Intervista a Kossi Komla-Ebri
A cura della Redazione

 Mal...d'Africa...Mal...d'Europa  

Una prima domanda un po' scontata: "Chi è Kossi Komla-Ebri?"

Sono nato in Togo nel 1954. Approdato in Italia nel 1974, mi sono laureato in medicina presso l’Università di Bologna per conseguire poi la specialità in Chirurgia a Milano. Sono sposato e ho due figli. Lavoro all’Ospedale di Erba (Co).
Ho vinto il primo premio per la narrativa alla terza edizione del concorso Eks&Tra nel 1997 col racconto “Quando attraverserò il fiume” e il quinto premio all’edizione del 1998, con il racconto “Mal di..”. Altri racconti: “Sognando una favola” “Vado a casa” “Le due scatole di fiammiferi” sono stati segnalati per la pubblicazione in diverse antologie.  Un mio saggio è stato pubblicato sulla rivista Lettere e sulla rivista Caffè e un racconto sulla rivista NarraSud e Sagarana.
Altre due opere sono state pubblicate nell’Antologia “La lingua strappata”- Leoncavallo Libri 1999. Ho nel cassetto poesie liriche, racconti e un romanzo- già tradotto in America- in cerca d’editore in Italia. Impegno il mio tempo libero in associazione come mediatore interculturale nel mondo della scuola e della sanità.
Nel 1999, mi sono candidato per le elezioni comunali di Erba in una lista civica e nel 2001 alle elezioni politiche con l’Ulivo.

Quali motivazioni ti hanno spinto a partecipare alle elezioni politiche come candidato dell'Ulivo?

Ho accettato d’essere  il candidato dell'Ulivo per la Camera sul Collegio di Erba (roccaforte leghista) anche se per molti i tempi non erano maturi, pur sapendo che  la vittoria era improbabile. Questo per alcuni era una debolezza allorché per me  era proprio lì la sua forza. Sfidare, osare anticipare la storia, buttare il sasso nella palude delle belle intenzioni e rugare lo specchio dello stagno di coloro che ci considerano solo come mano d'opera "usa e getta"o criminali, oppure come  oggetti da assistere per ergerci per quello che siamo: dei soggetti politici  che certo ora non portano consenso ma che si considerano parte intera di questa società in cui possono iniettare la linfa vitale nutrita dalla valorizzazione delle differenze.
Ho accettato la proposta di candidarmi, perché credo che tutto questo va al di là della mia persona anche se i numeri mi erano contrari. La battaglia non si vince solo con i numeri, ma con la voce dell'anima serena e gentile, ferma nei principi e nei valori. Credo che su questo territorio, la mia candidatura è stata "profetica" in quanto ha saputo creare una barriera forte e punti di riferimento certi per chi vuol vedere oltre i pregiudizi, scovando le aporie della vergogna ed evidenziare le ragioni del far vivere bene chi ci sta di fronte, dentro e fuori di noi.  La battaglia è stata ardua non tanto per lo scoglio dei numeri, (la cosa mi preoccupava poco) quanto per la difficoltà di trovare le parole giuste, il metodo adeguato, per creare il clima giusto per consentire ai colori dell'arcobaleno di essere visti.
Nonostante i risultati, pur sempre onorevoli (33%), so che il messaggio è passato: sta germogliando a fatica una nuova concezione di politica e di cittadinanza attiva, unica via verso l'integrazione. La mia candidatura è stato un simbolo evidente per dare visibilità ad una nuova idea di cittadinanza dove l'integrazione, intesa come interazione d’integrità, è basata sulla pari opportunità e sulla condivisione di valori e in particolare di valori costituzionali. In questa, di fatto, società cosmopolita che fatica a declinarsi al plurale, la piattaforma dei valori per una giusta convivenza non potrà essere definita solo dai nativi.
Urge una civile riconoscenza del diritto d'asilo, da integrare alle norme sull'immigrazione, e diritto di voto alle amministrative per avviare concretamente una vera integrazione che non sia assimilazione o ghettizzazione. Urgono spazi per l’incontro, il dialogo e la conoscenza. Urge lo spazio virtuale della dilatazione dei cuori per accettare l’altro ed accoglierlo oltre la diversità.
“L’utopia dell’accettare l’altro- non benché diverso- ma perché tale”
Coloro che hanno votato per me sono andati oltre il colore della mia pelle e questo è già una gran vittoria.

