Pap Khouma
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Io venditore di elefanti
Scritto dal senegalese Pap Khouma e dal giornalista italiano Oreste Pivetta, Io venditore di elefanti appartiene alla prima fase della letteratura della migrazione. E' scritto a quattro mani (segno di una ancora incerta autonomia linguistica da parte dell'autore) e racconta le avventure di giovani africani giunti in Italia in cerca di un futuro migliore, le loro vicissitudini quotidiane per la ricerca di una casa e un lavoro, i pregiudizi nei loro confronti, il razzismo subito, l'indifferenza incontrata.
Protagonisti sono giovani come Pap e i suoi "fratelli" senegalesi, costretti dall'assenza di una normativa che regolasse la posizione degli immigrati ad inventarsi mille modi per vivere. Sono i "Vu cumprà" che attraversano per primi, agli inizi degli anni '80, le spiagge della riviera romagnola carichi di collane, elefanti d'avorio, bracciali d'argento, maschere d'ebano, e mille altre chincaglierie, cercando di scansare gli "zii", i poliziotti, "perché gli zii vogliono sapere tutto e sono pedanti: che cosa fai qui, dove vai, come vivi. E poi ti danno ordini: Zio è chi vuol comandarti la vita".
Vendere
Vengo dal Senegal. Ho fatto il venditore e vi racconterò che cosa mi è successo. E' un mestiere difficile, per gente che ha costanza e una gran forza d'animo, perché bisogna usare le gambe e insistere, insistere anche se tutte le porte ti vengono sbattute in faccia (…)
Un mestiere difficile quello del venditore. Faticoso, triste, pieno di umiliazioni (…) "C'è voluto un po' di tempo e di avventure prima che io arrivassi a Milano, dove sono stato un inventore, perché i primi mercatini nelle stazioni della metropolitana li ho messi su io con tre compagni."
"Vendendo abbiamo guadagnato i soldi per mangiare, e dormire al coperto. Non sempre, ma spesso. Vendendo ho anche imparato l'italiano. Qualcuno prova a cambiare mestiere, nella speranza di una vita tranquilla, di trovare una casa, di rimettere insieme una famiglia. E fa bene. Ma vendere è un gran bel mestiere. Non c'è da vergognarsene. (p.13)
Il racconto è la storia delle vicissitudini, delle peregrinazioni da Dakar a Riccione, a Parigi, a Milano e dei tentativi di superare le mille difficoltà incontrate da Pap e dai suoi amici, caratterizzate dalla precarietà, dall'incertezza per il futuro, dalla frustrazione per le umiliazioni subite, dall'amarezza dello sradicamento, ma descrive anche le motivazioni che spingono a questa drammatica esperienza umana della migrazione:
Clandestino
Come ci si sente da clandestini? Male. Oltretutto si entra in concorrenza con chi sta male quanto noi. Un immigrato deve subire, tacere e subire, perché non ha diritti. Deve reprimere dentro di sé ogni reazione, svuotarsi di ogni personalità. Subire con la consapevolezza che questa è l'unica possibilità. Mettiamo il caso che io mi trovi davanti a un poliziotto. La prima regola è dire sempre: "Sì, capo. Hai ragione, capo. Scusa, capo". La seconda regola e abbassare gli occhi. E' il segno che il clandestino è pieno di rispetto davanti alla divisa. Ha capito bene chi comanda. Non sta scritto in nessun posto, ma sono regole da imparare a memoria. Se il poliziotto cresce, si allunga, si gonfia, forse ce l'hai fatta. Hai guadagnato la sua benevolenza, ti lascerà andare. Ho fatto il venditore per anni, poi ho preferito smettere. Ma ci sono ragazzi che hanno sempre e solo venduto. E hanno cominciato a farlo in Africa, fin da bambini, come i loro nonni e i loro genitori: era il mestiere che si ereditava in famiglia. lo invece sono stato il primo della mia famiglia a vendere. Ho imparato in Costa d'Avorio, ad Abidjan. Vendevo l'avorio ai turisti italiani e francesi. Dal Senegal alla Costa d'Avorio, poi in Italia. Dall'Italia sono andato in Francia, mirando alla Germania, ma alla frontiera mi hanno respinto, perché non avevo soldi a sufficienza. Sono tornato in Francia, ma li proprio non volevo vivere. Avevo sempre paura, non so neppure di che cosa, ma avevo sempre paura. Forse la situazione non era cosi drammatica, forse erano solo pericoli immaginari, perché per tutto il tempo in cui sono rimasto in Francia non ho mai avuto problemi con la polizia. Però mi aspettavo sempre il peggio, anche se non mi hanno mai chiesto neppure una volta i documenti. I problemi li avevo per via dei soldi e magari per colpa dei senegalesi, poco ospitali. Sono rientrato in Italia e ho ripreso a vendere, finché sono riuscito a trovarmi un altro lavoro. Vendere mi dava paura e angoscia, perché ero dovuto scappare una infinità di volte davanti ai vigili, perché mi avevano sequestrato la merce, perché ero finito in prigio- ne, perché tanti mi guardavano male quando non mi insultavano se esponevo i miei elefantini e le mie collane davanti al loro negozio. Ma per capirci meglio dobbiamo tornare a Dakar.
