Recensioni
Café
letterario, 6 settembre 2002
Kossi
Komla-Ebri
Imbarazzismi
Quotidiani
imbarazzi in bianco e nero
Un
giorno, in classe, durante un incontro sull'interculturalismo, chiesi ai
ragazzi di darmi una definizione del termine "razzismo".
Subito, il più sveglio esclamò:
"Il razzista è il bianco che non ama il nero!"
"Bene!" dissi. "E il nero che non ama il bianco?"
Mi guardarono tutti stupiti ed increduli con l'espressione tipo:
"Come può un nero permettersi di non amare un bianco?"
Si
leggono in meno di un'ora ma fanno pensare per tanto, tanto tempo. Perché
gli "imbarazzi quotidiani" che qui vengono ritratti non
coinvolgono tanto i razzisti convinti, quanto la maggioranza di noi
italiani "brava gente", ben disposti verso gli altri,
volenterosi, pronti a simpatizzare con lo straniero, eppure, in fondo in
fondo, provinciali, spesso ignoranti, fondamentalmente razzisti.
Kossi Komla-Ebri, medico italo-togolese, nato in Togo ma in Italia dal
1974, racconta episodi spassosi capitati alla sua famiglia e ai suoi
amici: scene di vita quotidiana ambientate nei nostri ospedali, negli
uffici pubblici, nei treni locali, nelle cartolerie, ai giardinetti...
Episodi apparentemente insignificanti, parole dette senza pensare,
talvolta senza aver "collegato il cervello", insomma...
situazioni imbarazzanti proposte con leggerezza e senso dell'umorismo.
Ecco allora un giovane togolese, sposato con un'italiana, che passeggia
nei giardini pubblici con i due figlioletti e un'anziana signora che,
con amorevole compassione, afferma: "Oh, por diavul, ga tucà fa ul
baby-sitter!". Perché, certo, quel giovane non può essere il
padre dei due bimbi. Identica è la compassione che caratterizza la
lezione di geografia che l'autore è costretto a sorbirsi nello
scompartimento di un treno locale: "Tu da che paese Africa
venire?" (...) "Ah Togo! Nel tuo dialetto forse dire
"Togo", ma noi in italiano dire "Congo". Tu capire?
Congo!".
Ma c'è anche il signore sulla cinquantina che, incrociando Komla-Ebri
con due carrelli davanti al supermercato, emette un fastidioso "ssst"
e schioccando le dita gli fa cenno di sistemare anche il suo carrello.
Evidentemente ha fatto la somma "negro + carrelli = povero
extra-comunitario che sbarca il lunario".
E poi c'è Gratus che, uscito da scuola, cerca di comprare un quaderno
in una cartoleria e viene bloccato dal commerciante, affetto da
"sindrome da vù-comprà", con un frettoloso "No, grazie,
non compriamo niente!".
Ma se gli italiani non fanno una bella figura, stessa sorte capita anche
ai nostri vicini europei. Basti citare l'amico tedesco che si dice avido
di conoscere altre culture e, dopo pochi giorni di vacanza africana,
chiede nervosamente all'autore: "Ma perché camminate così e fate
tutto con tanta lentezza? Perdete troppo tempo! Perché mangiate tutti
assieme nello stesso piatto? Non è igienico!". A niente valgono le
spiegazioni di Kossi che quello è, appunto, il loro modo di
camminare e di mangiare, e che non accettarlo significa non accettare la
sua cultura.
Bella figura fa anche il "professore di fede
liberista-avanguardista" che più volte invita Kossi a passare il
fine settimana con la sua famiglia: non riesce "proprio a capire
come fa la gente ad essere razzista" ma, all'ipotesi di uno sposo
togolese per la figlia, risponde con un imbarazzato: "Beh... questa
è un'altra cosa!".
Imbarazzismi. Quotidiani imbarazzi in bianco e nero di Kossi
Komla-Ebri
63 pag. Euro 6.20 - Edizioni Dell'Arco-Marna
ISBN 88-7203-174-5
Le prime
righe
1
"Bel negro, vuoi guadagnarti 500 lire?"
Un giorno uscivo dal supermercato con mia
moglie, che è un'italiana. Avevamo fatto tanta spesa da riempire due
carrelli. Dopo aver caricato il tutto nel portabagagli della macchina,
mia moglie mi spinse i due carrelli da riportare per recuperare le due
500 lire.
M'incamminavo con i miei due carrelli, quando sentii dietro le spalle un
"ssst!" accompagnato da uno schioccare di dita. Mi girai e
vidi un signore sulla cinquantina farmi segno con l'indice di
avvicinarmi, ed abbozzare il gesto di spingere il suo carrello verso di
me. Lo guardai con un'espressione che mia moglie descrisse poi come
carica di lampi e fulmini.
