Jarmila Ockayová


E' nata in Siovacchia nel 1955 e dal 1974 si è trasferita in Italia. Dopo essersi laureata a Bologna, vive e lavora a Reggio Emìlia. Il suo romanzo d'esordio Verrà la vita e avrà i tuoi occhi (Baldini&Castoldi, 1995) ha esaurito tre edizioni. Sempre per i tipi Baldini, ha pubblicato L'essenziale è invisibile agli occhi (1997) e Requiem per tre padri (1998). Tra i suoi lavori letterari, da ricordare la traduzione delle antiche fiabe slovacche, raccolte da Pavol Dobsinský, pubblicate da Sellerio col titolo Il re del tempo.







La favola degli oliamondo


Settembre 1973
Cari nonni,
mi avete chiesto di spiegarvi che cosa significhi per me vivere in Italia, che cosa significhi non vivere più in Slovacchia.
Ho pensato a lungo a come rispondervi, ho provato a scrivere un paio di lettere, ma le mie parole mi sono sembrate povere eco sbiadite di quello che provo veramente. Alla fine ho inventato una specie di fiaba: mi riesce più facile affidare la complessità dei miei sentimenti alle metafore. Eccola.
Vorrei leggervela io stessa: non potervi raggiungere è come alzarsi al mattino e scoprire che dall'atlante è stata strappata una pagina, proprio quella che vi serve, che sul mappa- mondo è stato messo il lucchetto e non potete più girarlo. 
Mi mancate tanto.
Con amore, vostra Aga