Africa
(…) In Senegal di gente che se ne sta in giro senza combinare niente ce n'è già tanta. Camminare lungo le strade bianche di Dakar è l'occupazione nazionale. Il mio paese, diviso in caste, è povero. Sempre più povero, perché dopo dieci anni di siccità la coltivazione delle arachidi è andata in crisi. Altri paesi le producono e i prezzi sono scesi. C'è un governo socialista in Senegal. Ma non riesco proprio a capire perché si chiami socialista. Il Senegal è povero e la gente protesta, ma sa che non otterrà mai nulla. La maggioranza non sa né leggere né scrivere. Circolano molti giornali, ma finiscono sempre nelle mani degli stessi, che controllano tutto. Non è però vero che non ci sia interesse per la politica. Forse si discute più che in Europa. La gente ha sempre qualche cosa da dire e una gran voglia di gridare contro qualcuno. Tutti parlano e protestano. Tutti alzano la voce. Protestare è la seconda occupazione nazionale. Ma il potere se ne disinteressa. In trent'anni s'è costruito piedi forti e può camminare ovunque e fare quello che vuole. Nei villaggi si è diffusa la corruzione. Se arrivano soldi li intasca chi è d'accordo con il governo. Per chiudere la bocca a chi si lamenta si usa la tattica del rinvio: 'Vedremo domani, fratello, provvederemo domani'. Tutto si perde nel vento, le proteste e le speranze. E' come sa sabbia del deserto: pare si debba sempre alzare, invece è sempre allo stesso posto.
"L'Africa è governata male. Troppi profittatori: Puoi anche studiare e lavorare, ma non cambia, perché chi comanda non è disposto a concederti un po' del suo spazio. Così la gente se ne deve andare: Ha speranze solo se fugge, se riesce a raggiungere l'Europa. A lavorare sono in pochi. Tutti dipendono da loro. Per questo non si può tornare: se torni vai solo ad aggiungerti ai tanti che vivono del lavoro di pochi. (…)
Cento anni fa Dakar era un villaggio di pescatori. I francesi l'hanno trasformata in un porto e l'hanno proclamata capitale del Senegal. Dalle campagne dell'interno i contadini hanno cominciato a emigrare verso la nuova capitale, che pareva allora ricca e fortunata. A Dakar, a Dakar, era il sogno, l'aspirazione di tutti. Anche i miei hanno seguito questa strada. Adesso Dakar è una grande città di un milione di abitanti in un paese che ha perso anche la voglia di sognare. Quando sono tornato, mi è sembrata piccola. Una città piccola, quasi un'isola. Nei suoi tramonti mi rivedo ancora. Tramonti sull'oceano, lungo le spiagge, tramonti che spargono all'infinito i nostri colori, il blu, il rosso, il giallo, i colori dei nostri vestiti. E intorno a Dakar la campagna verde, nel silenzio. A noi piacciono i colori vivaci. ". (pp. 14 - 18)
E' una storia, quella di Pap, che gettando uno sguardo sulle esperienze passate, fa emergere, oltre alle sofferenze patite, anche storie di amicizia e solidarietà, sia all'interno della comunità senegalese, sia tra immigrati e italiani (i Tubab, i bianchi) quando i pregiudizi lasciano il posto alla comprensione. E in questo già anticipa le speranze per un domani aperto all'integrazione di culture, razze, lingue e religioni diversi: una società più ricca perché piena di colori diversi.
D'altra parte, solo la fiducia e la speranza che le barriere culturali e sociali possano un giorno essere superate può dare la forza di vivere esperienze come quella di Pap e di tanti come lui:
Bambini
"Questa è la vita di un senegalese, la vita che conosco da un tempo che mi pare lunghissimo, ma in fondo fortunato, perché, come si dice al mio paese, se una cosa la puoi raccontare, vuol dire che ti ha portato fortuna. Molti ragazzi stracciano i loro permessi di soggiorno e tornano in Senegal, perché non ne vogliono più sapere dell'Italia, della polizia, dei carabinieri, delle vendite, degli elefanti, delle aquile di avorio, delle collane, delle Lacoste, delle borse Vuitton, delle camere d'albergo, dei fogli di via, dei sequestri, del freddo.
Il freddo di qui al quale non riuscirò mai ad abituarmi.
Molti restano e conoscono delle ragazze italiane. Si innamorano. Ci sono matrimoni, e poi anche separazioni e divorzi. E poi ancora matrimoni. Nascono bambini." (p143)
(Da Pap Khouma, Io venditore di elefanti, Garzanti, 1990)
Incontro con Pap Khouma
Paolo Trabucco
(IPSIA "Ercole.I.D'Este" - Ferrara)
"Lo straniero ci abita:
è la faccia nascosta della nostra identità"
(J.Kristeva)
Solo voy con mi pena
Sola va mi condena
Correr es mi destino
Para burlar la ley
Perdido en el corazon
De la grande Babylon
Me dicen el clandestino
Por no llevar papel
(Da Clandestino di Manu Chau)
L'esperienza della classe
I ragazzi di una quarta (la 4TIEN) si sono avvicinati al tema delle migrazioni e della letteratura della migrazione inizialmente con un certo sospetto, ma poi la classe ha mostrato, in un crescendo di partecipazione, un inaspettato coinvolgimento, perfino nel confronto con i testi letterari, attività tradizionalmente poco appassionante per ragazzi di un istituto professionale ("Profe, ma dobbiamo proprio leggere dei libri?").
