Carmine
Abate Nato nel 1954 a Carfizzi, un
paese arbëresh – cioè italo-albanese – della Calabria, è emigrato
da giovane ad Amburgo, dove lavorava la sua famiglia, e poi in diverse
città del Nord Italia e della Germania. Attualmente vive in Trentino,
dove insegna.
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Che ne
sapevo di lui? Un giorno di luglio fu arrestato e sparì dalla mia vita per
anni, senza che nessuno si degnasse dì raccontarmi la sua storia. Ero un
bambino. Quel poco che sapevo erano bugie, col tempo le dimenticai.
A volte, però, se la nostalgia mi prendeva a tradimento
durante il sonno, inseguivo l'eco di una voce lontana e all'improvviso
precipitavo nel vuoto della notte, fino a quando planavo sudato al suo paese.
Nella piazza o nei bar sentivo levarsi il nome e cognome di lui come una folata
di vento: «Giorgio Bellusci!». Ritrovavo il suo sguardo sgherroso. Il calore
delle sue mani enormi. E soprattutto il mio affetto per lui, perché un uomo
come Giorgio Bellusci puoi dimenticarlo quanto vuoi, ma alla fine ti rinasce
prepotente più di prima.
«Ben
arrivato, Florian» mi diceva dandomi un bacio sulla fronte. E di nuovo spariva.
Oltre il Fondaco del Fico, in direzione del mare, non si vedono altro che
colline argillose, boschi di lecci e burroni imbottiti di rovi. Tutt'intorno
montagnole grinzose e secche, simili a sterco di vacca depositato qua e là. La
strada che sale al paese di mia madre pareva massacrata da un bombardamento
aereo, buche profonde disseminate a zig zag lungo una serpentina
Avevo resistito da Amburgo fino all'uscita dell'autostrada,
per 2581 chilometri di noia e sofferenza, come un'ape in un bicchiere
capovolto, a inseguire carovane di macchine sempre più veloci della nostra e
poi l'interminabile fila di oleandri in fiore; ma quel tratto finale era il più
vomitevole, nel senso che a volte mi faceva vomitare.
Stavo arrivando per le vacanze lunghe e già volevo
tornare indietro.
Il paese è appoggiato come un ferro di cavallo su
una collina tra due mari, lo Ionio e il Tirreno. Ha un bel nome, Roccalba, ma io
lo chiamavo con disprezzo Roccalda, per via della cappa afosa che lo schiaccia
tutta l'estate senza pietà.
Mia madre
annunciava ogni due minuti: «Klaus, Florian, wir sind gleich da! », e
c'indicava un cardo ancora fiorito o i fichi nivurelli, le susine verdelle o
le melagrane già spaccate dal caldo, con l'entusiasmo di chi sta entrando in
paradiso. Mio padre guardava in avanti come un naufrago, con la speranza di
avvistare al più presto il cartello arrugginito col nome Roccalba. Riprendeva a
sorridere solo quando poggiava il primo piede in paese e non la smetteva più, col suo sorriso artificiale, per
tutta la vacanza. La mamma, lei sì, era felice davvero. Rivedeva i genitori, la
sorella Elsa e la nipote Teresa, gli amici d'infanzia, i vicoli, le zimbe con i
maialini, le cicale sugli ulivi, le timpe dietro la chiesa, i garofani screziati
sui balconi, le rondini nel cielo grande; «hai mai visto un cielo così grande,
Florian?» mi chiedeva pur sapendo che non le avrei risposto, «la notte si
vedono tutte le stelle del firmamento, giù giù fino al mare, all'infinito».
E finalmente rivedeva il Fondaco del Fico. L'accompagnava il padre, Giorgio
Bellusci, nella tarda mattinata: loro due, soli nella calura, in mezzo alla
campagna, a parlare con gusto dopo un anno, davanti ai resti dell'antica locanda
di famiglia, un tempo la più famosa della Calabria, si vantava lei.
«Sì, può darsi, ma oggi è una
sputazzata nell'occhio, un muro di pietre in parte abbrustolite che fa brutta
mostra di sé tra roveti e cespugli di fico selvatico» aveva provato a
smontarla una sera zio Bruno, il marito di zia Elsa, senza un briciolo di tatto.
In un lampo la mamma era diventata furiosa e lo aveva colpito con una
mitragliata di «ignorante deficiente tamarro, che ne sai tu della storia del
nostro Fondaco? Tu sai solo mangiare». Stavamo finendo di cenare. Giorgio
Bellusci invece non si era scomposto, anzi aveva sorriso divertito. Poi, con uno
sputo carico di semi d'anguria, aveva puntato l'occhio destro di zio Bruno e lo
aveva centrato in pieno. «Ecco che cos'è una sputazzata nell'occhio» aveva
sentenziato infine. Tutti ci eravamo messi a ridere, pure zia Elsa e la figlia
Teresa, tutti, tranne zio Bruno, che aveva fissato il suocero con un occhio
torvo e l'altro imbrattato di saliva e semi d'anguria. Ma tutti avevamo capito
che i resti del Fondaco del Fico andavano rispettati, come quelli di un morto
della famiglia. E che presto Giorgio Bellusci li avrebbe fatti rinascere.