C'era una volta una lunga galleria che collegava due paesi tanto distanti l'uno dall'altro quanto diversi: diversi i cibi che la gente mangiava, diversi i suoni che ascoltava, diversi gli odori che respirava, diversi gli abiti che indossava e gli oggetti che guardava e toccava. Ma, soprattutto, diverse erano le lingue con cui si parlava di quei sapori, suoni, odori e forme.
Spianata in una rupe, la galleria era stretta, piena di sporgenze e avvallamenti, a tratti completamente buia: chi voleva attraversarla doveva, dunque, accettare non poche fatiche. Era anche molto antica: le sue origini si perdevano nel tempo dei tempi e non si sapeva a chi appartenesse; ragion per cui nessuno se ne curava e di solito veniva lasciata incustodita. Della sua lunga storia smemorata era universalmente noto un solo particolare: per secoli, la galleria era stata usata come il passaggio degli oliamondo.
Per spiegare chi fossero gli oliamondo, un po' temuti e un po' esaltati da entrambi i paesi, è necessario procedere per analogie. Erano simili ai cerretani del Medioevo, venditori ambulanti che un tempo giravano di paese in paese offrendo le loro mercanzie, per lo più erbe medicinali, rudimentali farmaci e ricette, e venivano osteggiati dai medici locali che temevano di vedere sminuito A loro prestigio e additavano i cerretani chiamandoli ciarlatani, gabbamondo. Ed erano simili agli unguentari antichi, che mischiavano i loro preparati farmaceutici a misteriosi profumi e li rafforzavano con formule magiche.
Nemmeno gli oliamondo disdegnavano la magia: ne mettevano un pizzico in ogni goccia spremuta dalle radici, in ogni essenza estratta dai fiori, semi e frutti da loro personalmente raccolti. Così, l'origine di quel potere curativo restò misteriosa e segreta. Ma l'effetto degli unguenti e oli lenitivi era assicurato: chi se li spalmava sugli occhi guerci, miopi, ottenebrati, ecco che schiudeva le palpebre e vedeva benissimo ogni cosa, da qui all'orizzonte; chi se h spalmava sugo arti malati, ecco che sentiva le gambe e le braccia rattrappite o deformate distendersi e crescere e ri- cominciava a camminare e allungare meravigliato le belle mani affusolate verso gli altri; chi se li spalmava sulla lingua atrofizzata, ecco che di colpo avvertiva un gradevole formicolio con cui la bocca gli si scioglieva e gli consentiva di pronunciare parole pulite e chiare.
Gli oliamondo, dunque, erano capaci di curare o prevenire i disturbi di vista, la tendenza al nanismo e la paralisi della lingua. Erano perciò considerati ambasciatori della salute, bravi terapeuti, specialisti nelle cure preventive. Eppure, loro stessi erano malati inguaribili.
Sì, malati inguaribili. Dal primo all'ultimo, gli olia- mondo che giravano tra l'uno e l'altro paese attraverso la lunga galleria, soffrivano di uno strano male. Nel Seicento un giovane studente di medicina, all'Università di Basilea, coniò per definire questo disturbo la parola " nostalgia ", che significa " dolore del ritorno ". Non era, come si credette quattro secoli fa, una malattia mortale, ma di certo inguaribile, cronica. Il suo sintomo principale si manifestava come una sorta di perdita della memoria. Che non era totale, e non era irreversibile. Per meglio dire, la memoria degli oliamondo se ne andava e tornava a casaccio.
La conseguenza più visibile del disturbo era uno stato di confusione interiore, confusione che all'esterno si traduceva in atteggiamenti inusitati, e perciò guardati con sospetto. La normalità vuole i suoi riti, e i riti reclamano gesti ben precisi, parole ben precise. Gli oliamondo, ancorati alla gestualità e alla lingua del paese d'origine, dimenticavano continuamente le parole e i gesti nuovi e così, nel migliore dei casi, apparivano agli occhi degli altri come esseri bizzarri, stravaganti. Loro stessi erano convinti fosse l'effetto di una maledizione, una sorta di scomunica della loro terra nativa che in questa maniera li puniva per aver violato la sua flora, rubato ed esportato i suoi segreti.
La ragione della loro malattia era però un'altra: gli oliamondo camminavano per giorni e settimane e mesi interi in sola compagnia di uno scrigno fissato sulle spalle a mo' di gerla, scrigno pieno di boccette di terracotta riempite fino all'orlo con oli essenziali e, a causa del percorso accidentato che a ogni passo faceva sobbalzare e metteva a sconquasso l'intero contenuto dello scrigno, da quella miscela di essenze, non priva di poteri magici, si effondevano efflussi estremamente intensi. Questi penetravano nelle narici degli oliamondo e dalle narici scendevano nei polmoni e dai polmoni salivano alla testa e lì si depositavano, solidificandosi. Col tempo si andavano addensando nelle cavità del cranio fino a formare uno strato sottile che copriva tutto il cervello. Era un processo naturale - come la trasformazione della rugiada, a causa dei freddo, in brina - e gli oliamondo non se ne sarebbero neppure accorti se non ci fosse stata, appunto, quella perdita e riacquisto, a singhiozzo, della memoria.