La cornice del nostro lavoro è stata l'intreccio del tema delle migrazioni con alcuni percorsi storici. Con l'aiuto del manuale, un occhio alle fonti storiche e l'altro all'attualità, abbiamo tentato di definire, o ridefinire, alcuni concetti come quelli di migrante, rifugiato, esiliato, profugo, ecc. Abbiamo osservato come le innumerevoli migrazioni, gli esodi di massa di interi popoli, da est a ovest, da sud a nord abbiano costituito una costante della storia della civiltà, producendo incroci di etnie e sincretismi culturali. E abbiamo riconosciuto come noi italiani, che oggi osserviamo con inquietudine e scarsa memoria il trasformarsi del nostro paese in luogo di immigrazione, siamo stati protagonisti di uno dei più grandi esodi migratori della storia moderna.
Suggestioni letterarie
Ci siamo poi addentrati nel tema della migrazione, più che da una prospettiva storica o politico-sociale, cercando di coglierne le implicazioni umane e psicologiche.
Ci siamo avvicinati ai testi di scrittori migranti: il testo di partenza è stato Io venditore di elefanti, scritto nel 1990 dal senegalese Pap Khouma insieme al giornalista italiano Oreste Pivetta, che abbiamo letto integralmente, anche in vista dell'incontro con l'autore, che è venuto a farci visita nel mese di febbraio. Ha fatto seguito La promessa di Hamadi, di Saidou Moussa Ba, di cui abbiamo svolto una lettura antologica.
Entrambi i romanzi descrivono il difficile percorso verso l'integrazione da parte di giovani immigrati dall'Africa durante i primi anni '80, in un clima denso di incertezze, per quanto riguarda sia la sopravvivenza quotidiana, che le prospettive future, in una Italia impreparata, culturalmente e anche giuridicamente, ad accogliere le prime grandi ondate migratorie di quegli anni.
Queste letture, di grande immediatezza, ci hanno indotto ad interrogarci su cosa comporti, per chi ne è protagonista, l'esperienza umana della migrazione, su cosa voglia dire sentirsi stranieri, clandestini.
Questa immagine della clandestinità è quella che ci ha offerto le suggestioni più profonde. Tra le nostre comuni riflessioni in classe è affiorata, per prendere poi una crescente consistenza, la sensazione che tutti noi siamo o potremmo sentirci un po' clandestini: tutte le volte che non ci sentiamo noi stessi o che fatichiamo a trovare un ruolo in mezzo agli altri. E sono state ancora le suggestioni letterarie a rinforzare questa sensazione.
Oltre che nei testi degli scrittori migranti, dove esso affiora in maniera palese, abbiamo colto questo tema, che a noi piace chiamare della "clandestinità", in altre opere letterarie. Alcune letture svolte con altri intenti, e altre che sono state proposte ai ragazzi ( la novella La lupa di Verga, il breve romanzo Novecento di Baricco e brani tratti da Il Fu Mattia Pascal di Pirandello e Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi) le abbiamo viste (riviste) e lette (rilette) come testimonianze, a volte impreviste, di questa condizione "esistenziale" del sentirsi estranei, clandestini. E così abbiamo fatto un'altra scoperta importante: che tutta la letteratura si può offrire a molti sguardi.
"Io clandestino"
Presi da queste suggestioni e scoperte è nata l'idea di tentare di rappresentare la condizione della clandestinità. Occorreva una comune disponibilità a cambiare prospettiva, a tentare di immedesimarsi, a mettersi in altri panni. E un modo per dirla, per comunicarla, questa esperienza. Ancora una volta la letteratura (o meglio, il gioco della letteratura) ci è stata d'aiuto, ed è nato un piccolo e un po' improvvisato laboratorio di scrittura: uno spazio, sottratto provvisoriamente a spiegazioni, compiti e interrogazioni, all'interno del quale i ragazzi si sono cimentati nella produzione di poesie e racconti.
Questa parte dell'attività credo sia stata la più emozionante e sentita per i ragazzi, e non è un caso se, più che la citazione colta offerta dall'insegnante ("Lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità" - J. Kristeva), ad accompagnarla è stata una canzone di Manu Chau (Solo voy con mi pena / Sola va mi condena / Correr es mi destino…".), che ne ha costituito una specie di colonna sonora ideale.
Questi lavori sono stati raccolti in un fascicolo dal titolo "Io clandestino", con il quale i ragazzi hanno inteso dare il loro contributo al convegno, dove sono stati letti alcuni dei loro testi.
Ecco la breve presentazione scritta dai ragazzi:
"Siamo tutti un po' clandestini, o per lo meno, per una volta nella vita ci siamo sentiti tali. Non soltanto gli extracomunitari, gli stranieri, gli immigrati in generale quando arrivano in un paese che non li vuole vivono la condizione di clandestino, ma anche ognuno di noi, a proprio modo, può sentirsi tale. La parola 'clandestino' è la riflessione, in uno specchio, della nostra società così poco tollerante nei confronti di ciò che conosce poco e che, piuttosto che integrarlo, bandisce.
Per questo abbiamo voluto provare a metterci nei panni di chi vive una condizione di estraneità, di rifiuto, di clandestinità, sia pure solo attraverso la finzione.
E' nata così l'idea di questo laboratorio di scrittura durante il quale, attraverso le suggestioni fornite dalle nostre letture e discussioni, ci siamo cimentati nel tentativo di scrivere alcune poesie e alcuni racconti"
Permesso di soggiorno
Alan Grassilli
Eccomi in Italia finalmente, dopo oltre quattro ore di viaggio.
Partito da un piccolo paese del Mali, come molti altri immigrati della mia terra per cercare fortuna in un paese lontano, ma ricco. Ho lasciato la mia famiglia, le mie amicizie, i miei fratelli, e il mio piccolo campo.