Tu svolgi diverse attività: medico, mediatore interculturale, operatore culturale. Quale ruolo ha la scrittura nella tua vita? Che cosa significa per te scrivere?

La scrittura ha su di me una funzione taumaturgica: mi aiuta a sconfiggere la nostalgia. Essa rimane innanzitutto un atto vitale, un modo per affermare che esisto, che “ci sono” oltre ad essere una necessità, un bisogno di comunicare con gli altri.  Nipotino di una cultura orale, mi piace raccontare, suscitare emozioni, fare sognare… partendo da ciò che accomuna ogni essere umano: dalla difficoltà di vivere, dall’amore, dalle illusioni, dal vissuto quotidiano. Scrivere poi mi dà l’opportunità di vivermi in diversi modi, (anche al femminile) esprimendo sensazioni che non potrei esternane altrimenti. La scrittura mi concede la libertà di esprimere ciò che voglio dire senza che ci sia qualcuno pronto ad interrompere per obbiettare, dissentire, contraddire, concordare, affermare, consigliare, con una risposta già pronta. Scrivere mi  libera.

Nella tue opere l'Africa è una presenza costante. Qual è il rapporto con la tua cultura d'origine?

L’Africa è una presenza costante perché si tende a scrivere innanzitutto su ciò che si conosce, che si sente di più e che ci sta a cuore. Benché il mio rapporto con la mia cultura d’origine è un misto d’amore e odio, la mia scrittura non poteva non affondarci le radici. Cerco di farne conoscere i valori denudando e criticandone anche i disvalori.  Eterno esiliato, incastrato nella morsa di due culture cerco di essere un ponte: un mediatore. Credo di aver conservato il valore dell’oralità nella mia scrittura anche se la parola implica l’ascolto, la partecipazione ed è difficile trasmettere in scrittura il tono della voce, l’intonazione o la creatività spontanea.

              

La letteratura della migrazione oggi interessa quasi esclusivamente l'antropologia culturale, la sociologia, la pedagogia interculturale o un ristretto gruppo di studiosi legati all'attività universitaria. Eppure, in questi ultimi anni sono state pubblicate, anche da case editrici importanti, opere di un certo spessore letterario. Penso ai romanzi di Jarmila Očkayovà, Jadelin Gangbo, Carmine Abate. Come spieghi questa resistenza del mondo editoriale italiano?

Questa resistenza è legata fondamentalmente a due ragioni: un’economica concezione della cultura come bene di consumo e l’altra è certamente una scelta culturale e politica.Da un punto di vista economico: il libro per la grande editoria è un prodotto da vendere e che deve rendere. C’è un mercato per la letteratura della migrazione per cui vale la pena d’investirci? Sì, se la merce ha “un certo spessore letterario”. In questi casi, per fortuna, chi ha talento davvero, prima o poi emerge: vedi Gezim, Melliti, Jarmila, Jadelin ecc…
Per quanto riguarda il versante culturale è innegabile che vi è un certo “razzismo culturale” nel non considerare le opere degli autori migranti come facente parte della letteratura. E’ questo un pregiudizio da abbattere perché crea ghettizzazione. Sono fiducioso che le cose cambieranno con la determinazione di studiosi come Gnisci, il paziente lavoro di promozione con concorsi come quello dell’associazione Eks&Tra o la vostra. Purtroppo da un punto di vista politico non vi è sufficiente volontà per investire in progetti interculturali.Credo perciò che sia ora per gli scrittori migranti stessi di organizzarsi per autopromuoversi, magari con una loro casa editrice. Per il resto, la qualità e il tempo aggiusteranno ogni cosa: “pian piano maturano le banane”.