La loro vita quotidiana divenne un inferno. Uno se ne stava, poniamo, seduto a tavola con i suoi nuovi amici e alzava il braccio con l'intenzione di dire " mi dareste il pepe? " e di colpo dimenticava la parola " pepe ", restava con la mano sospesa e gli altri lo guardavano senza capire il suo gesto. L'olíamondo passava il resto del pranzo in silenzio, concentrato su quella parola mancata e mangiando la bistecca insipida. Alla fine riusciva a ricordare, ma nel frattempo aveva dimenticato a cosa gli servisse, quel benedetto pepe, aveva dimenticato il significato di quel gesto abituale con cui la gente attorno a lui spargeva o macinava pizzichi di pepe sopra la bistecca e così, quando gli tornò in mente la parola e chiese gioioso " mi dareste il pepe? ", davanti a lui vi era ormai il piatto con il dolce e i commensali lo guardavano come si guarda un matto.
L'oliamondo corse ai ripari: andò a consultare un saggio. Il saggio lo ascoltò con aria saggia, si fece adeguatamente pensieroso e domandò: " Quali sono le spezie che mettevi sulla bistecca nel tuo paese? "
Il viso dell'oliamondo si illuminò: " Lo zafferano ", disse.
" Lo immaginavo ", annuì il saggio. " Per ricordarti la parola "pepe" e a che ti serve, devi dimenticare lo zafferano. "
" Ma io già l'ho dimenticato ", sospirò l'infelice oliamondo.
" Non abbastanza ", scosse la testa il saggio. " Non è sufficiente dimenticare la parola. Devi dimenticare anche il colore, il sapore e il profumo dello zafferano. "
E l'oliamondo seguì il consiglio del saggio e imparò alla perfezione a pronunciare la parola " pepe ", a girare la manovella del macinino che seguiva ubbidiente le sue dita. Guardava, soddisfatto, la polvere nera in cui si riducevano le palline essiccate stipate nel macinino e si credette guarito.
Ma poi arrivò puntualmente la fase successiva della malattia. Proprio quando il suo portatore si sentiva ormai rassicurato dalle nuove parole e dai nuovi gesti, le essenze dentro di lui tornavano a evaporare, liberando in tal modo un frammento della testa e della memoria e facendo riaffiorare i vecchi nomi, i vecchi gesti. Fu così per tutti e per ogni cosa e, in breve, tutto ciò che circondava gli oliamondo divenne doppio, ebbe due colori, due sapori, due odori, due forme, e l'oliamondo ammalato raramente riusciva a capire quali erano i colori le forme i sapori gli odori reali e quali quelli immaginari creati dalla sua malattia - il pepe era assieme nero come il pepe deve essere e giallo come il pepe non deve essere ma lo è lo zafferano; per non parlare del suo sapore assieme agrodolce e amarognolo - e continuava a sbagliare e a dare a ogni cosa a portata di mano due nomi, a usarla in due maniere differenti.
A causa di questi atteggiamenti gli oliamondo, oltre a considerarsi loro stessi maledetti, erano giudicati dagli altri individui inaffidabili, forieri di ogni caos, o quantomeno strambi. E come tali, pur se tollerati e considerati per le loro capacità terapeutiche, erano spesso trattati con sufficienza, se non con ostilità, tanto nell'uno quanto nell'altro paese. Le cose andarono avanti in questa maniera per molti secoli; ma i venditori ambulanti delle essenze curative non si arresero e continuarono a viaggiare trascinando per A mondo le loro radici macerate o polverizzate e a curare gli abitanti delle terre straniere. E continuarono a dimenticare e a ricordare e a cercare le cause della loro malattia. Una volta scoperte, i più ricchi, per difendersi e perciò allontanarsi fisica- mente dagli aromi dei loro preparati erboristici, sostituirono lo scrigno legato sulle spalle con un carro trainato da uno o due cavalli. E perché il carro non dovesse fare tutta quella strada semivuoto - di radici medicamentose nemmeno un ricco riusciva ad accumulare più di quanto ne possa entrare in uno scrigno - e perché il cavallo o i cavalli meritassero il foraggio quotidiano, gli oliamondo benestanti cominciarono a caricare sul carro anche altra merce e più avanti, constatando il guadagno che ne ricavavano, solo altra merce. Così, pian piano, il loro mestiere venne a somigliare sempre più a quello degli erbi- vendoli comuni e dei venditori ambulanti di checchessia e finì per essere dimenticato. Di oliamondo autentici non rimasero altre tracce che la memoria dei loro passaggi attraverso la galleria.
In uno dei due paesi viveva una ragazzina di nome Aga. Aga venne a conoscenza della storia degli oliamondo e se ne innamorò e volle ripercorrere ogni luogo da loro frequentato. Come gli oliamondo, anche lei si munì di una piccola vanga e una sacca e salì sui monti e si addentrò nei boschi e incise cortecce di alberi secolari in cerca di linfe medicamentose e scavò ed estrasse cumuli di terra coi grovigli di radici e riempì la sua sacca fino all'orlo. A casa dirozzò e triturò e macerò il ricavato e ne colmò molte boccette di terracotta. Infine ripose le boccette in un capiente scrigno antico, si legò lo scrigno sulle spalle ed entrò nella galleria.
Le fu necessario un po' di tempo per abituarsi alla semioscurità di quel cunicolo sotterraneo. Procedette ciampicando tra i solchi e le sporgenze della pavimentazione pietrosa e lo scrigno sulle sue spalle, oscillando e rimbalzando, emanò profumi così intensi che i primi sintomi della malattia degli oliamondo furono immediati e parti- colarmente acuti.
