Conferenza Stampa On Line
Convegno "Culture della migrazione
e scrittori migranti"
 

 

La nostra iniziativa è stata preceduta da una fitta rete di collaborazioni con le scuole, presso le quali sono state avviate attività sulla letteratura della migrazione e incontri con scrittori migranti.
La seconda fase, il convegno letterario vero e proprio, coinvolgerà numerosi scrittori migranti ed esperti di culture e letteratura della migrazione.
Il progetto si pone in continuità con il lavoro svolto dal Cies di Ferrara che, sin dalla nascita, ha realizzato interventi sull'educazione interculturale, offrendo alle scuole un servizio di mediazione linguistico-culturale e organizzando attività finalizzate alla conoscenza delle culture della migrazione.
Negli ultimi due anni il Cies si è occupato anche di letteratura della migrazione, promovendo iniziative culturali sulle tematiche dell'immigrazione e pubblicando "Pagine Colorate", una raccolta di poesie e racconti di immigrati.
Il convegno si pone l'obiettivo di dare voce agli scrittori migranti, spesso emarginati dalla grande editoria, che hanno ormai acquisito  pieno titolo per entrare a far parte della "comunità letteraria italiana", in quanto si esprimono direttamente nella nostra lingua, intrecciando le  culture e le esperienze letterarie di provenienza con quelle del paese ospitante.
Ne parliamo con Sandra Ammendola, scrittrice argentina; Christiana de Caldas Brito, brasiliana; Carmine Abate, scrittore arbëresh e autore del romanzo Tra due mari, pubblicato nel febbraio del 2002;  Armando Gnisci, studioso di Letteratura della migrazione e docente di Letterature comparate alla Sapienza di Roma.
                                                                                                         La Redazione  

Redazione  Il nostro convegno coinvolgerà esperti di letteratura della migrazione e scrittori migranti. Un'occasione per promuovere questa letteratura "nuova", che si sta inserendo legittimamente nel panorama letterario italiano con contributi non disprezzabili (basti pensare ai romanzi di Jarmila Očkayovà, Jadelin Gangbo, Carmine Abate). Quali sono le vostre aspettative?  

 


Armando Gnisci - Che si arrivi al più presto a una chiarezza culturale sul ruolo degli scrittori migranti nella società italiana e che non si perpetui più il discorso "razzista" (che discende da posizioni colonialiste ed amanti dell'esotico) degli immigrati che scrivono (che fenomeno! come i cavalli che fanno le moltiplicazioni)  

Carmine Abate - Conoscendo molti dei relatori e degli scrittori, mi aspetto che si parli poco di “teorie della letteratura”- come succede spesso nei convegni - e si dia spazio, finalmente, ai libri e ai loro autori. Del resto, questo è il modo più efficace e più concreto per promuovere questa letteratura. Inoltre mi sembra fondamentale che gli autori si conoscano tra di loro, si scambino esperienze, creino un gruppo – un po’ come è successo in Germania negli anni Ottanta.


Sandra Ammendola
- Si parla di letteratura “nuova”, di letteratura-documento, di letteratura-arte, ma è veramente una scrittura “nuova”? Direi rinnovata. In realtà ci si può domandare: quali sono i valori della scrittura di migrazione?
La critica letteraria non vede questa scrittura o la vede con un solo occhio, quello dello specialismo e i nostri libri, quando riusciamo finalmente a pubblicare, sono ancora nascosti negli ultimi scaffali delle librerie o nei ripiani insieme ai libri di cucina o di turismo. Le mie aspettative rispetto al Convegno sono queste: farci tante domande, riflettere, raccontarsi storie, cercare insieme di dare voce a tutte le dimensioni contenute nel processo della scrittura senza cadere nelle etichette e riuscire a muoversi anche dentro le parole. 


