Se "l'altro" siamo noi occorre non incontrarsi, ma ritrovarsi
Alexian Santino Spinelli

Vorrei che questo fosse un incontro fra amici, anzi fra fratelli che non si incontrano da tanto tempo e che hanno molte cose da dirsi. Occorre spogliarsi dei pregiudizi radicati, occorre uno sforzo per guardarsi nell'anima prima che negli occhi per poter finalmente cominciare un dialogo fecondo. È difficile, lo comprendo, ma è uno sforzo necessario da parte di tutti per promuovere un'effettiva interculturalità e creare le basi per una moderna società multietnica senza conflitti. 
La parola interculturalità, oggi, è usata in maniera molto ambigua e spesso è sinonimo di mera conoscenza dell'esistenza di un'altra realtà culturale. Interculturalità, invece, ha un significato profondo e consiste essenzialmente nel vivere un'altra cultura. Solo vivendo una cultura diversa ci permette di arricchire il nostro bagaglio umano e di allargare gli orizzonti culturali. L'interculturalità è una risorsa che allontana lo spettro dell'appiattimento del genere umano. Per vivere un'altra cultura e promuovere effettivamente l'interculturalità non ci vuole molto. Pensiamo alla musica, un linguaggio che ci permette di dialogare con il "cuore" prima che con la "mente" e di superare le barriere linguistiche e razziali, e al canto in modo particolare: cantare tutti assieme in una lingua diversa, comprendendo il significato delle parole, è promuovere l'interculturalità. I risultati sono sorprendenti quando c'è il giusto rispetto e la giusta conoscenza. 
Ora bisogna riflettere su quante opportunità ha l'opinione pubblica di vivere realmente la cultura romaní, nella sua ricchezza e nella sua complessità espressiva. È un sacrosanto diritto di cui l'opinione pubblica viene privata. E qui subentrano tanti fattori: innanzitutto una cattiva informazione che si trasforma facilmente in disinformazione, con la reiterazione di immagini e di cliché stereotipati che certamente non favoriscono il dialogo, ma al contrario, creano pregiudizi e comprensibili, in fin dei conti, atteggiamenti di ostilità. 
I Rom arrivati in Europa nel XV secolo, nonostante il loro atteggiamento pacifico, sono stati accolti da politiche di espulsione, di reclusione, di sterminio, di deportazione, di assimilazione. I Rom, i Sinti, i Manouches, i Kalé, i Romanichals sono l'unico popolo al mondo a non aver mai dichiarato guerra a nessuno, perché non ha mai avuto l'esigenza di rivendicare un territorio e quindi di scalzare altre popolazioni per un insediamento, né si è mai organizzato in formazioni terroristiche per rivendicare i propri diritti esistenziali, culturali e sociali. 
Alla curiosità iniziale gli Europei hanno fatto subentrare l'odio nei confronti di queste popolazioni girovaghe che già scappavano dalla repressione dei Persiani, dei Bizantini (in Romania, i Rom sono rimasti schiavi per cinque secoli e si sono affrancati dalla schiavitù solo nel 1858) e dei Turchi Ottomani. In Europa invece di trovare scampo e una "patria" a cui offrire i prodotti della propria attività (musicisti, allevatori di bestiame, commercianti di cavalli, artigiani e lavoratori di ferro e rame) hanno "trovato" altre repressioni. Il primo bando, da parte dei cosiddetti "Re cattolici" spagnoli, contro rom, mori ed ebrei sefarditi è del 1492. Sotto l'influenza della corte spagnola, avendo parentele in tutta Europa, facilmente questi editti venivano estesi ad altri Paesi, tra cui l'Italia divisa, al tempo, in tante "Signorie". Queste ultime erano veri e propri Stati nazionali che esigevano l'allontanamento di tutte quelle razze che in qualche modo intaccavano la "purezza" della razza locale. Da qui le incomprensioni che ci trasciniamo fino ad oggi. Le comunità romaní sono state costrette a vivere alla macchia, lontano dai centri abitati e soprattutto senza diritti. Continuamente espulsi, quando non venivano impiegati nelle battute di caccia come preda o pubblicamente giustiziati in quanto considerati colpevoli di "cannibalismo", sono andati alla continua ricerca di rifugi sicuri. Lo spostamento e la solidarietà del gruppo di appartenenza aiutavano a sopravvivere. Il nomadismo, come si è delineato in Europa, è stato la conseguenza del rifiuto; lì dove le comunità romanès hanno trovato le condizioni ideali sono rimaste, a conferma che erano alla ricerca di una Patria. Per questo abbiamo disseminato Rom, Sinti, Kalè, Manouches e Romanichals in tutto il mondo, in tutti i continenti con oltre 12 milioni di persone che parlano la stessa lingua, il romanès, e hanno un'origine comune che è l'India del Nord. 