Eh si....., il mio piccolo campo, che mi avevano regalato i miei genitori al compimento del mio tredicesimo anno, che accudivo ogni giorno con tanto affetto, e che invece ora, dalla mia partenza, ho lasciato a mio fratello Kiko.
Durante il viaggio ho conosciuto una ragazza, pure lei proveniva dal Mali.
Abbiamo iniziato a parlare del più e del meno, i motivi del nostro viaggio alla ricerca di un "Nuovo Mondo", in che luoghi eravamo rispettivamente diretti, e molto altro.
Quella ragazza appena conosciuta mi piaceva veramente tanto, anche se ricordo ancora le parole di mia madre di quando ero piccolo: "Non fidarti delle persone appena conosciute" oppure "Non innamorarti delle donne che non conosci, dopo ti prendono tutto".
La frasi di mia madre mi saltellavano nella mente qua e là, ma quella ragazza era così carina, si è presentata a me in un modo molto elegante e ben educato, e quegli occhi da gazzella, e chi se li scorda più.
Se non ricordo male lei era diretta a Milano, mentre io sono qua a Torino, appena atterrato sull'aeroporto di Caselle. Sono attorniato da migliaia di persone, ma mi sento solo e spaesato come se fossi in un deserto solitario attorniato dal nulla.
Ad aspettarmi c'era un mio cugino immigrato, pure lui, che da tre anni vive qua a Torino.
Lui ha iniziato a lavorare facendo il "Vu cumprà" , come capita per la maggior parte degli immigrati, mentre ora, da due anni a questa parte, cioè da quando ha avuto il permesso di soggiorno, lavora come cameriere in una pizzeria nel centro della città. Appena mi vede mio cugino corre da me, e mi accoglie con un abbraccio soffocante.
Ci accingiamo ad andare a casa sua, dove trascorrerò le mie prime notti.
Mi parla di lui, di questi tre anni vissuti a Torino e mi parla anche della mia iniziale situazione da immigrato. Mi dice che io sono, non solo un immigrato, ma anche un extracomunitario senza permesso di soggiorno, e che fino a quando non avrò questo benedetto permesso, vivrò illegalmente e l'unico lavoro per iniziare la mia "Nuova Vita" è quello di fare il "Vu cumprà", anche perché lui non ha molto tempo da dedicarmi.
Dal mio secondo giorno qua a Torino ho iniziato a lavorare facendo proprio il venditore ambulante.
La prima sera, in quei viali infiniti ma pieni di luci, mi ero perduto..... ero angosciato, il fiato era affannato per l'agitazione, ma pure per la stanchezza, dopo una giornata vissuta per le strade.
Mi guardo attorno un po' per paura, un po' per disperazione, perché la via di casa l'ho perduta.
Camminavo.....Camminavo......in lontananza, in fondo alla via vi erano due luci grandi che parevano occhi, occhi grandi e lucenti che mi davano conforto, come quelli della ragazza conosciuta in aereo.
Dopo qualche settimana di quel lavoro inizio a tirare le somme.
Mi accorgo di giorno in giorno che è molto dura tirare avanti, non solo perché il guadagno è altalenante, un giorno guadagni abbastanza, il giorno seguente è scarso, per la fatica del lavoro, ma anche per paura dei poliziotti, che mi potevano cacciare da un momento all'altro. Il mio morale era a pezzi.
Dopo molti mesi, ho avuto finalmente strada libera per avere il permesso di soggiorno, grazie ad una sanatoria. Da oggi la mia vita è cambiata nuovamente. Infatti da quando ho il permesso di soggiorno, ogni volta che vado in una pizzeria, in un negozio o in un bar per fare una domanda di lavoro, i titolari non mi rispondono più con un "No" seccato, bensì con un "No, ma riprovi tra qualche tempo".
Questa frase mi rimbalzava ormai nella testa, sino a quando un giorno mentre camminavo per le vie del centro, in una pizzeria trovai scritto: "Cercasi cameriere a tempo indeterminato".
Senza esitare sono entrato, mi sono presentato al titolare e ho chiesto se poteva accettare la mia domanda di assunzione. Ero fiducioso su una sua risposta positiva, ma allo stesso tempo un semplice "No", mi avrebbe affranto. La sua risposta era decisa e sicura: "Certo, era da qualche giorno che cercavo un cameriere da assumere". Questa semplice frase mi ha riempito il cuore di gioia, pensavo già ad un futuro migliore.
Il giorno seguente mi sono presentato al lavoro, affascinato da questa nuova esperienza, ma anche un po' titubante.
Il titolare mi chiama e dice: "Vatti a cambiare nello spogliatoio, ti do io l'abbigliamento adatto".
Entro nello spogliatoio e vedo un bel vestito, molto elegante, visto indossare da altre persone, ma mai su me stesso, e mi pare un sogno.
Mi cambio, mi specchio ..... " Ma sono proprio io questo?!" Se mi vedesse mia madre sarebbe molto orgogliosa di me. Partito dal Mali per cercare fortuna oggi sono qua, con la fortuna in tasca, chi l'avrebbe mai detto.
Mio cugino dopo il primo giorno del mio nuovo lavoro mi chiede come è andata e io rispondo: "Bene, certo che è veramente bello questo lavoro!!".
Mio cugino ride, ma subito dopo il suo volto si fa più cupo e dice: "Guarda che le tue difficoltà inizieranno proprio ora .....e te ne accorgerai".
Ma io con ancora il morale alle stelle non ho dato alcuna importanza a quelle parole.