Comunque il mio sguardo doveva essere stato eloquente, perché lo vidi
trattenersi il suo carrello e portarselo per conto suo.
Senz'altro, visto il colore della mia pelle e il gesto d'affido dei
carrelli da parte della mia signora, il "sciur" aveva fatto la
somma deduttiva: negro + carrelli = povero extracomunitario che sbarca
il lunario.
Tornando alla macchina, vidi la mia dolce metà, che conoscendo la mia
permalosità, si contorceva dalle risate. Mi misi poi a ridere anch'io.
Ora ogni volta che andiamo a fare la spesa, lei mi spinge, ammiccando,
il carrello con voce scherzosa: "Ehi bel negro, vuoi guadagnarti
500 lire?"
© 2002 Gruppo Solidarietà Come/Edizioni dell'Arco
In coedizione con:
In coedizione con: Marna Edizioni
Casa
della cultura
La
banalità del razzismo
Intervista a Kossi Komla-Ebri
di Agnese Bertello
Siamo
razzisti? Sì? No? No, se ci basiamo sugli episodi di violenza a
sfondo razzista che ci riporta la cronaca; sempre sporadici,
sempre ad opera di gruppetti più o meno noti di xenofobi. Con
Kossi Komla-Ebri, medico originario del Togo e scrittore, parliamo
del razzismo strisciante e misconosciuto che si manifesta nel
nostro modo di parlare, nell'ignoranza che ci impedisce di vedere
veramente chi abbiamo di fronte senza ricorrere agli stereotipi
tipo vùcumpra o watusso, nei gesti e nelle smorfie in
metropolitana. Un tipo di razzismo persino più pericoloso.
Intanto volevo
chiederle di raccontarmi un po' la sua storia…
Sono
originario del Togo. Approdato in Italia nel '74 per compiere i
miei studi di Medicina all'Università di Bologna dove mi sono
laureato per venire poi a fare la specializzazione in Chirurgia
Generale a Milano. Sono finito ad Erba nell'82 perché l'ospedale
cittadino è gestito dall'Ordine dei Fatebenefratelli che hanno un
ospedale nel mio paese dove ho lavorato due anni. Sono sposato e
ho due figli, lavoro all'ospedale di Erba e mi piace scrivere.
Alcuni miei racconti sono stati premiati al concorso Eks&Tra
di Rimini e pubblicati in varie antologie, altri su quotidiani e
riviste. Un mio romanzo (Neyla) scritto in italiano - purtroppo
non ancora pubblicato in Italia - è stato tradotto in America
dove vi è una maggiore attenzione alla letteratura della
migrazione e verrà pubblicato entro la fine dell'anno. Il mio
impegno in associazioni di mediazione interculturale e la mia fede
in un futuro d'integrazione in questo paese - quando i migranti
passeranno da un ruolo di "oggetti di attenzione" a
"soggetti politici"- mi hanno portato a candidarmi per
l'Ulivo alle ultime elezioni politiche per dare visibilità ad un
nuovo concetto di cittadinanza.
Ho avuto l'opportunità di vivere in Francia. La Francia, come
metropoli colonizzatrice è stata svezzata da anni nel confronto
con "la gente di colore" così come il Belgio, l'Olanda
e l'Inghilterra. Lì il razzismo, quando c'è, si manifesta
chiaramente, non subdolamente. In Italia dove sembra che non ci
sia, in realtà si presenta sotto forme di razzismo latente spesso
inconsce al riparo di paternalismi, di caritatevoli
accondiscendenze Gli
episodi che lei riporta nel suo libro stupiscono per la loro
banalità, come se fossero momenti in cui il cervello
dell'interlocutore si è spento, in cui si è lasciato andare a un
modo di vivere e sentire così comune, da essere entrato ormai
perfino nel nostro linguaggio. Anche persone che non si
definiscono razziste e che non sono razziste possono
"inciampare" in situazioni o espressioni di questo tipo.
Non c'è violenza fisica, ma spesso cattiveria, o indelicatezza, o
ignoranza o pressappochismo. Qual è il livello di pericolosità?
E come fare a decostruire questo meccanismo?
La
pericolosità sta sia nella latenza del fenomeno che nella
tendenza a volerlo banalizzare dandogli in qualche modo una
giustificazione. Il nostro linguaggio non può essere neutro
sopratutto in una società di fatto multietnica e speriamo con un
divenire interculturale. Il linguaggio inevitabilmente ha potere
escludente o includente. Basta pensare a quella parolaccia di
"extracomunitario" che non ci identifica per quello che
siamo ma vuole sottolineare a tutti i costi quello che non siamo
cioè ospiti non graditi. Vi è una pesante responsabilità nella
deriva dei media che porta oggi a coniugare clandestinità con
criminalità. Non parliamo poi del linguaggio non verbale (ad
esempio la "sciura" che nel metro si stringe la borsetta
al fianco appena ti vede salire). La banalizzazione diventa
pericolosa perché crea un terreno fertile al virus del razzismo
che dalla naturale diffidenza al confronto del "diverso da sé"
cresce in intolleranza per sbocciare in vero razzismo.