Qual è stato il tuo rapporto con le case editrici?

Il concorso Eks&Tra mi ha dato l’opportunità di pubblicare alcuni racconti con la coraggiosa casa editrice Fara, con l’Adn Kronos Libri e il Leoncavallo. Quando mi sono rivolto col mio romanzo alla grand’editoria mi sono dovuto accontentare di lusinghieri apprezzamenti che si concludevano con l’inevitabile: all’ora attuale la sua opera non entra nella nostra linea editoriale….
Ad onore di verità devo ammettere che è un ostacolo comune a tutti gli aspiranti scrittori siano essi italiani o stranieri.
Ho fatto dei tentativi con piccoli editori, ma essi chiedono la copertura delle spese (se va bene) ed anche qualcosa di più per la pubblicazione ma hanno scarse risorse ed interesse a "sperperare" energie per la diffusione: in fondo hanno già raggiunto il rientro di bilancio con la pubblicazione. Come non sento l’esigenza di pubblicare un libro per vile vanità o per regalarlo ad una cerchia di amici non mi sono mai lanciato in simili avventure. 
Credo invece nel tentativo d’autopromozione da parte degli scrittori migranti in una casa editrice propria a patto che non diventi un altro ghetto.

In un tuo intervento all'Università di Castellanza hai affermato che "la conoscenza presuppone l'incontro con se stesso e più generalmente con l'altro - il diverso da sé -, oggetto e soggetto della conoscenza. La letteratura, e in particolare quella della migrazione, permette di creare quello spazio virtuale all'incontro. Potresti approfondire questo concetto?

  Qualunque incontro necessita di un luogo, di uno spazio.  La letteratura e in particolare quella della migrazione, permette di creare quello spazio virtuale all’incontro. La scelta di scrivere in italiano nasce dal bisogno di comunicare, di farsi conoscere dai nativi e nessuno meglio del migrante può aprire la finestra sugli usi e costumi della sua terra d’origine. Egli diventa così un testimone della sua cultura. Descrivendo le proprie esperienze, valori, umanità egli sminuzza immagini e luoghi comuni. La sua scrittura diventa così lo spazio virtuale alla conoscenza e all’educazione alla differenza perché permette al lettore di immergersi in altri mondi e modi di vivere: una via d’uscita dall’etnocentrismo delle “culture superiori”. Infatti, descrivendo e fotografando in tempo reale la società ospitante, lo scrittore migrante riveste un ruolo antropologico nuovo: il “selvaggio” scruta e descrive i suoi “civilizzatori”. Così facendo, egli mette in crisi la sua identità e quella altrui nel confronto con la diversità, diventando non solo strumento ma percorso alla conoscenza.
La letteratura della migrazione non si limita ad essere uno strumento di conoscenza degli e per gli altri ma è anche conoscenza di sé stessi. La nostra identità non è un fenomeno statico, essa si sviluppa in modo dinamico e si afferma nello scambio e nell’incontro con l’altro. La nostra identità è un percorso continuo.
Nella sua fase iniziale autobiografica e “testimoniale”, questa letteratura si tramuta anche in un’osservazione e approfondimento nel labirinto del proprio vissuto e ricordi, alla ricerca di se stesso, della propria identità. Nella misura in cui l’esperienza traumatica, sradicante della migrazione porta l’intellettuale in un limbo del “non più e non ancora”, in un sandwich di cultura, alla ricerca di un equilibrio in uno spazio interiore d’instabilità culturale oltre che emotiva. La scrittura della migrazione è una letteratura impegnata nel “tempo”. Scrivere allora significa ricostruire sé-stesso per inserirsi nei parametri di “qui ed ora” come in un atto di auto-legittimazione per fare nascere quell’individuo nuovo che si autopercepisce, per urlare la propria verità. Lo scrittore immigrato cerca di agguantare e stabilizzare un io nella sua identità culturale sparsa, composta da un “qui” italiano e di un “altrove” africano - sud americano, albanese ecc...
L’uso che egli fa della nuova lingua intrecciata ad espressioni e forme di pensieri venute “d’altrove” gli permette di creare un altro spazio d’incontro, uno spazio linguistico “nuovo” con un linguaggio ibrido che apre la via ad altre nuove sensazioni ed altre percezioni e conoscenze: la soglia di una civiltà “meticcia” del dialogo.

