Carmine Abate

Nato nel 1954 a Carfizzi, un paese arbëresh – cioè italo-albanese – della Calabria, è emigrato da giovane ad Amburgo, dove lavorava la sua famiglia, e poi in diverse città del Nord Italia e della Germania. Attualmente vive in Trentino, dove insegna.
Come narratore ha esordito nel 1984 in Germania con la raccolta di racconti Den Koffer und weg! (ed. italiana ampliata, Il muro dei muri, 1993). Ha pubblicato, tra l’altro, una ricerca socio-antropologica sull’emigrazione, Die Germanesi, con Meike Behrmann (Campus Verlag, 1984), il libro di poesie Terre di andata (Argo, 1996) e i romanzi: La moto di Scanderbeg (Fazi, 1999; ed. tascabile 2001, premio Crotone, Libero Bigiaretti e Racalmare-Leonardo Sciascia) e Il ballo tondo (1991, ristampato da Fazi nel 2000,  premio internazionale dei lettori Arge Alp). Con il suo ultimo romanzo Tra due mari (Mondadori, 2002), giunto alla terza edizione, ha vinto i Premi: “Società dei Lettori di Lucca”, “Domenico Rea – Ischia”, “Matelica-L. Bigiaretti”, “Rhegium Julii – Corrado Alvaro” ed è tra i vincitori del Premio Stresa e del Premio Fenice Europa. I suoi libri sono tradotti in molti paesi.

 

  Partenza

Che ne sapevo di lui? Un giorno di luglio fu arrestato e sparì dalla mia vita per anni, senza che nessuno si degnasse dì raccontarmi la sua storia. Ero un bambino. Quel poco che sapevo erano bugie, col tempo le dimenticai.
   
A volte, però, se la nostalgia mi prendeva a tradimento durante il sonno, inseguivo l'eco di una voce lontana e all'improvviso precipitavo nel vuoto della notte, fino a quando planavo sudato al suo paese. Nella piazza o nei bar sentivo levarsi il nome e cognome di lui come una folata di vento: «Giorgio Bellusci!». Ritrovavo il suo sguardo sgherroso. Il calore delle sue mani enormi. E soprattutto il mio affetto per lui, perché un uomo come Giorgio Bellusci puoi dimenticarlo quanto vuoi, ma alla fine ti rinasce prepotente più di prima.
   
«Ben arrivato, Florian» mi diceva dandomi un bacio sulla fronte. E di nuovo spariva.
Oltre il Fondaco del Fico, in direzione del mare, non si vedono altro che colline argillose, boschi di lecci e burroni imbottiti di rovi. Tutt'intorno montagnole grinzose e secche, simili a sterco di vacca depositato qua e là. La strada che sale al paese di mia madre pareva massacrata da un bombardamento aereo, buche profonde disseminate a zig zag lungo una serpentina
zeppa di crepe. La nostra Volvo station wagon arran­cava in salita, nell'afa. Mio padre guidava, ansioso, e sbuffava, forse soffriva più di me, però non diceva niente.
   
Avevo resistito da Amburgo fino all'uscita dell'au­tostrada, per 2581 chilometri di noia e sofferenza, co­me un'ape in un bicchiere capovolto, a inseguire ca­rovane di macchine sempre più veloci della nostra e poi l'interminabile fila di oleandri in fiore; ma quel tratto finale era il più vomitevole, nel senso che a vol­te mi faceva vomitare.
   
Stavo arrivando per le vacanze lunghe e già volevo tornare indietro.
   
Il paese è appoggiato come un ferro di cavallo su una collina tra due mari, lo Ionio e il Tirreno. Ha un bel nome, Roccalba, ma io lo chiamavo con disprezzo Roccalda, per via della cappa afosa che lo schiaccia tutta l'estate senza pietà.
   
Mia madre annunciava ogni due minuti: «Klaus, Florian, wir sind gleich da! », e c'indicava un cardo an­cora fiorito o i fichi nivurelli, le susine verdelle o le melagrane già spaccate dal caldo, con l'entusiasmo di chi sta entrando in paradiso. Mio padre guardava in avanti come un naufrago, con la speranza di avvistare al più presto il cartello arrugginito col nome Roccalba. Riprendeva a sorridere solo quando poggiava il primo piede in paese e non la smetteva più, col suo sorriso artificiale, per tutta la vacanza. La mamma, lei sì, era felice davvero. Rivedeva i genitori, la sorella Elsa e la nipote Teresa, gli amici d'infanzia, i vicoli, le zimbe con i maialini, le cicale sugli ulivi, le timpe dietro la chiesa, i garofani screziati sui balconi, le rondini nel cielo grande; «hai mai visto un cielo così grande, Florian?» mi chiedeva pur sapendo che non le avrei ri­sposto, «la notte si vedono tutte le stelle del firma­mento, giù giù fino al mare, all'infinito». E finalmente rivedeva il Fondaco del Fico. L'accompagnava il padre, Giorgio Bellusci, nella tarda mattinata: loro due, soli nella calura, in mezzo alla campagna, a parlare con gusto dopo un anno, davanti ai resti dell'antica locanda di famiglia, un tempo la più famosa della Calabria, si vantava lei.
 «Sì, può darsi, ma oggi è una sputazzata nell'occhio, un muro di pietre in parte abbrustolite che fa brutta mostra di sé tra roveti e cespugli di fico selvatico» aveva provato a smontarla una sera zio Bruno, il marito di zia Elsa, senza un briciolo di tatto. In un lampo la mamma era diventata furiosa e lo aveva colpito con una mitragliata di «ignorante deficiente tamarro, che ne sai tu della storia del nostro Fondaco? Tu sai solo mangiare». Stavamo finendo di cenare. Giorgio Bellusci invece non si era scomposto, anzi aveva sorriso divertito. Poi, con uno sputo carico di semi d'anguria, aveva puntato l'occhio destro di zio Bruno e lo aveva centrato in pieno. «Ecco che cos'è una sputazzata nell'occhio» aveva sentenziato infine. Tutti ci eravamo messi a ridere, pure zia Elsa e la figlia Teresa, tutti, tranne zio Bruno, che aveva fissato il suocero con un occhio torvo e l'altro imbrattato di saliva e semi d'anguria. Ma tutti avevamo capito che i resti del Fondaco del Fico andavano rispettati, come quelli di un morto della famiglia. E che presto Giorgio Bellusci li avrebbe fatti rinascere.