Alle violenze le comunità romanès hanno risposto con la mendicità e il furto. La mendicità è una forma di resistenza passiva, non un tratto culturale, poiché i Rom fra di loro non si chiedono l'elemosina né tanto meno si derubano.Tendere la mano è un atto apparentemente umile, ma in realtà è marcare un "territorio" di confine, i limiti di un'identità, poiché fin dal loro arrivo in Europa i Rom hanno compreso che per i gaggé (non rom) l'elemosina era l'atto più umile. La mendicità dunque cela resistenza, una resistenza appunto passiva, che è disubbidienza, volontà di non partecipare, è ribellione pacifica. Non è un caso che più forti sono le "pressioni" e i conflitti che arrivano dall'esterno e più si attuano atteggiamenti di resistenza passiva. Il furto si inserisce sempre in questa ottica di resistenza e di ribellione. Allo sterminio sistematico (l'ultimo quello dei nazi-fascisti durante la Seconda Guerra Mondiale) le comunità romanès hanno risposto con atteggiamenti di rivalsa e di scherno: il furto è uno di questi insieme all'abbindolamento. Sia ben chiaro che questo non riguarda, oggi, tutte le comunità romanès: in Italia esistono comunità di Rom e di Sinti che, pur con moltissime difficoltà, sono riuscite a superare le spinose barriere razziali e ad inserirsi nel contesto sociale maggioritario, si pensi ai musicisti, agli artisti, ai giostrai e ai circensi, ma anche a piccoli imprenditori, venditori ambulanti, commercianti e, in Abruzzo, anche infermieri professionali e impiegati statali. 
L'emarginazione, il furto e l'accattonaggio non sono espressioni culturali, ma fenomeni sociali e come tali vanno affrontati. La cultura è un'altra cosa; faccio un esempio: quando parliamo di cultura italiana, non si spiega prima il fenomeno mafioso e camorristico, il terrorismo e la pedofilia per poi parlare di Leopardi e Verdi. La cultura romaní è l'unica ad essere "forzatamente" confusa con gli aspetti più deleteri della sua comunità, come se solo le comunità romanès avessero difetti. Pur con buone intenzioni, si affronta la cultura romaní associandola a handicap e droga e quindi una cultura diventa un problema sociale. Questo atteggiamento, o meglio questa strategia, in realtà cela la volontà di non conoscere gli altri, alza barriere razziali e instaura una contrapposizione violenta. L'opinione pubblica così non solo resta ignara e nella più completa disinformazione, ma si priva del diritto alla conoscenza di una civiltà; faccio un altro esempio: cosa si conosce realmente della lingua, della letteratura, della pittura e della scultura, della musica (a parte quella banalmente commercializzata) di queste comunità? La risposta purtroppo è facile, poco, pochissimo, per non dire quasi nulla. E ancora: come vivono i Rom gli eventi della vita quali la nascita, la morte, il matrimonio? Quanti e quali articoli, programmi radiofonici o televisivi sono stati prodotti per promuovere realmente questa enorme ricchezza culturale e umana? Quante opportunità ha il soggetto Rom di potersi mettere in evidenza positivamente? E quante per offrire la propria cultura fraternamente? Perché quando si parla delle comunità romanès le immagini sono sempre volutamente pietistiche? Perché generalizzare continuamente? Perché l'errore del singolo porta alla condanna di tutte le comunità romanès? Per ciò che mi riguarda - premesso che sono e resterò essenzialmente un musicista, poiché è la mia attività principale - il 4 aprile 2002 ho iniziato, in qualità di titolare della cattedra di Lingua e Cultura Romaní nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Trieste, un ciclo di lezioni riguardante la storia, la cultura e la lingua delle comunità Rom, Sinti, Kalé, Manouches e Romanichals, che con i loro numerosi sottogruppi rappresentano il prismatico mondo romanó, conosciuto e banalizzato in maniera, ahimé, negativa con il nome di "zingaro". Le lezioni saranno incentrate su una parte generale che riguarderà la conoscenza dei diversi gruppi romanès e una parte monografica riguardante un tratto culturale saliente di una sola comunità. Quest'anno sarà preso in esame il "Bu©hvibbé", ovvero la serenata d'amore che sottintende una proposta matrimoniale e un'alleanza parentale nella tradizione dei Rom Abruzzesi, uno dei primissimi gruppi di Rom arrivati in Italia meridionale oltre sei secoli fa, proveniente dai territori del sud dei Balcani (Grecia) e di cui mi onoro di far parte. Integreranno il corso seminari di letteratura romaní e di musica romanès con ascolto e spiegazione dei testi. La letteratura romanì è di straordinaria ricchezza e profondità, mentre la musica del "terzo livello", quella che Rom, Manouches, Sinti, Kalè, Romanichals non suonano per gli altri, ma per se stessi nel contesto familiare per comunicare, per mantenersi uniti, per tramandarsi, è particolarmente importante in una cultura che fino a circa 30 anni fa si è trasmessa solo oralmente, di generazione in generazione, da oltre 10 secoli fin da quando, cioè, le comunità romanès hanno abbandonato l'antica terra d'origine, ovvero le regioni a nord-ovest dell'India (attuale Pakisthan, Punjab, la Valle del Sindh, Rajasthan) e hanno intrapreso un lungo ed estenuante viaggio attraverso la Persia, l'Armenia, l'Impero Bizantino, l'Europa. 