Un tuo racconto (Mal di…) si chiude con il ritorno in Africa della protagonista, dopo un'esperienza in Italia, e con una considerazione significativa: "Ah l'Italia! Pensare che in Italia, volevo tornare a casa! Ormai mi sento come inquilina di due patrie: a volte ne sono felice, a volte mi sento un po' dimezzata, un po' squilibrata, come se una parte di me fosse rimasta là, eppure lo so che lì avrei di nuovo il mal d'Africa.
Forse la mia è nostalgia, o semplicemente mal di… mal d'Europa".
Questa conclusione potrebbe essere letta come metafora della condizione dei migranti, "sradicati" nella terra che li ospita e "stranieri" in patria? 

Sì! Il migrante, colui che parte, frantuma tempo e affetti.
Salpando egli rompe con la sua terra, i suoi paesaggi, l’aria, gli odori, i profumi, i colori, i rumori, i suoni famigliari. Egli si porta a tracollo d’anima, un brandello della sua vita condito con l’acidulo fardello della nostalgia.
Colui che parte, si allontana convinto di lasciare dietro di sé un vuoto, uno spazio accerchiato e paralizzato, fisso lì nel tempo. Gli altri, asciugate le lacrime, continuano a vivere e lo cancellano o meglio si dilatano per occupare il suo posto. Ė come se uscisse dalla fila, e in un attimo loro si stringono e quel suo spazio non esiste più.
Colui che parte, va ad affrontare, a vivere un’altra vita. Egli, sotto altri cieli, entra nei panni di un altro personaggio, accede su un altro palcoscenico per interpretare un altro se stesso in un nuovo contesto: altro clima, altro paesaggio, altre conoscenze, altri affetti, altri suoni, odori, rumori, altri ritmi.
Fuori dal suo ambiente egli coltiva nel suo cuore, in un angolo della sua anima, la malinconia dei luoghi della sua infanzia: la saudade, la burka. Egli non sa ancora quanto ha sbriciolato irrimediabilmente la sua vita. Sotto altri cieli, cuore esiliato, egli affronterà, la diffidenza, la solitudine, l’umiliazione, la fame, la fatica attraversando i giorni del non essere come un pellegrino, in corsa verso chissà quale metà, senza fermarsi a gustare l’attimo presente nel miraggio sempre rimandato di un improbabile ritorno “a casa”, senza fermarsi mai a “vivere” davvero in terra straniera. Egli cova in sé, costeggiando, sfiorando il presente come un’ombra, nella mente e nello scrigno della memoria quelle schegge del passato come congelate lì nello spazio –tempo immutabile della memoria. Ricordi meravigliosi e amplificati. Egli non si accorge nemmeno che questo “spazio-tempo-presente”, che lo cambia, lo forgia innevando i capelli e fa dolorare le giunture è parte di vita, è la “sua vita non vissuta” che sfugge e non tornerà mai più.
Colui che parte vive nella visione del “ritorno”. Il ritorno, pensiero soffocato e soffocante condito di lacrime represse e di sospiri profondi. Il ritorno mille volte sognato, un film mille volte riavvolto, girato con protagonisti e comparse differenti, una sceneggiatura da fotoromanzo mille volte ritoccata, ma con unico attore principale: “Lui” stesso. La lettera d’annuncio, i bagagli, i regali da scegliere, la tensione dell’attesa, il vestito giusto -quello del successo-: segno tangibile della realizzazione del progetto migratorio. L’addio ai nuovi amici: ancora un “lasciare”. Poi il volo interminabile dell’aereo, l’arrivo, il caldo, l’ebbrezza degli abbracci, la gioia frizzante, il sudare, la sete, l’aria tiepida rimescolata