Sì, soprattutto questo sapevo di lui: che amava il
Fondaco del Fico come si ama un familiare, forse un po' di più. E che era il
padre di mia madre, cioè mio nonno. Un uomo per molti versi premuroso che
purtroppo non ero mai stato capace di chiamare nonno, forse perché l'avevo
visto un mese all'anno e per giunta quasi soltanto ai pasti. Da quando era
sparito senza nemmeno salutarmi, dentro mi bruciava un'indifferenza rancorosa
e mi dicevo che a me di lui non importava niente perché a lui di me importava
meno di niente. Mai che si facesse vivo con una lettera o una cartolina o una
telefonata. Pareva inghiottito per sempre dal mare d'afa che aveva inondato
Roccalba l'estate del suo arresto.
Per fortuna, proprio mentre la distanza tra noi
stava diventando incolmabile, seppi del suo viaggio giovanile. All'inizio
dalla mamma, poi dalla nonna, infine da Hans Heumann e dalle sue foto. Ero un
ragazzo; la prima volta ascoltai con apprensione. A tratti sudai. «II paese
puzzava d'estate» cominciò a raccontare la mamma e mi sembrò di ascoltare
l'eco di un canto già sentito chissà quando e che ancora oggi mi insegue
ovunque, come un coro di cicale invisibili o di rondini furibonde. Di colpo vidi
Giorgio Bellusci sotto una luce più chiara, distinsi le sue tracce sulla
polvere e mi aggrappai a lui con tutte le mie forze.
(Da Carmine Abate, Tra
due mari, Mondadori, 2002, pp. 9-12)
Incontro con Carmine Abate
Alberto Melandri
(Liceo
sociale "G.Carducci" - Ferrara)
Il
romanzo di Carmine Abate, Tra due mari ,
si presta ad una utilizzazione didattica in una scuola superiore, per
l’interesse che può suscitare nei lettori, per le tematiche, anche
interculturali, che affronta, e per lo stile chiaro, ma ricco di suggestioni e
adatto a stimolare una lettura attenta.
Un percorso possibile potrebbe iniziare dalla lettura in classe della
‘partenza’ (il 1° capitolo).
Del
resto il MARE ricorre nel romanzo anche con un uso metaforico (“mare
d’afa” p.12 “mare di viti e di olivi”
p.48 ) e il campo semantico da esso derivato si ritrova
anche a proposito del Fondaco del fico, paragonato ad una nave (p.190),
nell’” isola di rovi” (p.48) e già in questo primo capitolo
Florian dice: “Mio padre guardava in avanti come un naufrago”(p.10).
Una
volta terminata la lettura del primo capitolo possono essere stimolati altri
interventi didattici:
1)
un esame della struttura narratologica del romanzo
che presenta caratteristiche di circolarità: dall’incontro di Giorgio
Bellusci con Hans Neumann, che troviamo all’inizio, alla morte dei due amici
che sembra concludere il romanzo, sembra, perché in realtà il racconto non
finisce con le ultime parole del nipote di Giorgio, appunto Florian.
2)
un esame della divisione in capitoli: una Partenza,
quattro Viaggi ed una Sosta
finale.Ogni Viaggio ne contiene altri: il primo è il viaggio di Giorgio verso
Bari nel 1950, che contiene la memoria storica del viaggio di Dumas al Fondaco
del Fico; il secondo è il viaggio di Rosanna, la figlia di Giorgio e madre di
Florian verso Amburgo, seguito dal ritorno a Roccalba, di Rosanna stessa sposata
con i figli; dentro questo viaggio c’è anche quello di Gioacchino, padre di
Giorgio, in America e ritorno e quello di Giorgio ad Amburgo; il terzo viaggio
è quello di Florian già grande a
Roccalba, con l’appendice del ‘salto’
a Lugano per prendere i soldi per il Fondaco dal nonno Hans Neumann; il quarto
viaggio è il viaggio verso la morte di Giorgio ed Hans, massacrati dalla mafia,
che non ha tollerato lo sgherro di Giorgio, che aveva ucciso l’esattore della
‘Ndrangheta che lo minacciava. In questi spostamenti alcuni particolari
atmosferici provocano un effetto di ‘spiazzamento’ (Amburgo col sole e la
Calabria innevata) coerente con la messa in discussione dei luoghi comuni, che
caratterizza tutta la produzione letteraria di Abate.
3)
Un utile esercizio può poi riguardare l’esame
delle modalità narrative (discorso diretto, discorso indiretto libero,
focalizzazione su un personaggio diverso dal narratore) che si riscontrano il
tutta l’opera.