Ogni volta che abbiamo a che fare con testi che ci vengono dinanzi come
letterari rivolgiamo loro un'attenzione critica (filologia, ermeneutica,
ideologica) quando li consideriamo e li valutiamo dal punto di vista linguistico
e/o da quello estetico. Ciò accade perché sappiamo da molto tempo in Europa
che la così detta pratica letteraria mette la lingua alla prova estrema della
sua capacità di narrare e di quella di esplorare le possibilità della
creazione poetica: quello che possiamo chiamare la lingua dell'altrove,
l'allegoria, che si impossessa, da sola, avanguardia di se stessa, della
frontiera della lingua della comunicazione e di quella della tradizione
letteraria per mescolarle imprevedibilmente con quelle del senso, lì dove
codesto porta in gioco - in verità ha le carte in mano fin da prima di
distribuirle - la questione del valore dell'opera e quella del giudizio di
gusto: l'accrescimento del liberamente umano che l'opera ha, o non ha,
incrementato in noi, i pensieri propri e nuovi che ha generato nella nostra
mente-vita; e come ciò sia avvenuto e come sia possibile - senza separare i due
come! e senza separarli dall'esperienza che li ha generati - e, infine, verso
dove questa esperienza ci porti.
Su quest'ultimo argomento, quando si ha a che fare, come da qualche anno accade
in Italia, con i testi scritti dai nuovi migranti nella tradizione letteraria di
Dante e di Calvino, ho già detto la mia nello scritto precedente. Ora voglio
affrontare la sua questione della lingua, che sembra avere già una propria
storia. Prima di risalirla criticamente, però, dichiaro di affrontare tale
questione dal cammino di azione - o nel corso della poetica - di chi, come me,
è e opera in quanto scelto come 'primo lettore' dagli scrittori migranti e che
può diventare editore dei loro testi, sia nel senso di saperne accudire la
scrittura, sia, a volte, anche nel senso poterne di promuovere la stampa o la
pubblicazione elettronica.
La prima forma della conoscenza è proprio quella storiografica: la letteratura
italiana della migrazione è stata fin dall'inizio pubblicata – edita e
commercializzata in forma stampata – venendo sottoposta dalla nostra industria
editoriale a una pesante e forzata normalizzazione linguistica, ammessa
esplicitamente con la formula di copertina del doppio scrittore-autore:
italiano&immigrato (esempio classico: Mario Fortunato e Salah Methnani,
Immigrato, 1990). Anche se nel corso degli anni l'etichetta della coppia di
autori è stata abbandonata da parte delle case editrici, non è stata
sicuramente abbandonata la pratica del controllo e dell'azione normalizzante di
tipo linguistico, anzi è diventata una prassi necessaria, nefasta e
assolutamente incontrollabile da parte del pubblico e del critico. È, appunto,
diventata l'abitudine dell'editing blindato di fabbricazione. Quei pochi
osservatori e lettori attenti della nuova letteratura italiana dei migranti che
si aspettavano un rinnovamento della lingua letteraria italiana da parte di
questi scrittori 'stranieri' si sono trovati di fronte a testi 'deviati' e
appiattiti su un registro linguistico che potremmo definire regolare e neutro,
schiacciato su di una norma di neutralità e 'facilità' che è esattamente
l'opposto – ma secondario e artificiale – della creolizzazione. Gli
scrittori migranti sono stati ridotti in questo modo a rappresentare la parte
dei 'testimoni' innocui e ingenui della storia penosa della stessa migrazione,
degli scrittori quasi-infantili e per un pubblico di 'ragazzi mentali': una
doppia movenza quasi-razzista, sia verso i migranti che verso il pubblico
italiano, direi, ma che si può vedere anche come una blanda e tutto sommato
fruttuosa (e se fosse efferata e impietosa') forma culturale della così detta
integrazione degli stranieri nella civiltà italiana (si può chiamare questo
punto di vista: di centro-sinistra, riformista europeo ecc., alla
Rutelli-D'Alema, insomma).