Dalla luce fioca della galleria emersero pian piano numerose figure, minute e opache, ombre umane senza consistenza. Alcune si muovevano confusamente su e giù per la galleria, altre sostavano appiattite contro le pareti e tutte, senza eccezione, tenevano strette in mano minuscole lanterne spente; e quelle lanterne, pur senza lumini accesi, erano le uniche cose ad avere fattezze precise. " Perché non le accendete? " trovò il coraggio di domandare Aga a una delle ombre che in quel momento, velocissima, le sfrecciava a fianco. " Solo tu lo puoi fare ", ríspose l'ombra. " Allora fermati ", la rimbeccò Aga mettendo la mano in tasca in cerca di una scatoletta di fiammiferi. " Solo tu mi puoi fermare ", rispose l'ombra e corse via. " E come devo fare? Chi siete? " le gridò dietro Aga. L'ombra si girò e per un attimo i suoi occhi brillarono nel buio come due lucciole: " Noi siamo i tuoi ricordi! "
Aga sorrise e immaginò i visi delle persone che aveva amato, e i luoghi in cui le aveva frequentate, immaginò gli edifici. le strade, le piazze, i giardini, le periferie collinose della sua città, ma era come proiettare vecchie diapositive segnate dalle unghie dei tempo su un muro sgretolato. Meno reali e più ingannevoli delle fatemorgane nel deserto, non una sola di quelle immagini la commosse, intenerì, rallegrò o rattristò, non un solo fatto o episodio vissuto in quegli edifici strade piazze giardini periferie provocò un briciolo di gioia o di amarezza, di rimpianto o di sollievo. Aga guardò le lanterne spente che oscillavano davanti a quelle figure caligínose e fosche e cominciò a capire. E decise che avrebbe fatto a meno dei suoi ricordi e attraversò il resto della galleria sforzandosi di non pensare a niente.
All'uscita, alle soglie del paese straniero in cui si accingeva a entrare, la prima cosa che colpì i suoi occhi fu un incrocio riservato al transito dei pedoni. Nonostante l'intersecarsi di innumerevoli passaggi pedonali, vi mancava totalmente la segnaletica e una moltitudine di persone, che stava attraversando l'incrocio con fretta più o meno evidente, pareva ignorare qualsivoglia regola o divieto. Ciascuno sembrava osservare solo logiche e leggi proprie. C'era chi si immetteva automaticamente in coda alla prima fila che incontrava, chi sorpassava tutti scontrandosi violentemente con coloro che venivano dalla parte opposta, chi scendeva dalle strisce pedonali mettendo a repentaglio la propria vita, chi si piazzava al centro dell'incrocio, richiamava l'attenzione agitando le mani e poi, con arringhe interminabili e piene di arzigogolo, sfoggiava la sua arte oratoria per convincere gli altri a seguire le sue indicazioni. Di tanto in tanto, la gente si metteva a correre all'impazzata, tutta insieme, e alle voci urlanti si mescolava un fragore nuovo, come di urto o attrito rovinoso; un uomo gridò " bombaroli! " e alzò una mano per indicare qualcosa alla propria destra, un secondo uomo gridò " terroristi! " e alzò una mano per additare qualcosa alla propria sinistra, e un terzo uomo non fece in tempo a gridare e abbassò tutte e due le mani fino a toccare l'asfalto, che si tinse di rosso. Aga ammutolì, si fermò, quindi fece, esitante, qualche passo e poi si fermò ancora e si girò guardandosi attorno, osservando il primo, poi il secondo, poi il terzo bivio, e altri ancora, alla ricerca di segnali. I rumori di quel traffico umano erano assordanti; Aga si premeva le mani alle orecchie ma i suoni le grida i fischi tumultuosi cupi stridenti l'aggredivano ugualmente e lei continuava a girare su se stessa, cercando di orientarsi, e girava sempre più velocemente, come se ai suoi occhi fosse impossibile posarsi su qualcosa. Alla fine girava con una tale velocità da sembrare una trottola e il paesaggio intorno a lei era sempre più confuso e dopo un po' non vide altro che un amalgama di linee colori ombre e cadde a terra, sfinita.
Scoppiò a piangere e volle nascondersi il viso tra le mani, ma uno dei suoi occhi si spalancò affacciandosi a una fessura tra le dita come un curioso a una finestrella. E così, stupefatta, Aga vide che gli edifici che le strade che le piazze che i giardini che le colline intorno alla città in cui era arrivata erano sosia perfetti degli edifici strade piazze giardini colline lasciati dall'altra parte della galleria. Quella straordinaria somiglianza altro non era che un nuovo sintomo della malattia degli oliamondo, ma lei non lo sapeva e, smarrita, si mise a correre indietro, verso la galleria. E vi entrò e la ripercorse in direzione opposta.
Solo all'uscita, sulla soglia del proprio paese, s'avvide con sgomento di avere ancora sulle spalle lo scrigno pieno di radici medicamentose invendute. Caparbia, tornò sui propri passi e s'incamminò una seconda volta lungo il corridoio obliquo della galleria. Inciampò di nuovo, di nuovo tentennò all'incrocio dai segnali inesistenti, girò su se stessa come una trottola, pianse, fuggì e tornò.