La musica del terzo livello è quella meno conosciuta, anche fra gli etnomusicologi, ed è quella che meglio conserva le tracce del suo passato storico e culturale. Gli altri due livelli sono quello dell'intrattenimento sociale e quello professionale che poco hanno a che fare con la musica eseguita nel contesto familiare. Iniziative sulla cultura romaní sono state fatte in Italia sporadicamente, ma un vero e proprio corso di lingua e cultura con un docente Rom, con una preparazione di livello universitario, non si era mai verificato. E questa per noi è una grande conquista, perché ci dà la grande opportunità di "donare" e di far conoscere correttamente e in maniera veritiera la secolare cultura romaní senza intermediazioni deleterie. 
Personalmente con la città di Trieste, la Provincia e la Regione Friuli Venezia Giulia ho avuto sempre un feeling particolare e positivissimo sia come musicista, esibendomi in ripetuti concerti con il mio gruppo: l'Alexian Group, sia con numerose iniziative culturali (seminari, incontri e dibattiti, organizzazione di mostre ed esposizioni sul mondo rom, aggiornamenti per insegnanti, etc.) che hanno sempre avuto un grande riscontro. Credo che non sia un caso che questo corso sia stato istituito proprio a Trieste, una città mitteleuropea che è il centro di numerose confluenze culturali e linguistiche e che è quindi per sua natura aperta alla "diversità" e predisposta all'interculturalità. Credo che sia un vanto ed un esempio per l'Italia. Ogni cultura è portatrice di verità sconosciute e per questo ogni cultura merita rispetto e considerazione. 
La situazione dei Rom è sicuramente migliore in altri Paesi europei, soprattutto nei Paesi dell'Est, dove esistono parlamentari e partiti politici rom e dove si organizzano dei grandi eventi culturali che permettono una maggior diffusione, valorizzazione e conservazione del nostro patrimonio culturale e linguistico. In Ungheria e in Spagna la cultura romaní fa parte del patrimonio nazionale. In Italia, purtroppo, a causa soprattutto di sedicenti "esperti" e di associazioni pro-rom, costituite spessissimo da opportunisti senza scrupoli, l'affermazione di una intellettualità romaní è ritardata con conseguenze fortemente pregiudizievoli per la nostra stessa esistenza culturale. Negli ultimi 40 anni lo Stato italiano attraverso gli enti pubblici locali ha elargito centinaia di miliardi in favore dei Rom che però non hanno avuto nessun beneficio culturale da questi finanziamenti, anzi si sono visti sempre più relegati nei "campi nomadi", ovvero nei "lager moderni" che anche nel nome ricordano i lager dei nazi-fascisti, dove oltre mezzo milione di Rom sono stati barbaramente massacrati. Purtroppo nella giornata della memoria dell'Olocausto, che si celebra il 27 gennaio, questo viene spessissimo omesso e quindi senza il ricordo del massacro dei Rom, degli omosessuali, dei Testimoni di Geova e degli antifascisti la memoria diventa mutilata. 