Dopo due mesi il lavoro andava a gonfie vele, poi, quella sera…
In apparenza è una serata coma tante, "Dai vai". "Tavolo numero quattordici". "Sbrigati"...
Ma ad un certo punto un gruppo di ragazzi seduti al tavolo iniziano a dire: "Ehi tu, pinguino africano, ti sbrighi a portarci da mangiare?". Mi sono voltato e ho risposto dicendo: "Scusate, ma non è colpa mia, tra poco vi vengo a servire". E un ragazzo ribatte: " Invece è colpa tua e dei tuoi fratelli negri".
Io non sapevo più cosa fare, il mondo in un attimo mi è crollato addosso, mi vergognavo di essere me stesso, mi vergognavo delle mie origini, mi vergognavo ti tutto ciò che mi fa sembrare estraneo a questo mondo. Mi iniziano ad affiorare le frasi di mio cugino "Te ne accorgerai poi…..". Ora sì che riesco a capire a cosa si riferiva.
Sono le due di notte e faccio rientro a casa.
Mio cugino è già a letto, ma io dopo una serataccia di questo genere a dormire non ci penso proprio.
Il giorno seguente parlo con mio cugino della disavventura, e lui risponde: "visto a cosa mi riferivo?!".
Molto spesso pensi che certe cose non ti possano mai succedere, ma dopo quel che mi è capitato mi sono dovuto ricredere. Non è stata la mia prima umiliazione da quando sono qui, né probabilmente sarà l'ultima. Ma mi ha abbattuto più di ogni altra. Perché io ora non sono più clandestino, sono "in regola", ho un lavoro.
So che episodi come questo possono segnare la mia vita per sempre, ma so pure che mi aiuteranno a crescere. Perché ho capito che il vero permesso di soggiorno non è ciò che è scritto sulla carta che ti rilascia la Questura. Il vero permesso di soggiorno è scritto sulle nostre vite faticose, sul colore della nostra pelle, sugli occhi smarriti di chi parte e sugli sguardi di chi ti considera diverso. Il vero permesso di soggiorno è quello che è scritto nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Il suono del vento
Mattia Toffanin
Io sono Faithit, vengo dalla Turchia e sono in Italia da otto anni.
Ho deciso di venire qua perché sento parlare molto bene di questa nazione, c'è da lavorare e da guadagnare qualche soldo, così posso mantenermi e mandare qualcosa alla mia famiglia in Turchia.
La Turchia è una nazione molto povera, dove è difficile trovare da lavorare, perché i posti di lavoro nelle fabbriche non ci sono, e lavorare in campagna è ormai quasi impossibile, quando rompi un pezzo della macchina agricola o dell'attrezzo devi star fermo per diversi mesi, perché i pezzi di ricambio non ci sono, e bisogna aspettare che arrivino dall'occidente, dall' Italia, dalla Germania e Francia.
Una parte della popolazione è povera, non ha che pochissimi soldi per vivere, mangia pochissimo e vive in case messe male o in baracche di lamiera.
Nel paese da cui provengo ci conforta il suono del vento, che ci riempie i pensieri e ci porta i profumi delle montagne.
Tanta gente per essere portata qui in Italia deve pagare delle somme che per noi sono molto elevate, e chi riesce a pagare parte, chi invece non ce la fa resta là.
Sono arrivato insieme a tanta altra gente che vuole venire a fare una vita serena e felice qui in Italia, sono arrivato con quelle barche grandi e messe male, che fanno tanto rumore, sono lente e hanno dei buchi nella parte alta da dove entra acqua.
Il viaggio è durato molto, le condizioni in cui arriviamo sono brutte, mangiamo poco e male, puzziamo e siamo stanchi.
Quando sono sceso dalla nave, a Otranto, sono scappato via, allora non c'erano i controlli sulle coste, ma avevo troppa paura e sono scappato. Scappato via, sono andato in una spiaggia, mi sono lavato ad una doccia, in una di quelle pubbliche che ci sono all'entrata della spiagge, mi sono rivestito e ho cominciato a camminare.
Con me, durante il viaggio, mi ero portato alcune lire, così alla sera sono andato in un bar e mi sono mangiato un panino e una bibita, e poi sono andato a dormire sui lettini della spiaggia. Alla mattina, prima che arrivasse tanta gente, me ne sono andato a girare per un paesino nei dintorni di Otranto. Durante la mia camminata ho visto delle fabbriche, e in una di queste, appeso fuori, c'era un cartello con su scritto: CERCASI OPERAI.
Mi sono fermato a guardarlo e poi tra me e me ho detto: " Ma se servono operai, serve il libretto di lavoro e altri documenti!. No, è meglio non andarci". Decisi così di proseguire la mia camminata.
Mentre camminavo pensavo :" Se voglio stare qui, dovrò pur dormire da qualche parte e mangiare, ma dove?". E passarono giorni e notti quasi tutti uguali. Mai avrei pensato di ridurmi così: più povero dei poveri in un paese che per me era sempre stato l'immagine della ricchezza. Facevo lunghe camminate sulle scogliere, guardavo il mare, verso casa mia, e ascoltavo il suono del vento in cerca di qualche profumo familiare.
Pensai, un giorno, di cominciare con il vendere dei cappellini, magliette e portafogli falsi, ma che all'apparenza sembravano originali. L'avevo visto fare da tanti immigrati come me, soprattutto sulle spiagge, e sapevo come procurarmi la merce. Il primo giorno andai con la mia valigia piena lungo il viale e qualcuno urlava: Ehi marocchino, Ehi vu cumprà! Io però con le mie orecchie non sentivo quello che mi dicevano, nelle mie orecchie quelle parole suonavano come il vento che mi faceva ricordare il mio paese.