dalle pale cigolanti e arrugginite d’un singhiozzante ventilatore. L’assalto ai regali, l’inevitabile questua. Poi lo informano, gli raccontano ed egli si accorge che la sua memoria è una giungla popolata di persone scomparse. Scopre dolorosamente, con una subdola fitta di gelosia e delusione che “loro” hanno continuato a vivere senza di lui e il suo posto, come un campo abbandonato, trascurato dal proprietario, è stato invaso da altri. I fratelli, sorelle e cugini sono cresciuti: li aveva custoditi piccoli nella sua “memoria d’isola che non c’è”.Addirittura qualcuno si è sposato e gli presenta moglie e nuova parentela. Sono nati bambini che lo guardano giustamente incuriositi…come si guarda ad un estraneo…già!
Quello che rode non è il pensiero che lo abbiano dimenticato. No, quello che brucia è accorgersi che mentre rimuginava e si nutriva per anni, giorno e notte di pensieri nostalgici, loro hanno continuato a vivere, normalmente senza di lui, come se non esistesse… come se fosse… morto. In terra straniera per definizione non esiste: è il Sig. nessuno. Lì neanche esiste più. Tutti chiedono dei suoi soldi ma nessuno chiede di lui. Il suo sospirato trionfo ha il gusto amaro di una sconfitta. Nessuno gli chiede: “Allora racconta!”. Quasi come se tutto quel soffrire fosse stato inutile. Tutte quelle esperienze vissute: vane. Incontrerà quello che dopo tutti questi anni lo scruterà intensamente per poi concludere: sei ingrassato! Come se fosse quella la cosa più importante, l’unico suo problema, l’unica battaglia che avrebbe dovuto o che ha dovuto combattere. Come ha vissuto in questi anni, tutto quello che ha potuto vedere, quelle ferite laceranti, quelle cicatrici che si porta dentro l’anima non importano a nessuno: anzi lui è stato privilegiato e fortunato. Vorrebbe urlare la sua rabbia repressa, fargli toccare le rughe della sua pelle avida di carezze, fargli sentire il peso della sua testa piena, stanca e desiderosa di una spalla accogliente, riposante. Vorrebbe squarciarsi il petto per esporre quel suo cuore ispido e inaridito dalla calura della lontananza. Nessuno gli chiede: “Allora com’è andata?”. Nessuno si stupisce dei suoi occhi spenti, prosciugati e dei suoi lunghi silenzi.
Ritorno agognato, sognato e temuto allo stesso momento. Temuto anche perché egli sa che è solo una parentesi e che dovrà ritornare in dietro. Tre - quattro settimane che inizialmente sembrano durare un’eternità, stretto da una strana ed ambigua nostalgia della terra straniera, che suo malgrado ha scavato stigmate agli angoli della sua coscienza, rivestendolo di nuove abitudini –si fa presto ad abituarsi all’agiatezza- che gli rendono difficile riadattarsi.  Poi mano a mano che si avvicinerà il momento di partire sarà assalito di nuovo dall’angoscia dell’abbandono, di perdere l’anonimato che si era riconquistato: essere uno come tanti in mezzo alla sua gente.
Colui che parte non appartiene più a nessun luogo. E’ figlio dell’utopia. Diventa come quelle anime vaganti insoddisfatte e smaniose alla costante ricerca dell’introvabile: un posto dove sentirsi pienamente “a casa”. 
Solo se riesce ad assumersi in quello spazio critico d’identità traversa e a coniugare passato e presente dando coerenza alla sua molteplicità identitaria, egli potrà gustare la ricchezza di essere diventato cittadino del mondo.


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