America!, per chi non ha vissuto in quei tempi duri, non è facile capire…! 
    Ma tutto passa per fortuna! E col tempo si dimentica ogni umiliazione, il dubbio che il mondo t’abbia in dispregio, gli anni irrepetibili del dolore. Restano i bei ricordi… con la morte. Al più s’inventano i casi, sovvengono certe attenzioni, ero benvoluto, per quanto orso, irsuto, scontroso e panzuto. Un velo di malinconia, come una nuvola il cielo, parve coprirgli gli occhi.
    Dai ricordi tornò presto al sorriso, spaurito, perduto, in quella folla che lo aveva accolto in gran festa. Non osava dir nulla, era felice di rivedere, nel tempo mutato, gli stessi volti, la stessa allegria, ch’aveva perduto nel vano dolore, nella vacuità della vita. Dal fondo del vicolo, nella sua vecchiezza, tutto gli parve immoto, fin le voci tacquero a perdersi nel buio.
    Di quei volti, però non riconobbe nessuno. Sì, aveva qualche foto ingiallita, sbiadita, d’una fanciulla che dissero sua nipote, ma dove ravvisare quel viso, in tanta lontananza?
    Ci restò davvero male a vederla così allampanata, peggio d’una cagna sgravata. Nel suo seno enorme, lunga e magra, piatta di posteriore, per trovare l’equilibrio, pendeva leggermente all’indietro, tutta in obliquo, che pareva un fenicottero. Riuscì perfino a versare due mezze lacrime e tremare per la commozione, ma nella sua premura si lisciava peggio di una ruffiana, fosse pure bigotta. Lo zio le sorrise in modo paterno.
    Ma sul punto di abbracciarla, un tale, parente alla lontana, furbo di tre cotte, invischiato in politica e in tante meschinità, che ve lo raccomando quello lì!, gli si fece appresso con tante fanfaluche, che allo zio sembrò quasi fargli torto non accettare la sua ospitalità.
    Furono due mesi di gentilezze e attenzioni che gli costarono una reprimenda e mezzo patrimonio! Come lo blandivano in quei giorni, uno dopo l’altro, a scorrere lieti, festosi, da credersi in paradiso. Fin la morte così sarebbe meno dura. Una tirata di pipa, una pennichella pomeridiana, un pediluvio serale, e per fortuna che non v’era più nulla da tirare, se no avrebbero continuato fino all’osso. Dissero, invece, ch’era molto attaccato al denaro.
    Mezzo patrimonio se n’andò così in parenti, e dell’altro mezzo beneficò la nipote, appena in tempo, ché lo zio poi ebbe a morire d’una indigestione di cotiche e fagioli. Povero vecchio!, una vita a lavorare! Fosse rimasto in America! Ma alla sorte non si comanda…!
    Così della nipote, sappiamo che non la finiva più d’atteggiarsi a gran signora. Non un giorno di lutto, s’imbellettava ognora con tanto d’ombretto e sciatteria paesana a levare il petto in su, a strizzare occhiolini, più scapestrata d’una giovinetta, più languida d’una femminetta. Le donne la canzonavano, gli uomini la stuzzicavano a compiacerla, ultima illusione, nella favola. La primavera intanto fioriva ad esalare i primi odori e a far nascere nuovi amori.
    E il miracolo avvenne, nella continuità che s’adempie a cercare un po’ di sollievo, ultimo barbaglio di giovinezza. Sarà stata la tenerezza dei suoi occhi o la sicurezza delle sue parole, d’un bel principe macedone, di quelli coi mustacchi tutti arricciati e cascanti, ella s’innamorò. Le sembrò di toccare le porte del cielo, di volare sulle nuvole, ché fu presa da tanto ardore da concedergli anema e core e… un pizzico di quella fortuna che, come è noto, non guasta mai. A ragione chi disse amore, disse dolce insania, piena di mille errori e tanta confusione. E così tira di qua e tira di là, ben presto nulla rimase da arraffare: il bel principe, da clandestino ch’era giunto per sbarcare il lunario, se ne ritornò ricco e consolato, ed ella restò sola e infelice.
    Dicono che sempre più allampanata corricchiasse su e giù per il paese senza tregua, senza respiro, più di una lupa smagrita che allattava, e a chi la fermava per via, digrignava i denti, traendo dal profondo del petto le foto del bel principe dai mustacchi tutti arricciati e cascanti che baciava e baciava…


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