Tutto sommato, come prima giornata avevo guadagnato ben centomila lire avendo venduto 3-4 magliette e 7-8 tra capellini e portafogli; però non erano cose che si comprano tutti i giorni, comunque, dato che come prima giornata non era andata poi così male, decisi di continuare questo lavoro. Alla sera, quando andavo a mangiare, pensavo alla mia famiglia in Turchia, a quello che stavano facendo laggiù, in quelle condizioni pessime in cui vivono, e speravo che con i soldi che gli avrei mandato, un giorno sarebbero potuti venire qui da me in Italia.
I giorni successivi non furono brillanti come il primo, ma qualcosa si guadagnava lo stesso. Intanto avevo smesso di vivere in strada. Stavo in una vecchia casa colonica mezzo cadente nelle campagne di Otranto, insieme ad altri dodici immigrati: c'erano Arabi, africani…ma nessuno del mio paese, e anche parlare tra noi non era semplice. Poi ci vedevamo poco, addirittura alcuni di noi dividevano lo stesso letto: chi ci dormiva d notte e chi ci dormiva di giorno, al ritorno da qualche lavoro notturno trovato in fabbrichette locali che assumevano in nero e facevano lavorare anche dodici ore di fila. Io continuavo a vendere. Nella mia testa c'era la voglia di guadagnare molto, spendere poco per mangiare e avrei potuto così ammucchiare i soldi, e un giorno avrei potuto permettermi di prendere due stanze in affitto, almeno per avere una casa tutta mia dove mangiare e dormire.
Questo lavoro l'ho fatto per ben quattro anni, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, d'estate sulle spiagge e d'inverno in tutti i paesi della provincia. Sono riuscito a trovarmi una casa decente, siamo solo in tre a dividercela: è piccola, ma non cade a pezzi e abbiamo un bagno vero e anche un piccolo balcone. Adesso lavoro per una ditta che costruisce le case, faccio il muratore come nel mio paese, sono in regola e finalmente ho un lavoro fisso.
Adesso guadagno molto più di prima, ho la possibilità di mandare più soldi alla mia famiglia in Turchia, e il resto lo tengo per me per pagarmi la casa, mangiare e divertirmi un po'.
Sono molto felice del lavoro che ho trovato. Il mio tempo libero, la domenica, lo trascorro al mare durante l'estate, mentre d'inverno sto a casa a guardarmi la televisione o al bar con i colleghi di lavoro.
Sono quasi felice di me, però mi manca quella cosa che ti fa trascorrere tutta la vita in serenità: una donna.
E' anche per questo che ancora non smetto, di tanto in tanto, di camminare sulle scogliere, guardando il mare e ascoltando il suono del vento.
Un ignoto (clan)destino
Marco Fenzi
PREMESSA
Questo racconto narra la storia di Nasgkadul e del primo esodo dei nani dalle regioni delle miniere, dove hanno sempre vissuto, alle terre degli uomini, che non hanno mai visto esseri del genere.
Qui vi è riportato un breve tratto del racconto che parla dell'arrivo di Nasgkadul, il primo nano, e della sua difficoltà ad ambientarsi, del suo incerto futuro, e del timore di doversi nascondere e vivere in clandestinità in un mondo diverso dal suo.
IL PRIMO APPROCCIO
Il decimo giorno dopo la quarta luna del 1357 d.F., si presentò nella cittadina di Breghafasta il primo di quelli che un giorno gli abitanti del luogo avrebbero chiamato nani.
Nella brumosa alba di quella giornata, eravamo alla soglia del primo risveglio della natura, comparve dal nulla. Nessuno lo vide arrivare, come un fantasma, come un'ombra maligna materializzatasi al centro della città. O per lo meno questi erano i pensieri dei cittadini di Breghfasta appena lo videro. Non sbagliavano più di tanto, infatti Nasgkadul, questo era il suo nome, giunse, ombroso, avvolto nel suo logoro mantello, stanco e deturpato nel corpo e nella mente, tanto che sembrava arrivasse da mille battaglie e infinite peripezie. E anche questo non era del tutto errato. Nasgkadul era alto circa 30 yark, più o meno la metà dell'altezza di un uomo, ed aveva 40 anni, che per un nano non erano poi tanti; teneva inoltre capelli lunghi e una barba che gli arrivava alle ginocchia, era tarchiato e portava vesti e armi sconosciuti agli uomini e di fattura ignota: come l'immensa ascia, larga 20 yark, e la maglia borchiata.
Decise, stanco com'era, di cercare un po' di riposo nella "Locanda del crocevia dorato", che poco distava dal luogo dove si trovava.
Nel breve tratto di strada che lo separava dall'osteria, nella sua mente turbinava una miriade di pensieri, tutti con al centro gli uomini: come l'avrebbero accolto? Come avrebbero reagito appena lo avessero visto? Sarebbero stati ostili, avrebbe dovuto combattere?
Mentre questi e molti altri interrogativi erano ancora presenti nella sua testa, Nasgkadul si accorse di aver spalancato la porta della locanda e di esservi già entrato. Il gran vociare che c'era nell'edificio prima del suo arrivo si interruppe bruscamente, come se qualche incantesimo avesse tolto la parola ai presenti, tutti lo squadravano da capo a piedi e lui quegli sguardi se li sentiva penetrare dentro fino alle ossa, come lance maligne che cercano il punto vitale per finire la vittima, perché quelli erano sguardi tutto fuorché amichevoli.