Impossibilitata a fermarsi di qua, impossibilitata a fermarsi di là, cuore mente in sospeso, Aga indugiava sempre più a lungo nel bel mezzo della galleria. Ancora un tentativo per andare, un altro per tornare e quindi, esausta, si fermò defínitivamente. Allentò le cinghie con le quali aveva legato lo scrigno sulle spalle, lo fece scivolare delicatamente a terra, lo aprì e cominciò a toglierne tutte le boccette di terracotta, depositandole, a una a una, lungo le pareti della galleria.

Lessi l'ultima riga tre, cinque, dieci, venti volte. In modo ossessivo, come se la carta su cui tanti anni prima avevo scritto quella fiaba fosse un campo magnetico che calamitava i miei occhi, attirandoli a sé senza sosta.
A una a una, lungo le pareti della galleria... A una a una, lungo le pareti della galleria... L'ultima parola della riga si riagganciava immediatamente alla prima come quando da bambina, a scuola, dovevo scrivere venti, trenta, cinquanta volte di seguito la stessa frase: 
" Durante la lezione non devo fare dei disegni sotto al banco ". Scrivevo, ubbidiente; dal cortile mi giungeva il vociare allegro dei miei compagni di classe, era l'ora della ricreazione e io ero costretta, per punizione, a rimanere in classe da sola, mettevo i puntini davanti a ogni frase già scritta per poterle contare più facilmente, ma i puntini si allargavano sotto la penna ribelle, diventavano caricature di volti, motivi floreali, mosaici, e l'insegnante, esasperato, scriveva una nota di demerito sul mio diario. Adesso questa cat- tura dei miei occhi, che costringeva la mente a un incessante ritornello, mi sembrò un'altra espiazione per un'altra colpa, per un'altra fuga, che non era quella da una lezione noiosa nel regno della fantasia.
Smisi quando il buio mi impedì di distinguere le parole.
(da Jarmila Ockayová,  L'essenziale è invisibile agli occhi, Baldini&Castoldi, 1997)