Christiana de Caldas Brito -
Ho già avuto un primo contatto con il gruppo ferrarese in occasione dell’incontro nel Liceo Classico Ariosto. Da quel contatto posso capire lo spirito che animerà il prossimo convegno. È bellissimo vedere l’entusiasmo con cui il gruppo di Ferrara si dedica alla letteratura della migrazione.  L’occasione che avremo il 19 ed il 20 aprile ci offrirà l’opportunità di incontrare persone sensibili ai problemi della cultura della migrazione, di conoscere più da vicino altri scrittori migranti.  
Avete ragione a parlare di letteratura nuova. Credo che la forza della letteratura della migrazione nasca proprio dalle differenze che porta con sé. Lo scrittore migrante ha  abbandonato tre madri: la madre biologica, la madre terra e la madre lingua. Questo triplo abbandono gli dà un punto di partenza difficile ma ricco di originalità. È naturale che all’inizio la letteratura della migrazione sia autobiografica, centrata sui vissuti legati all’atto del migrare, ai ricordi della patria lasciata, ma i nostri prodotti letterari non devono necessariamente essere esotici; devono semplicemente essere della buona letteratura. A mio avviso, il pericolo per noi, scrittori stranieri che usiamo la lingua italiana, è quello di rimanere confinati nella tematica dell’immigrazione, del folclore, dell’esotico.
In che modo noi, scrittori migranti, descriveremo (o già descriviamo) l’Italia che sta diventando una società multietnica? Abbiamo qualcosa da dire,  noi che siamo parte in causa di questi cambiamenti? Cosa possiamo portare alla letteratura italiana? Spero che i nostri dibattiti durante il convegno portino più chiarezza su questi aspetti.

Redazione -  Pensate che la letteratura della migrazione possa contribuire a sprovincializzare la letteratura italiana, creando un nuovo linguaggio e nuove modalità narrative?

Armando Gnisci - Alla lunga, molto alla lunga, sì.

 

Carmine Abate - Sicuramente questa letteratura ha tutte le potenzialità per farlo: ha nuovi sguardi, nuove storie, nuove parole. Che in parte si ritrovano in singoli libri. Per avere un contributo tangibile al rinnovamento della letteratura italiana ci vorrà del tempo, considerato che il fenomeno dell’immigrazione, almeno per l’Italia, è relativamente recente. Fondamentale sarà la consapevolezza di queste potenzialità da parte degli editori italiani e soprattutto degli stessi autori.

Sandra Ammendola - La trama della migrazione si esprime attraverso le microstorie che compongono la macrostoria. Storie scomposte che evocano più lingue. La realtà d’analisi è molto omogenea, frammentaria, complessa e non è definibile in maniera fissa. Che lingua parliamo quando parliamo di scrittura migrante?
 La scrittura migrante potrebbe essere un mezzo, uno strumento per completare –non userei il termine sprovincializzare- la letteratura italiana. Una scrittura della migrazione che continua ad emergere. Si parla di una realtà letteraria a volte ricca, a volte povera, sempre conflittuale. Uno scrittore algerino ripete sempre, “non mi piacciono le autostrade perché non hanno incroci…”, neanche a me. Perché sono gli incroci a provocare incontri e cambiamenti nelle nostre società sempre meno classificabili e sempre più romanzabili.

Christiana de Caldas Brito - Il provincialismo è prima di tutto una caratteristica mentale. Può essere abbandonato solo quando uno allarga la propria mente e vede il mondo anche con gli occhi dell’altro. Se pensiamo che una delle funzioni della letteratura della migrazione sia proprio quella di aprire ad un’altra visione del mondo, possiamo capire la sua importanza nel favorire l’abbandono del provincialismo.
Una società multietnica conduce inevitabilmente ad una società multiculturale. E una società multiculturale che si riconosce e si accetta come tale, non è più provinciale.
Senz’altro uno dei compiti della letteratura della migrazione è quello di rinnovare il linguaggio. Nella lingua portoghese abbiamo due esempi di scrittori la cui creatività linguistica ha superato la grammatica e ha aperto le parole a nuovi significati e a nuove forme espressive. Mi riferisco al brasiliano João Guimarães Rosa e allo scrittore del Mozambico, Mia Couto. Mi augurerei che la letteratura della migrazione in Italia allargasse la lingua italiana a nuove modalità espressive. L’atto creativo, più forte della struttura linguistica, ha bisogno di trasformare e di creare nuove parole.  

Davide Bregola (ad Armando Gnisci) - Avendo avuto l'opportunità di conoscere e dialogare con tanti autori allofoni in italiano che provengono dai "mondi sud", ho potuto constatare in gran parte di loro  (Gangbo, Tahar Lamri, Abdel Malek...) l'insofferenza per il trattamento che offre loro la cultura italiana. Molti lamentano che l'accanimento culturale nei loro confronti, l'attenzione dell'accademia, i convegni  sulla scrittura d'immigrazione, siano un modo (magari fatto in buona fede) per creare ancora una volta delle "riserve" che li fanno rimanere ad uso esclusivo degli addetti ai lavori.  Non è meglio lasciare che un eventuale sviluppo del fenomeno "migrant wristers" sia lasciato libero di crescere, di agire e di svilupparsi autonomamente senza il bisogno (peraltro molto occidentale) di incasellare, "legalizzare" e portare in superficie
una scrittura che è nata come esigenza di dialogo con una società intera e non con la sola accademia?
 