Quanto
è faticoso resistere a certi stereotipi, confrontarsi
quotidianamente con loro e ribadire il proprio diritto ad essere
considerato per quello che si è?
È faticoso sopratutto per chi non ha un ruolo sociale
rimarchevole o riconosciuto come tale. Un certo
"classismo" legato al livello sociale esiste di per sé.
Si è stranamente più razzisti o paternalisti nei confronti di un
venditore ambulante che verso un cantante, un calciatore,
un'indossatrice famoso o un medico. Ho potuto notare che il mio
camice bianco è uno scudo protettore: in qualche modo mi rende più...
bianco.
Mi
pare che spesso sappiate trovare l'ironia o il sarcasmo giusto per
mettere a bada questo tipo di comportamenti (almeno, appunto,
negli episodi che lei riporta), ma quanto costa?
È
faticoso specchiarsi costantemente come "diverso" nel
linguaggio e nello sguardo altrui. L'ironia, il ridere è un
antidoto efficace. La risata accende luce nel buio. Ma non sempre
si è "in vena" allora diventa davvero faticoso. Si
corre il rischio poi di diventare eterni permalosi, peggio
rinchiudersi, diventare aggressivi e... razzisti. Una forma di
razzismo anti razzismo anche se l' etnocentrismo porta taluni a
stupirsi del fatto che un negro possa non amare un bianco...
Geneviève Makaping, chiude il suo libro "Traiettorie di sguardi"
con questa frase: "Il punto, e mi sfiora un sorriso, è che
io non so perché la pigmentazione della mia pelle è così,
malgrado sappia esattamente la ragione per la quale sono diventata
nera". Makaping rivendica il diritto di farsi chiamare
"negra" e non "donna di colore" e tanto meno
"extracomunitaria", litigando anche con chi si rifiuta
di farlo (usare il termine negra ci ricorda in maniera troppo
forte le nostre responsabilità, le nostre colpe).
Provocatoriamente sostiene di voler essere la coscienza nera
dell'uomo bianco. Condivide questo pensiero?
Capisco
il pensiero di Makaping ma la condivido solo parzialmente. Lo
capisco nel senso che credo che un vero processo di integrazione
(la parola detta così non mi piace) non potrà avvenire senza un
minimo di conflitto e un certo grado di decostruzione anche
verbale. Ma la vera decostruzione deve essere interiore. Bisogna
più che sulle parole, invitare la gente a creare dentro di sé lo
spazio virtuale per accogliere "l'altro", "il
diverso da sé" oltre agli spazi concreti per l'incontro e il
dialogo che possono portare ad una vera conoscenza e reciproco
rispetto. Solo la conoscenza fa capire che l'alterità è
opportunità di ricchezza. La mia poetica è per l'Uomo, il
disperatamente umano. La rivendicazione di una "negritrudine"
seppure taumaturgica ad una crisi- ricerca d'identità porta ad
erigere nuove barriere e ad esasperare vecchi conflitti che non
giovano ad un processo di interazione di integrità su una
piattaforma di valori condivisi, valori universali: quelli della
persona, dell'Uomo punto e basta.
Casa
della cultura
Kossi Komla-Ebrizismi
- quotidiani imbarazzi in bianco e nero
Il
razzismo non si manifesta soltanto con gesti e frasi violente, con
aggressioni solitarie o in gruppo. C'è un razzismo sotterraneo, un
razzismo che si nasconde tra le pieghe del linguaggio, dei modi di dire,
della banalità del quotidiano.
Kossi Komla-Ebri - originario del Togo, in Italia dal 1972, medico
all'ospedale di Erba, sposato con una donna italiana e padre di due
figli - raccoglie in questo sottile libretto situazioni, gesti, sguardi,
frasi di un razzismo che fa male per la sua banalità. La reazione
immediata è dire "ma è solo una battuta", "ma sì ormai
è un'espressione comune": niente di più vero, purtroppo. La
banalità del razzismo è proprio questa: incontrare un nero in spiaggia
che stende il suo asciugamano e chiedergli se ha delle collanine;
stringersi la borsetta la petto quando sale un immigrato in
metropolitana, usare solo verbi all'infinito quando si parla con loro,
chiamare vucumpra o watusso chiunque abbia la pelle scura…
Imbarazzismi ci mette finalmente davanti allo specchio nella nostra
quotidiana e banale incapacità di vedere l'altro per quello che è.
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