Incontro con Jarmila Ockayová



Cinzia Brancaleoni e Alessandra Mari
(Liceo Classico "L.Ariosto" - Ferrara)



Per sensibilizzare gli alunni alla problematica del "diverso" si è proposta la lettura di una scelta antologica tratta dai romanzi L'essenziale è invisibile agli occhi e Requiem per tre padri e dal saggio Al di là della parola di Jarmila Ockayova.
La classe IV R, divisa in gruppi, ha approfondito il tema relativo al contrasto tra apparenza e realtà operando un confronto tra la scrittrice slovacca e alcune opere di L. Pirandello (Il fu Mattia Pascal e Enrico IV): il terreno comune era costituito dalla "metafora del teatro" attraverso la quale entrambi gli scrittori vanno ad indagare quanto, all'interno dell'animo umano, sia sottile ma profondo, a volte invisibile ma significativo il confine tra realtà e finzione. Durante il percorso di analisi sono stati ovviamente analizzati anche i diversi stili narrativi dei due autori.
La discussione a classi aperte ha focalizzato alcune tematiche essenziali dei testi della Ockayova esaminati: la percezione di sé e del mondo che scaturisce non dagli sguardi degli altri, ma dal proprio "occhio interiore"; la multiculturalità vista come il superamento dello sdoppiamento fra due essenze.
Da ultimo ci si è soffermati sul titolo del romanzo della scrittrice cecoslovacca L'essenziale è invisibile agli occhi tratto da una frase dell'opera di Saint-Exsupéry Il piccolo principe, di cui è stata approfondita la lettura evidenziando il significato che la fiaba, cioè l'immaginario, assume nella coscienza dell'uomo (la fiaba è presente anche in un capitolo del libro della Ockayova). 
A queste letture critiche è seguito un lavoro di drammatizzazione nel quale gli studenti hanno messo a confronto i testi letti dei quali hanno rappresentato e sottolineato i passaggi, secondo la loro sensibilità, più efficaci.
L'incontro con la scrittrice ha costituito un momento fondamentale del percorso a cui gli alunni sono giunti dopo una fase preparatoria nella quale sono state scelte e raccolte le domande che sembravano più pertinenti ma anche più curiose. L'esperienza per i ragazzi è stata assai positiva poiché, come ha scritto uno di loro, "non capita tutti i giorni di vivere un'esperienza così diretta, che ti dà la possibilità di comprendere la differenza tra l'apprendimento razionale e quello emotivo: l'autore del libro esce dalle proprie pagine, dalla formalità di un rapporto letterario e si materializza raccontando se stesso".





Incontro con Jarmila Ockayová



Licia Zanni e Emilia Naldi
(Liceo Scientifico "A. Roiti" - Ferrara)


Il Liceo scientifico Roiti già da alcuni anni propone agli studenti un progetto dal titolo "DIRITTI UMANI ED INTERCULTURALITA'", in sintonia con una delle finalità qualificanti presenti nel POF d'Istituto. Per questo alcune classi, che hanno aderito alle iniziative previste per l'anno scolastico 2001-02, hanno partecipato al Convegno nazionale sugli scrittori migranti dopo aver letto il romanzo L'essenziale è invisibile agli occhi di Jarmila Ockayová e incontrato la scrittrice. 
L'opportunità offerta agli studenti di confrontarsi con l'autrice sulle tematiche affrontate nell'opera stessa, in particolare con il tema dell'alterità, è stata particolarmente apprezzata ed ha favorito un dialogo fitto ed intenso che si è protratto oltre il tempo previsto. La felicità narrativa di Jarmila, già constatata nella prima fase del progetto attraverso la lettura, ha trovato conferma in una grande generosità umana e disponibilità al dialogo, che supera, quando forte è la passione educativa, ogni barriera di età e di cultura. 