Armando Gnisci - Non capisco bene la domanda e lo spirito che la anima. Sono un professore universitario antiaccademico e da anni mi batto, da solo, a fianco dei migranti, imparando dall'incontro con loro, per una decolonizzazione della mente europea.  Quindi, non capisco perché si dica che la letteratura dei migranti sia trattenuta per la maglia dagli accademici (quali?) che le impediscono di crescere autonomamente. Di accademici simili ce ne sono, paradossalmente, negli USA. E si interessano dei migrant writers italiani per fare più facilmente carriera.  In Italia non interessano agli accademici, ma sempre più alle mezzecalzette intellettuali e agli affaristi "in piccolo" (molto "in piccolo").
Devo anche aggiungere che ci sono scrittori migranti che non sono scrittori, ma scrivani della propria esistenza e finiscono subito di comunicare qualcosa di importante (ammesso che lo abbiano fatto la prima volta) e altri che sono montati dalle case editrici di mercato, che li illudono/inducono a  sentirsi Rushdie o futuri Nobel, disilludendoli subito se cominciano a pretendere appena troppo. Conosco pochissimi scrittori migranti veri (veri scrittori) in Italia e con loro comunico ogni giorno: cresciamo insieme.

Davide Bregola (a Carmine Abate) - Vorrei chiedere a lei, scrittore ed esperto di scrittura allofona in italiano, come mai nel nostro paese la letteratura di immigrazione ha conosciuto un momento fiorente sul finire degl'anni '80 e all'inizio dei '90 con grandi case editrici che pubblicavano libri con coautori italiani e poi c'è stato via via un disinteressamento graduale delle case editrici inversamente proporzionale all'interessamento della scuola che ha fatto della attività multiculturale un fiore all'occhiello? Svista dell' Editoria? Proposta troppo anticipata rispetto all'esigenza di un pubblico? Ritardo dei lettori su un fenomeno assodato per il mondo culturale ma"carsico" per tutti gli altri? O c'è dell'altro?  


Carmine Abate - Il momento fiorente di cui parla lei ha coinciso con un interesse per il mondo dell’immigrazione più di tipo antropologico, giornalistico, che non letterario. Non è un caso che i libri pubblicati dalle grandi case editrici fossero scritti da coautori italiani già noti nell’editoria. In realtà mi sembra che più che disinteresse graduale delle case editrici non ci sia mai stato un vero e proprio interesse, un progetto editoriale forte verso questa letteratura, se si escludono gli sforzi sovrumani di piccolissimi editori e qualche raro caso di autore approdato alla grande editoria. So bene, essendo anche insegnante, che nelle scuole e nel mondo culturale si fa un gran parlare di multiculturalismo, ma spesso in maniera teorica: vengono invitati gli “esperti”, si fanno progetti, si ricorre alle pagine degli ormai vecchi libri pubblicati molti anni fa dalla grande editoria, e si saltano sistematicamente i testi usciti presso i piccoli editori. Quei testi che potrebbero davvero aprire gli occhi ai ragazzi sui temi del multiculturalismo. Dunque i lettori, anche a livello scolastico, non sono in ritardo: semplicemente non possono accedere a libri spesso introvabili. Quando invece si riesce ad accedere a questi libri e ai loro autori, l’esperienza per i ragazzi diventa straordinaria, li arricchisce umanamente e culturalmente. E arricchisce anche gli scrittori. Perché questa – non dimentichiamolo - è una letteratura che ha alla base il dialogo, il confronto culturale.

Davide Bregola (a Sandra Ammendola) - Qual è il messaggio che può dare uno scrittore migrante alla sua gente che, magari per motivi di scarsa conoscenza, non riesce a fare sentire la propria voce di immigrato? Quale il compito che gli spetta (se ne sente l'esigenza) in una società ospitante? Ha senso, in questo Occidente sempre più autistico e arroccato in se stesso, parlare ancora di letteratura morale, di impegno civile dell'intellettuale, o la letteratura è destinata a rimanere una parte del Mercato e scontro tra bilanci attivi e passivi?  