La malversazione non si è fermata a questo stadio, anzi il peggio è stato che
tale pratica normalizzatrice-integratrice della industria culturale italiana ha
finito con il condizionare gli stessi scrittori fino all'inquinamento delle
scaturigini del loro stesso voler scrivere e del loro laboratorio creativo. A
me, infatti, arrivano spesso testi di amici autori che mostrano chiaramente una
superficiale acculturazione fatta di correttezza linguistica fatta in casa da
invisibili consiglieri-operatori italiani, con tracce e ferite persistenti di
registri stilistici di ciò che si crede essere la normalità linguistica
italiana. Registri perversi: quelli del linguaggio burocratico dei moduli delle
ASL ('ospedalizzare' per portare all'ospedale, 'in ambito assistenziale' ecc.) o
degli uffici di polizia e quelli creati e diffusi degli strumenti della
comunicazione di massa (soprattutto lo stile delle dichiarazioni dei politici e
dei protagonisti del gioco del calcio 'parlato'): entrambi forti della loro
autorità linguistica normativa (e quali altre, del resto, potrebbero essere
oggi le autorità').
Ma la questione si può affrontare anche in un altro modo: portando in luce e
constatando una specie di corrente destinale all'interno del decennio 1990-2001:
quella che ha disperso chi aveva narrato – in coppia, all'italiana – la
propria avventura migratoria. La maggior parte di questi scrittori inattendibili
si è dispersa: o è sparita dalla scena letteraria o ha preferito continuare a
fare un lavoro inter-culturale non letterario (giornalistico, ad esempio). E
comunque, nessuno di loro è diventato uno scrittore, come prometteva: sia
Methnani che Khouma che Saidou Moussa Ba (La promessa di Hamadi, con P. A.
Micheletti, Novara, De Agostini 1991), che Mohamed Bouchane (Chiamatemi Alì,
con C. De Girolamo e D. Miccione, Milano, Leonardo 1990), che Nassera Chohra
(Volevo diventare bianca, a cura di Alessandra Atti di Sarro, Roma, e/o 1993).
Sono apparsi successivamente dei nuovi narratori, lanciati da grandi case
editrici, come l'irakeno Younis Tawfik (La straniera, Milano, Bompiani 2000) e
il congolese Jadelin Mabiala Gangbo (Rometta e Giulieo, Milano, Feltrinelli
2001), sui quali non c'è molto da dire, se non che mi piacerebbe poter leggere
il 'primoscritto' (chiamiamolo così da ora in poi, visto che il 'manoscritto',
in quanto originale scritto attraverso il ductus manuale, spesso non esiste più,
sostituito da una copia stampata dal personal computer (una copia che nasconde
tutti gli 'originali virtuali' ora mai inesplorabili e scomparsi). Accanto a
questi narratori lanciati sul mercato con grande premura pubblicitaria (nel caso
di Tawfik), ma tutto sommato invisibili per le 'patrie lettere', sono apparsi
anche dei veri talenti narrativi, come i brasiliani Christiana de Caldas Brito
(Amanda Olinda Azzurra e le altre, Roma, Lilith 1998), Julio Monteiro Martins
(Racconti italiani, Nardò, Besa 2000), l'albanese Ron Kubati (Va e non torna,
Nardò, Besa 1999) e il siriano Yousef Wakkas. Questi nuovi autori in italiano,
insieme ad alcuni altri, lavorano con me in un colloquio di mondi e intorno alle
riviste <www.sagarana.net> e <www.disp.let.uniroma1.it/kuma.html>. I
poeti, invece, hanno continuato a scrivere per annos sulla loro strada di
tessitori e migranti tra le lingue; penso, soprattutto, alla brasiliana Marcia
Theophilo e all'albanese Gëzim Hajdari (vincitore del Premio Montale nel 1997).
Sostengo, comunque, che il fenomeno malsano di 'pulizia linguistica' ci sta
defraudando, tutti, di una ricchezza, trattenendola e deviandola alla fonte. Di
fronte a questo infausto portato storico bisogna innanzitutto riconoscere che
esso è il portato dell'industria culturale che ogni tanto lancia qualche
prodotto del 'nuovo esotismo letterario': quello dell'immigrato che scrive in
italiano sugli immigrati nella società degli italiani. E subito dopo è
opportuno protestare e ribellarsi, anche se gli scrittori migranti, isolati o al
massimo assistiti da qualche volontario, o più spesso ingannati da qualche
falso benefattore, non hanno voglia, ma soprattutto potere per farlo; voglia e
potere che potrebbero nascere nel momento in cui alcuni di loro cominciassero a
diventare, agendo insieme, avanguardia culturale e politica visibile ed efficace
e smettendo di comportarsi da miracolati sulla strada del successo occidentale.