"Straniera in un paese straniero"
Irene Sacchi e Maria Giulia Bernardini

Lontana ma vicina, diversa e fiera di esserlo ma integrata.
Questo è ciò che è emerso dall'interessante incontro con Jarmila Ockayova, autrice del romanzo "L'essenziale è invisibile agli occhi", intervenuta nell'ambito del primo convegno nazionale degli scrittori migranti.
Nel suo romanzo Jarmila, tramite Agata, protagonista del libro nonché suo alter ego, esprime i suoi disagi di donna e di straniera in Occidente.
Tale diversità si riscontra in molteplici piani: in quanto donna è vittima di sottili discriminazioni causate dalla sua condizione di divorziata in un mondo occidentale in apparenza aperto, ma in realtà avente un'ottica prevalentemente maschilista, come, seppur molto più marcatamente, nel mondo orientale; in quanto straniera si trova spesso a dover combattere contro pregiudizi e diffidenza, mentre la ritrovata indipendenza dopo la fine del suo matrimonio la porta a non riconoscersi più, in quanto abituata ad appoggiarsi ad una figura maschile (il padre prima ed il marito poi).
Parlando molto affabilmente con noi, Jarmila ha però dimostrato di aver tramutato questi aspetti di emarginazione, che molto spesso possono portare ad una fragilità psicologica, in propri punti di forza grazie ai quali riesce ad analizzare il reale con estrema lucidità e razionalità, giungendo ad affermare che la ricerca di uno scopo nella vita è in realtà vivere la vita stessa.
Tale forza è evidenziata dalla sua continua capacità di mettersi in gioco e vivere fino in fondo le situazioni che le si presentano senza ignorare le emozioni che ne derivano.
Non si può far altro che rimanere affascinati da una donna che ha avuto il coraggio di lasciare la propria terra d'origine e di vivere in una nuova cultura che ha dovuto interiorizzare effettuando una mediazione tra passato e presente pur mantenendo le proprie peculiarità.
Dopo dieci anni di silenzio narrativo impostole dal cambiamento della lingua, Jarmila ha deciso di scrivere il suo romanzo d'esordio proprio in italiano e durante l'incontro ci ha dato conferma della sua straordinaria capacità di cogliere e saper utilizzare al meglio le sfumature di una lingua complicata come la nostra.
La forza di Jarmila è evidente nella sua volontà di mantenere la propria identità sia come donna che come straniera, in un mondo dove sempre più pressante è la spinta all'omologazione, sia estetica che culturale.
Soprattutto nel mondo occidentale infatti c'è una tendenza ad inglobare le diversità non riconoscendole come tali, ma riconducendole ad uno schema prefissato.
Come ci ha fatto notare la scrittrice, in questo modo non arriveremo mai a creare una società multiculturale, ma le singole culture andranno progressivamente sparendo in un appiattimento generale.
Trattando il diverso come se fosse uguale a noi, non acceleriamo infatti il processo di integrazione, ma, al contrario, impediamo all'altro di esprimersi non riconoscendo la sua reale identità.
Integrazione, infatti, significa rispetto dell'alterità, della quale viene riconosciuto il diritto di esistenza. La strada da seguire ci è stata indicata da Jarmila, che, forte della sua esperienza, ci ha introdotto il concetto di tolleranza attiva, che consiste nell'ascolto (distinto dal semplice "sentire") del diverso e nell'impegno a rendere la società punto d'incontro e non di scontro tra le culture.




Rapporto protagonista-interiorità
Francesco Oliviero, Alesandro Bragaglia, Andrea Mazzonni,
Paolo Antonelli, Marco Roccasalvo.

All'interno del romanzo appare molto importante il motivo del rapporto della protagonista con se stessa e la propria interiorità.
L'intero corso della storia si configura come una ricerca incessante della sua vita passata, come era nel suo paese d'origine. La protagonista infatti cerca di recidere i legami con l'ultima fase della sua vita e la storia narrata rappresenta, in questo senso, l'iter verso la nuova vita.
Questo bisogno di cambiamento si evidenzia fin dalle prime righe, dove possiamo leggere: "Avevo intenzione di fare un sacco di cose: lasciare mio padre, cambiare casa, trovare lavoro".
Agata cerca di rimuovere i propri legami con la vita vissuta fino a quel momento in Italia: questa fase è quella più negativa per lei, da cancellare per ripartire dalle esperienze del suo paese originario. Il motivo del viaggio-fuga a Bratislava è il tentativo di ricucire i brandelli di una vita e di una parte di lei, che nel periodo trascorso in Italia era rimasta inespressa, arginata da un marito interessato a lei solo per convenienze sociali, e da impegni poco stimolanti. La presa di coscienza della natura interessata dei sentimenti del marito nei suoi confronti diventa un momento di messa in discussione. In questo iter di riconquista di sé notiamo come molte sue scelte, atteggiamenti e comportamenti sembrano presentare un che di irrazionale e imponderato. La sua scelta di giocare, di avventurarsi, di rischiare, di immedesimarsi nel ruolo di spia, rientra in questo comportamento irrazionale. Nonostante ciò, anche queste sono tappe importanti verso la riconquista di sé.
Non importa, ai fini di questo, se si esponga a rischi o se sia perfettamente consapevole della propria scelta: è guidata dall'istinto, dalla sua volontà di ricominciare. Molto spesso i bisogni interiori, per essere soddisfatti, richiedono esperienze che vanno al di là del ponderato e del cosciente, qualcosa di forse involontario, ma indispensabile.
La stessa scelta di far credere di possedere del plutonio rosso può rientrare nel novero di queste scelte: pur forse consapevole del rischio cui si espone, sceglie di correrlo. Nell'ebbrezza degli eventi che kla travolgono, infine, Agata si ritrova: "Ho raccolto su di lei una valanga di informazioni, appena tornata a casa me le studierò attentamente una a una, e le userò!!!! Senza più guardare, senza più paura di essere guardata…..Mi sentirò ancora viandante e negletta, e smarrita, ma non terrò più gli occhi abbassati. Li spalancherò",


Diversità dello straniero
Carlotta Pavani, Giulia Cipriani, Valentina Pezzi,
Elena Tapetto, Davide Tonioli.