La tensione in quel locale era quasi palpabile, e quello che per Nasgkadul fu un tempo interminabile in realtà durò pochi attimi, perché quasi subito intervenne Exer Morand, il locandiere, che era abituato a trattare con i tipi della peggior specie. Prese subito in pugno la situazione ed esordì con un brusco: "Ah! Un altro di quegli avventurieri portatori di disgrazie. Certo che alla sua età può essere pericoloso un mestiere del genere. Mah, non sono affari miei e di certo stare in mezzo agli africani, nomadi e contrabbandieri notte e giorno non è tanto meglio, ma passiamo ad altro. Che cosa posso fare per te?"
Nasgkadul fu preso da un atroce dubbio: rivelare la propria identità, e di conseguenza tirarsi addosso i non amichevoli cittadini, o camuffarsi, negare la propria identità e provenienza, annullarsi tra gli altri e non dire nulla, aspettando un'occasione migliore per parlare?
Esordì allora con un timido: "Non sono vecchio! Sono in compenso molto stanco e desidero solamente un po' di ristoro accanto ad un buon boccale di birra. Se è possibile".
Si accomodò ad un tavolo, in disparte, lontano dalla luce e dagli altri avventori che avevano già ripreso a parlare. Stava lì materialmente inesistente e osservava spuntando dalla semioscurità dalla quale si poteva a malapena vedere lo scheletrico viso, quasi fosse un fantasma uscito da quel piccolo angolo buio.
Sentiti i discorsi dei clienti, tutti con lui come protagonista, decise di affrontarli, si alzò e si diresse al centro della locanda dove erano tutti radunati attorno a piccoli tavoli dove parlavano e bevevano.
Un uomo, che dal fisico e l'abbigliamento: doveva essere una guardia, aveva radunato attorno a sé un bel manipolo di altri uomini, stava finendo di raccontare una storia di avventure molto probabilmente vissute da lui stesso, Quando Nasgkadul era entrato, quell'uomo era stato uno dei più diffidenti e quando si accorse che si stava avvicinando disse con tono sprezzante: "E questa è la storia dell'assedio degli Skydrel, quei maledetti! Nessuno li aveva mai visti, non si sapeva da dove venivano, ma cercarono di annientarci, di impossessarsi delle nostre ricchezze, sicuramente ce li tirò contro qualche maledetto forestiero dagli occhi e dalla lingua troppo aguzzi. Ehi tu! Non mi sembra di averti mai visto da queste parti: Andiamo: raccontaci qualcosa".
Naskgadul prese uno sgabello e si sedette vicino al camino, al centro di quella cerchia di uomini e iniziò con voce pacata a raccontare.
"Il mio popolo è un popolo di montagna, ma non abbiamo abitato sempre dove hanno costruito la casa i nostri padri. Noi veniamo da lontano, molto lontano e alcune delle nostre storie raccontano proprio di questa migrazione.
Partirono dalle terre dell'ovest, erano una cinquantina, i migliori, malridotti, segnati dalle guerre e dalla carestia che avevano colpito la nostra patria. Vagarono per lungo tempo in posti sconosciuti finché giunsero alle montagne a nord di questo paese che oggi chiamate Chaordorim.
Arrivarono alle pendici di quei maestosi monti nel bel mezzo di un mattino, quando l'aria era ancora fresca e il sole aveva compiuto solo un quarto del proprio giro. Allora "Ghimir lama infuocata" disse: "Ah! Questo sarebbe il posto ideale dove costruire la nostra rocca! Là, sulla prateria, in quella valle oltre questa foresta".
Si incamminarono pian piano in quel groviglio vegetale, in quel muro verde posto lì come per impedirgli di raggiungere la loro agognata meta. Scelsero il posto dove accamparsi quella notte. Erano a metà del loro percorso, ma da quando erano entrati nella foresta avevano sentito uno strano rumore, quasi come se fosse scattato un allarme, passato da albero ad albero a tutta la zona, e più aumentava la loro permanenza in quel posto più quel rumore aumentava di frequenza e intensità. Finché da un semplice palpito che si confondeva col frusciare delle foglie divenne un imponente ed incessante BURRR!!!BURRR!!!BURRR!!! La terra tremava. Si guardarono attorno sconvolti e terrorizzati e videro ai margini della foresta un essere alto circa 120-150 yark e armato di una clava immensa grande almeno 80 yark, che si dirigeva furioso verso di loro.
Raggelarono, divennero come statue di pietra, ma non potevano perdere tempo. Una trentina di loro, tra cui lo stesso "Ghimir lama infuocata", rimase lì, armata solo del proprio coraggio, data la palese inferiorità, a combattere mentre gli altri fuggivano nella foresta prima che l'essere arrivasse su di loro.
Mentre cercavano un nascondiglio vennero investiti da un frastuono che non dimenticarono mai più: le urla dei compagni, il rumore degli alberi che venivano fracassati, divelti dal terreno e scagliati a terra.
Il giorno non sembrava mai terminare in quel posto che poco tempo prima avevano scelto per casa, e il sole che tanto avevano lodato per la sua bellezza aveva ora voltato loro la faccia e li imprigionava nei loro nascondigli senza via di scampo. Ma finalmente scese la notte ed un fuoco venne acceso sulla prateria della valle oltre la foresta. Era il fuoco dei superstiti, tra i quali vi era, anche se ferito, "Gihmir lama infuocata".