Stando così le cose e prima di passare alla esposizione e alla modesta proposta
dell'operatività singolare della mia esperienza, intendo sostare ancora presso
le sorgenti di questo fenomeno, per formularne alcune possibili regole generali
di storiografia alla rovescia, per così dire, dal punto di vista di un umanista
italiano.
Sostengo che nella prima generazione di scrittori migranti, che è quella
attuale in Italia, che non possiedono la lingua italiana come coloniale e/o
matrigna, la nostra lingua avrebbe potuto essere esposta, imprevedibilmente, a
tutte le lingue del mondo che si traducevano, tuttavia, dentro di essa. Un
fenomeno straordinario che siamo stati e siamo tuttora incapaci di vedere,
valutare e valorizzare, ma che abbiamo lasciato per i suoi dieci anni inaugurali
che fosse spento e pervertito. Teniamo conto, inoltre, che le seconde
generazioni stanno acquisendo la nostra lingua fin dalla nascita e che essa, per
forza di cose, come ci insegnano le storie di tutte le migrazioni – ad
esempio, proprio quella degli italiani (basti leggere i libri di John Fante) –
sta cacciando la lingua madrepaterna in posizione arretrata, se non addirittura
censurata, negata e man mano rimossa. Le generazioni successive alla prima
saranno, comunque, di 'creoli' italofoni più o meno integrati totalmente, che
potranno scrivere inventando (solo) se accetteranno di rivoltarsi a lavorare
sulle tracce della loro creolizzazione dentro una società, come quella
euroccidentale del XX e del XXI secolo, schiacciante, dominante, piena di gente
non sterminabile, e non-creola; assolutamente diversa da quelle americane, nate,
formatesi e crescenti dalle migrazioni, prima di guerrieri sterminatori e poi di
milioni di cercatori di fortuna e di lavoro.
Sostengo, inoltre, che gli attuali nostri scrittori di prima migrazione, stanno
per forza di cose operando sulle frontiere e negli interfaccia tra le lingue e
le culture. Frontiere e interfaccia per loro assolutamente nuove, e sconosciute
e impraticabili a noi nativi, e comunque invisibili e inerti rispetto alla
nostra evoluzione eurocentrica. A noialtri è concessa, se riusciamo a
perfezionarla, soltanto la possibile esperienza di una analogia: quella dello
straniamento offerto dal caso della nostra migrazione dal patrimonio primario
dell'oralità dialettale all'emancipazione nell'uso della lingua italiana
standardizzata. Una esperienza che, migrante dal sud dell'Italia verso la
capitale negli anni 60 del secolo scorso, pratico nella rilevazione critica e
schizoide al contempo della mia pronuncia dell'italiano, nell'ascolto di una
specie di doppio di me stesso presente/assente nel mentre che vado parlando: nel
ri-sentirmi, in diretta-differita quando parlo attraverso un microfono o, ancor
di più quando mi ri-sento da una registrazione magnetofonica, o nella
fantasmatica eco della mia voce che ritorna diversa e antica durante una
telefonata intercontinentale.
Queste esperienze critiche, in tutti i sensi, e il rapporto personale con gli
scrittori migranti, il mio camminare colloquiando insieme ad alcuni di loro, mi
hanno portato a mettere a punto una poetica progressiva e provvisoria del lavoro
di editing interattivo (che vuol dire: non solo colloquiale, ma anche reagente
ed efficace sul mio stesso leggere-pensare-scrivere-vivere).
Detto in breve, esso consiste per ora nell'agire sul testo del mio amico
sfiorandone la pelle fino a quando è possibile e con estrema sensibilità e
accortezza, con la mano che caccia imperfezioni cutanee lasciando intatti i
punti-turni della scrittura in cui essa volta, strania, aggiusta rispetto ad una
alterità invisibile ma attiva, sorprende e scansa la grammatica della lingua
che usiamo noi nativi italiani colti e tutto mentre il testo sta raccontando,
componendo versi, ragionando e mettendo in scena l'immaginario delle lingue che
si penetrano e si propongono adunandosi in una scrittura comunque manomessa. |