Sì, soprattutto questo sapevo di lui: che amava il Fondaco del Fico come si ama un familiare, forse un po' di più. E che era il padre di mia madre, cioè mio nonno. Un uomo per molti versi premuroso che purtroppo non ero mai stato capace di chiamare nonno, forse perché l'avevo visto un mese all'anno e per giunta quasi soltanto ai pasti. Da quando era sparito senza nemmeno salutarmi, dentro mi bruciava un'indifferenza rancorosa e mi dicevo che a me di lui non importava niente perché a lui di me importava meno di niente. Mai che si facesse vivo con una lettera o una cartolina o una telefonata. Pareva inghiottito per sempre dal mare d'afa che aveva inondato Roccalba l'estate del suo arresto.

Per fortuna, proprio mentre la distanza tra noi stava diventando incolmabile, seppi del suo viaggio giovanile. All'inizio dalla mamma, poi dalla nonna, infine da Hans Heumann e dalle sue foto. Ero un ragazzo; la prima volta ascoltai con apprensione. A tratti su­dai. «II paese puzzava d'estate» cominciò a racconta­re la mamma e mi sembrò di ascoltare l'eco di un canto già sentito chissà quando e che ancora oggi mi insegue ovunque, come un coro di cicale invisibili o di rondini furibonde. Di colpo vidi Giorgio Bellusci sotto una luce più chiara, distinsi le sue tracce sulla polvere e mi aggrappai a lui con tutte le mie forze.

 

(Da Carmine Abate, Tra due mari, Mondadori, 2002, pp. 9-12)

 

   


Incontro con Carmine Abate


 

Alberto Melandri
(Liceo sociale "G.Carducci" - Ferrara)

 

Il romanzo di Carmine Abate, Tra due mari , si presta ad una utilizzazione didattica in una scuola superiore, per l’interesse che può suscitare nei lettori, per le tematiche, anche interculturali, che affronta, e per lo stile chiaro, ma ricco di suggestioni e adatto a stimolare una lettura attenta.
Un percorso possibile potrebbe iniziare dalla lettura in classe della ‘partenza’ (il 1° capitolo).

Del resto il MARE ricorre nel romanzo anche con un uso metaforico (“mare d’afa” p.12 “mare di viti e di  olivi”  p.48 ) e il campo semantico da esso derivato si ritrova  anche a proposito del Fondaco del fico, paragonato ad una nave (p.190),  nell’” isola di rovi” (p.48) e già in questo primo capitolo Florian dice: “Mio padre guardava in avanti come un naufrago”(p.10).

Una volta terminata la lettura del primo capitolo possono essere stimolati altri interventi didattici:

1)     un esame della struttura narratologica del romanzo che presenta caratteristiche di circolarità: dall’incontro di Giorgio Bellusci con Hans Neumann, che troviamo all’inizio, alla morte dei due amici che sembra concludere il romanzo, sembra, perché in realtà il racconto non finisce con le ultime parole del nipote di Giorgio, appunto Florian.

2)     un esame della divisione in capitoli: una Partenza, quattro Viaggi ed una  Sosta finale.Ogni Viaggio ne contiene altri: il primo è il viaggio di Giorgio verso Bari nel 1950, che contiene la memoria storica del viaggio di Dumas al Fondaco del Fico; il secondo è il viaggio di Rosanna, la figlia di Giorgio e madre di Florian verso Amburgo, seguito dal ritorno a Roccalba, di Rosanna stessa sposata con i figli; dentro questo viaggio c’è anche quello di Gioacchino, padre di Giorgio, in America e ritorno e quello di Giorgio ad Amburgo; il terzo viaggio è quello di Florian già grande  a Roccalba, con l’appendice del  ‘salto’ a Lugano per prendere i soldi per il Fondaco dal nonno Hans Neumann; il quarto viaggio è il viaggio verso la morte di Giorgio ed Hans, massacrati dalla mafia, che non ha tollerato lo sgherro di Giorgio, che aveva ucciso l’esattore della ‘Ndrangheta che lo minacciava. In questi spostamenti alcuni particolari atmosferici provocano un effetto di ‘spiazzamento’ (Amburgo col sole e la Calabria innevata) coerente con la messa in discussione dei luoghi comuni, che caratterizza tutta la produzione letteraria di Abate.

3)     Un utile esercizio può poi riguardare l’esame delle modalità narrative (discorso diretto, discorso indiretto libero, focalizzazione su un personaggio diverso dal narratore) che si riscontrano il tutta l’opera.


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