I Rom ammassati e stipati nei "lager civili" perdono la loro identità e la loro cultura millenaria. È ciò che è accaduto anche ai Pellerossa d'America, che costretti a vivere nel ghetto della riserva, sono stati "deteriorati" e oggi la maggior parte di loro sono alcolizzati e drogati. È chiaro che frustrati e disillusi i Rom provenienti dai territori della Ex Jugoslavia, costretti a vivere in Italia nei "lazi plebei" - mentre nelle loro città di origine vivevano in case (spesso in confortevoli ville), con i loro lavori e i loro mestieri - "scoppiano" e quindi hanno un rapporto assolutamente negativo con la società circostante. Diversa, per esempio, è la situazione dei Sinti giostrai e circensi che non vivono nei campi e di conseguenza hanno condizioni di vita più che dignitose. Le organizzazioni pro-romanès, con il loro becero assistenzialismo, per giustificare il loro "potere" e la creazione di "ziganopoli", attraverso "progetti fasulli" lautamente finanziati, hanno tutto l'interesse a che la situazione non cambi ed è chiaro che non sanno che cosa farsene di artisti e di intellettuali Rom capaci di pensare e di autorappresentarsi. Per carità, ci sono anche persone motivate da buone intenzioni, ma purtroppo con le buone intenzioni spesso si fanno dei danni enormi, non è l'intenzione che conta, ma il risultato. Noi Rom non possiamo e non vogliamo delegare il diritto a rappresentarci. Chi ci è veramente amico non si arroga questo diritto, ma sgombera il campo dalle difficoltà che impediscono l'incontro e lo scambio culturale. Il mondo romanó ha bisogno di solidarietà e non di assistenzialismo; inoltre, Rom e Sinti devono poter essere dei soggetti di confronto e non semplice oggetto di studio da parte di pseudo studiosi che con le loro alquanto "stravaganti" teorie creano una vera e propria cappa sul nostro mondo, contribuendo ad alimentare ziganopoli. Questo corso universitario non solo pubblicamente ridona al popolo Rom la dignità che gli appartiene, ma crea le premesse per lo sviluppo della "terza via", ovvero della "terza scelta"; mi spiego: si poteva essere Rom o emarginato (anche autoescludendosi) o ancora assimilato, oggi la mia esperienza dimostra alle nuove generazioni che si può restare Rom, essere fierissimi della propria cultura ed identità, e nello stesso tempo essere un soggetto attivo e partecipe alla vita sociale, economica e culturale della società maggioritaria, contribuendo al suo sviluppo senza per questo avvilire la cultura d'origine. È questa, a mio avviso, la strada da battere, ma occorre munirsi - da parte di tutti - di tanto coraggio e di tanta pazienza, la strada che porta alla città della felice convivenza è all'orizzonte seppur piena di insidie. 
La lingua romaní non ha nulla a che vedere con la lingua rumena, né tanto meno con le lingue romanze, ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane, come l'Hindi, e deriva dal Sànscrito. Essendo tramandata oralmente si è arricchita nel corso dei secoli dei vocaboli dei popoli con cui è venuta a contatto, quindi si è arricchita di prestiti del persiano antico, dell'armeno e del greco antico, e in Europa dei prestiti delle parlate e dei dialetti europei a seconda dell'itinerario seguito. È nata così una lingua viva e vitalissima che come tutte le lingue ha numerose varianti dialettali. Da trenta anni la lingua romaní si scrive ed è nata una fiorente letteratura che purtroppo pochissimi conoscono. Il corso all'Università mi permetterà di divulgare questo enorme patrimonio che appartiene all'umanità tutta. 
Personalmente credo che il mancato riconoscimento della nostra lingua come lingua minoritaria da parte del Parlamento Italiano sia dovuto a una totale incomprensione che affonda le sue radici nella più completa disinformazione. Perfino i Cimbri, che in Italia sono appena 800 persone, hanno avuto il giustissimo e sacrosanto diritto al riconoscimento linguistico, invece Rom e Sinti, con oltre 100mila persone residenti in Italia da almeno sei secoli, non hanno avuto questo privilegio. Spero vivamente che questa legge mutilata e incompleta venga rivista, che ci siano maggiore informazione e meno pregiudizi, poiché l'opinione pubblica viene privata del diritto alla conoscenza; la lingua romaní, ripeto, appartiene all'umanità, non solo al popolo che con essa si esprime. La mia esperienza di musicista, come ho già accennato, rimarca questo concetto: quando il pubblico presente ai miei concerti, man mano che essi si snodano, viene informato sugli aspetti storico-culturali della nostra etnia e quando ad un certo punto invito il pubblico a superare le barriere linguistiche e razziali, cantando tutti assieme in lingua romaní, la risposta è sorprendente, la partecipazione è massiccia. Ciò dimostra fondamentalmente due cose: da una parte l'esigenza della conoscenza e la predisposizione a scoprire un mondo diverso, dall'altra si sottolinea l'unicità del genere umano nella sua diversità culturale. Per questo ogni cultura merita lo stesso rispetto; "l'altro" in realtà siamo noi stessi, occorre quindi non incontrarsi, ma ritrovarsi. 
Un caro saluto in lingua Romaní: But Baxt ta Sastipè (che voi possiate essere tanto sani e fortunati).

 


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