Lasciare il proprio paese, la casa, le abitudini, la lingua, le persone care; Agata affronta tutto questo all'età di quindici anni per sfuggire ad un regime che impedisce ogni libertà. E poi arriva in Italia, sente il diritto e il dovere di ricostruirsi una vita: nuova casa, nuovi amici, finalmente una propria famiglia. Ma la sua origine, le sue radici sono altre, profumano di focaccine calde, affondano profonde accanto ad esili betulle; qualcosa di diverso sopravvive in lei tanto da convincere finanza e servizi segreti che lei è una spia. Per questo, uno scherzo innocente si trasforma in un gioco pericoloso, troppo più grande di lei, che si trova protagonista inaspettata di una delirante caccia al ladro. E' bastata la sua origine slovacca ad innescare questo assurdo inseguimento, è stato sufficiente un nonnulla perché la sua diversità, il suo essere straniera muovessero sospetti.
Non è facile per Agata vivere lontano da casa, dai ricordi, dagli affetti, straniera in un paese che non le appartiene fino in fondo. Sente più viva che mai la necessità di far comprendere le sue origini, il suo mondo, il bisogno di far accettare le sue betulle alla terra che la ospita e sa che questo desiderio, che a volte "tormenta più della fame" la accomuna ad ogni straniero che, per svariate ragioni, si trova esule in un paese non suo. E d'altra parte è forte la necessità di conoscere quanto più possibile della sua nuova terra, per non sentirsi troppo sola: per questo Agata ancora ragazzina, arrivata da poco in Italia, si mescolava ai gruppi di ragazzi nelle piazze, con il solo desiderio di conoscere parole, ancora parole per poter esprimersi in quei luoghi nuovi e sconosciuti. Sola nel nuovo paese, scrive ai nonni, ma non esistono parole, nemmeno nella sua lingua d'origine, per spiegare loro cosa realmente significhi vivere lontano da casa: inventa così una nuova fiaba in cui i protagonisti, gli Oliamondo, erano, come lei, esuli. Come lei portano dentro di sé le loro origini, il loro mondo, la loro lingua, ma agli occhi dei nuovi ospiti appaiono strani, diversi, vengono trattati "con sufficienza se non con ostilità" e nemmeno tornando alla loro terra riescono più a sentirsi a casa, è come se vivessero a metà strada fra due realtà, nessuna delle quali però appartiene loro veramente. E così per la giovane Agata, già troppo distante dalla sua Slovacchia, mai abbastanza vicina all'Italia. Anche a distanza di anni continuano a convivere in lei due culture, due diverse concezioni della vita e "…qualche volta fai fatica a masticare e a deglutire con due lingue nella bocca […] e ti chiedi se non sarebbe meglio, per semplificarti la vita, amputare la vecchia lingua, ma poi ti abitui…", perché forse è impossibile dimenticare davvero, come è impossibile scordare la casa dei nonni, che riempie di nostalgia i pensieri di Agata ogni volta che si trova in un vecchio casolare, o il calore di Peter. Lui, così tenero e protettivo, era stato il suo punto di riferimento negli anni a Bratislava, l'addio più difficile e forse l'arrivo in Italia, l'abbandono di questo posto sacro, fanno nascere in lei il bisogno di appoggiarsi a qualcuno capace di farla sentire di nuovo al centro di qualcosa di importante. Così "Angelo divenne l'angelo" il ponte di collegamento con il suo nuovo mondo, l'ancora di salvezza in una terra sconosciuta. Ma forse ora capisce che non dovrà essere un'altra persona a farla sentire a casa, sa che tutto dipende da lei e che probabilmente è Agata proprio perché non appartiene ad un altro mondo, ma sarà per sempre "…due volte straniera per sentirsi due volte a casa…"


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