Sandra Ammendola - Le sue domande mi provocano ancora delle domande, delle richieste per produrre insieme (chi ha voce e chi non ha voce) un passaggio ulteriore di ricerca e di confronto. Non credo ai messaggi in senso unico.
Come immigrati, di fronte alla “nuova” esperienza/frustrazione dell’oggi in un paese straniero, cosa c’inventiamo?  Di fronte alla diversità, quale scegliamo? Fare sentire la propria voce è una sfida da contenere in una cittadinanza?
E’ importante imporsi queste domande e non smettere di cercare di vivere delle risposte. Come si può costruire il futuro senza un recupero critico della tradizione? Come si può costruire il futuro senza creare spazi d’appartenenza?
Si possono sviluppare forme di parità, d’integrazione, di “inclusione sociale” come dicono a Vicenza, senza promuovere percorsi di cittadinanza?
Lo scrittore non può prescindere dal suo “essere” testimone di cambiamenti sociali. Testimone attivo, ovvio. La sopravvivenza dello scrittore si conquista con l’illusione e ha bisogno di coerenza e continuità persistente. …poiché ogni individuo nel corso della propria vita può essere costretto ad errare, più volte seguendo il nomadismo migratorio o semplicemente il nomadismo del bisogno.” (Baccarini, 1996).

Davide Bregola (a Christiana de Caldas Brito) - Con lei, scrittrice, mi piacerebbe affrontare il tema dell’editing al testo. Con ciò non mi riferisco alla revisione che un autore apporta a stile e contenuto di ciò che scrive, ma al lavoro, molte volte imposto dalle case editrice, per rendere ciò che si scrive “appetibile” per un eventuale pubblico di lettori dei “mondi nord”. Spesso il testo di un autore migrante viene sottoposto a riscrittura incondizionata e viene, inevitabilmente, travisato. Come può un autore difendere in qualche modo le proprie ragioni, la propria “grammatica meticcia” ed imporla come un rinnovamento della lingua se gli si pone il quesito: se accetti l’editing pubblichi, se non accetti, rimarrai inedito?  


Christiana de Caldas Brito - Se l’editing travisasse il mio pensiero, preferirei non pubblicare il mio testo. Cercherei un altro editore. E se non lo trovassi, preferirei mantenermi fedele al testo inedito.
L’editing prima di tutto dovrebbe essere un aiuto, non un’intrusione nella creatività di un autore. Oltre alla parte grafica, che si occupa della distribuzione estetica e razionale di un testo in un determinato spazio di carta, l’editing dovrebbe eliminare solo quello che priva un testo del suo ritmo, quello che “graffia” una frase, che non favorisce lo scorrere della lettura.
Se io non riesco a comunicare il mio pensiero con chiarezza, l’editing dovrebbe evidenziare questa lacuna. Il pericolo di ogni editing non è solo quello di alterare cosa dice uno scrittore, ma di alterare il come. Per un scrittore, soprattutto se straniero, gli errori di italiano vanno eliminati, ma solo quando le correzioni non alterano la creatività dello scrittore. Le correzioni non devono interferire nella poetica dello scrittore o nella caratterizzazione di un suo personaggio.
Come può un autore difendere la propria scrittura da un appiattimento editoriale, da un’omologazione di un editing che travisa la sua creatività? Se io scrivo legata a ricordi di un’altra cultura e ad una lingua diversa che ha lasciato tracce indelebili nella mia mente, come faccio ad impedire che tutto questo sia presente nella mia scrittura? Umiltà e dignità debbono camminare di pari passo nella difesa della propria individualità letteraria. Umiltà perché abbiamo molto da imparare se scriviamo nella lingua italiana. Dignità per riconoscere che il nostro contributo letterario è prodotto di vissuti storici diversi e ha come base musica, colori, suoni e ritmo diversi.
Linguisticamente non voglio essere una scrittrice “ben educata”. La grammatica non può essere una madre castrante che mi dà regole invalicabili di buon comportamento letterario. Vorrei scrivere bene in italiano senza tradire la mia mente lusofonica. Un buon editing sarà quello che rispetterà la mia forma mentis anche quando scrivo in italiano. La lingua sarà filtrata dalla mia sensibilità che si è formata altrove.
Come deve essere l’editing? Il Professor Armando Gnisci ha appena pubblicato sulla rivista Kuma, da lui progettata e diretta, (www.disp.let.uniroma1.it/kuma.html) un eccellente articolo: “editing (doppiaggio)”. Nell’articolo, Armando Gnisci operativamente mostra una sua attività di editing. Secondo me, tre sono le qualità dell’editing del Professor Gnisci, (e le ho sperimentate anch’io, non direi sulla mia pelle, ma sulla mia carta…): rispetto del pensiero dello scrittore; sintonia creativa con il testo letto; delicatezza nei suggerimenti che aumentano la fluidità del testo. 

 


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