Erano in pochi, feriti, sconsolati perché consci che il loro destino era ormai segnato da una fine tragica: o resi schiavi da un perfido signore o uccisi da uno di quei giganteschi banditi che li avevano assaliti. Anche le sentinelle guardavano l'oscurità distrattamente, certi che qualsiasi cosa anomala avessero visto li avrebbe annientati.
A notte inoltrata, quando il fuoco era ormai spento, erano quasi tutti addormentati, avvolti tra le coperte o i mantelli e gli unici svegli erano le sentinelle che si davano i turni.
Ogni cosa era avvolta nel silenzio più completo e ciò era molto strano per una zona selvaggia come quella. Quando sentirono il tonfo sordo, come una cosa che cadesse pesantemente a terra, trasalirono, e cominciarono a scrutare nell'oscurità all'impazzata, alla ricerca della causa di quel rumore, sperando che potesse dissolvere i loro più cupi pensieri.
Furono attimi di panico nei quali il silenzio ricadde ancora più intenso e cupo di prima, come una cappa che li opprimeva, ma il silenzio d'un tratto fu squarciato da un frenetico e vasto galoppo di cavalli che li avvolse. Erano circa un centinaio di esseri simili a piccole scimmie dal pelo rosso, armate di piccole spade e di pochi scudi grandi come piatti, ma nei loro occhi e nel loro ghigno vi era stampata un'espressione truce.
I mostri gli furono subito addosso, prendendoli di sorpresa, e dovettero organizzarsi alla bene e meglio sapendo di dover combattere una battaglia che non avrebbero mai vinto.
Cercarono di resistere unendosi in gruppo e dando delle mazzate ai primi che capitavano a tiro; all'inizio sembrava funzionare, dato il leggero armamento posseduto dai nemici, ma poi quando li accerchiarono e la pressione su di loro aumentò, non ce la fecero più a mantenere le posizioni, perché per ogni nemico ucciso ce n'era subito un altro a rimpiazzarlo.
Quando ormai il gruppetto era ridotto ad un piccolo puntino nero in quella valle rossa, quando ormai tutte le speranze erano perse e sembrava arrivata la fine, la terra tremò di nuovo, sentirono ancora avvicinarsi quel minaccioso BURRR!!!BURRR!!!BURRR!!! Tutti erano fermi, immobili, esterrefatti vedendo stagliarsi contro il cielo l'immensa figura di uno di quei giganti. Mosse la sua immensa clava e prima che toccasse terra aveva già schiacciato una trentina di quei mostriciattoli. Lui era Gorgorn, il capo dei giganti con la sua leggendaria clava.
Subito, i viaggiatori, mendici della loro patria, si accorsero di essere tra incudine e martello e di essere finiti dalla pentola alla brace: da una parte c'erano quelle orripilanti scimmie e dall'altra gli uomini montagna. Le loro speranze erano scomparse, ma decisero di vendere cara la pelle e anche se con un sol colpo di clava potevano essere spazzati via combatterono con una furia, una rabbia e una sconsideratezza che solo la disperazione può dare.
Non durò molto la loro supremazia, perché ben presto i giganti, superato lo stupore, ripresero il controllo, ma non li uccisero, li imprigionarono dopo aver eliminato quegli altri orrendi esseri.
Gorgorn si avvicinò e con voce tonante si rivolse a loro dicendo: "Io sono Gorgorn, capo dei giganti di questa zona! Non sappiamo chi siete né perché siate qui, ma sappiamo con certezza che non siete alleati dei nostri nemici, visto quello che è accaduto. Noi pensavamo a voi come mercenari interessati solo alle ricchezze, assoldati da quelli che ci hanno mosso guerra per annientarci. Ci dispiace per quello che è successo, ma in tempo di guerra non ci si può lasciare andare in cortesie. Nonostante ciò siamo esseri ragionevoli, noi, e sappiamo ripagare per i nostri errori. Cosa possiamo fare per voi?"
Lama infuocata, sorpreso, ma severo, rispose: "Noi siamo un popolo che conosce fin troppo bene la guerra e i suoi effetti devastanti. Infatti la guerra e la carestia ci hanno tolto le nostre case, la nostra gente, la nostra terra che speravamo di ritrovare qui. Comunque non sbagliavate molto sul nostro conto, infatti a noi piacciono gli oggetti preziosi ben fatti e le armi di ottima costruzione che noi stessi produciamo"
"Ebbene, nonostante la nostra riservatezza e predilezione per la solitudine, avete trovato ciò in cui erano riposte le vostre speranze. Potete vivere qui se vorrete. E quando vi sarete sistemati, due buone asce dalla nostra parte ci farebbero molto comodo"
"Avete fatto un ottimo affare, Gorgorn. Perché vi siete alleati, e lo dico senza falsa modestia, con i migliori fabbri in circolazione nel raggio di 600.000 yark" rispose gongolante lama infuocata lisciandosi la barba".
Con questo Nasgkadul terminò la sua storia. Si accorse di avere attirato su di sé l'attenzione di tutta la locanda, ma di non aver affatto risolto le perplessità degli avventori che lo scrutavano, tutt'intorno, con sguardi dubbiosi.
Nasgkadul incrociò lo sguardo della guardia e gli disse:
"Ora tu mi hai visto, sai da dove vengo, che non cerco di annientarvi né di impossessarmi delle vostre ricchezze. Sono forestiero: a te giudicare se la mia lingua e i miei occhi sono troppo aguzzi. Quello che io vorrei sapere da te è se tu sarai la scimmia o il gigante".