“Migrazione”: parola delle scienze sociali
“Migrazione”
è una parola che evoca storie di disagio sociale, di ingiustizie economiche, di
politiche di accoglienza o di rigetto, di lenti spostamenti e trasformazioni di
mentalità. Il “fenomeno migratorio” è stato oggetto, da molto tempo, di
vaste ricerche da parte di tutte o quasi le scienze sociali.
Da sempre però chi si è cimentato
a fondo su questo terreno ha finito per raggiungere un punto di
elaborazione in cui ha dovuto riconoscere l’insufficienza degli strumenti che
aveva a disposizione (strumenti della ricerca statistica, demografica,
sociologica, antropologica).
Questo perché i soggetti migranti, quando
devono diventare oggetto di ricerca, oppongono delle resistenze particolari a
farsi trasformare in una serie, per quanto ricca, di dati. Per quanti sforzi si
facciano per inquadrarli nelle varie figure della marginalità,
dell’integrazione più o meno difficile, della devianza, della “stranierità”,
rimane sempre un disagio in chi incasella, descrive, cataloga e interpreta; la
percezione di uno scarto più forte e più irriducibile di quelli che sempre
tutti i soggetti sociali presentano sotto forma di ambiguità, contraddittorietà
e differenza non sondabile rispetto al contesto del ricercatore/osservatore.
Soggetti per
definizione nomadi, sospesi, in movimento, i migranti mostrano il nomadismo e la
fluidità di ogni forma di esistenza, la precarietà che è di tutti, la “stranierità a se stessi” che è
fonte di turbamento, ma anche di ricerca curiosa. Inoltre la figura del migrante
denuncia o dovrebbe denunciare quanto sia stretta e insufficiente ogni
definizione che incasella in una condizione di pura deprivazione.
Quarant’anni
fa, negli Stati Uniti, un antropologo sociale provò a superare questi limiti
della strumentazione delle scienze sociali. Oscar Lewis seguì per anni i
destini di famiglie di migranti da Porto Rico a New York e viceversa e finì per
elaborare una ponderosa teoria che chiamò della “Cultura della povertà”.
Nello sforzo di render conto della creatività individuale e di gruppo di
soggetti migranti poveri di beni,
ma ricchissimi di idee e di capacità di inventare soluzioni di vita, Lewis finì
per scrivere biografie tanto ricche e articolate che, in Italia, furono
pubblicate come romanzi senza che si avvertisse allora la discrepanza tra il
testo e il contesto né che si esercitasse critica alcuna sulla correttezza di
una operazione che oggi in molti bollerebbero come “furto di storie di
vita”, violazione dei rapporti tra soggetto e oggetto della ricerca.
La tradizione inaugurata da Lewis ha
continuato a esercitare una grande attrazione. Non c’è ricerca sulla
migrazione in Italia negli ultimi anni che non sia corredata da storie di vita,
autobiografie o biografie. Fino ad
arrivare al libro a due mani di Mario Fortunato e Salah Methnani che ha
attraversato il confine tra
inchiesta e narrazione in prima persona aprendo la strada ad una narrazione
autonoma da parte dei soggetti dell’esperienza di migrazione.
La spiegazione di questo fenomeno la si può trovare, credo, in tre ordini di
motivi:
1)
L’irriducibilità della differenza (culturale,
linguistica, storica, ecc.) ovvero una complessità che resiste alle
semplificazioni
2)
L’esigenza di risarcimento di fronte
all’iniquità che attraversa non solo le società, ma anche le scienze che le
descrivono e le interpretano avendo
da un pezzo rinunciato a rendere conto di conflitti, e ancora più, a porsi
obiettivi trasformativi
3)
Il logoramento dei “soggetti collettivi”, (e
questa è una riflessione più politica che sociologica ), l’affermazione di
società di individui, la percezione che l’invenzione di soggetti collettivi
è stata spesso esterna e strumentale, proposta dall’alto, più utile a chi la
inventa che non a coloro che sono chiamati a identificarsi con un gruppo,
incapace di lasciare spazio alla espressione libera e creativa dei soggetti.
Per
tutti questi motivi, e altri ancora, la narrazione si è imposta come discorso
“di verità”. Anche la narrazione fittizia/immaginaria, quella della
letteratura, quella che ci costringe ad immaginare il punto di vista di un altro
sospendendo giudizi e classificazioni.
Migrazione,
esperienza e scrittura letteraria
La migrazione è a sua volta di per sé
un’esperienza che si intreccia profondamente con la scrittura letteraria.
Perché?
Perché
chi scrive tende a migrare o perché chi migra tende a scrivere? Difficile
stabilire una distinzione tra le due cose.
Sono tanti gli scrittori in patria che partono per conoscere il mondo, per poter
dire più liberamente, perché lo sguardo della scrittura, quando è ricerca di
precisione e “verità”, li rende critici e insoddisfatti (e a volte
intollerabili per i propri connazionali). Partire dal villaggio, lasciare la
casa, attraversare i confini è un movimento “naturale” del corpo che
accompagna spesso quello della mente, della parola di chi scrive. Spesso, ma non
sempre. Lo sguardo “allontanato” dell’artista ne produce a volte
l’espulsione. Scrittori esuli o erranti ne conosciamo tanti. Di quanti
scrittori che leggiamo anche perché li identifichiamo con aree geografiche del
“sud” del mondo, veniamo a sapere che in realtà vivono da anni altrove, da
esuli, ma anche semplicemente da espatriati volontari. Pensiamo a Ben Jalloun,
Assia Djebar, Rushdie, Vargas Llosa,
Wole Soynka, Vikram Seth…..
Ma ci sono anche i migranti che scoprono nella scrittura uno strumento di
identità e di sopravvivenza. Esempi: Buchi Emechea, Henry Roth, Sergej Dovlatov,
Jarmila Ockayova in casa nostra. O, ancora, scrittori, più spesso scrittrici,
che, nella ricerca di una propria genealogia individuale, scoprono e tengono
insieme nella parola narrata, destini di genitori, nonni antenati migranti.
Penso alle saghe di migrazione familiare cinesi in America, inglesi in
Australia, italiani in Sud America.
Infine, non si può non ricordare che la migrazione è un topos letterario tra i
più potenti. Basti nominare due “sottotemi” dell’esperienza migratoria,
il viaggio e la nostalgia, per
capire quanto essi abbiano nutrito le letterature. A tenerli insieme, nella
soggettività agente di personaggio, la figura dello straniero o della
straniera. E’ straordinario scoprire quanti sono i romanzi e i racconti che, a
partire da Baudelaire fino a Camus e oggi a Dovlatov
hanno per titolo la parola “straniero” o “straniera”.
Per finire vorrei soffermarmi brevemente sul tema della nostalgia, invitando a
rileggere il bellissimo saggio di Antonio Prete del ’92. Prete ripercorre la
storia della nostalgia da malattia (patologia dei soldati)
a sentimento. Il male del ritorno (“mal du pays”, “suadade”, ”homesckness”,
“heimweh”) che agita i fantasmi della casa, del villaggio, della terra,
della patria, del parlare materno, con turbamento e desiderio. Il luogo al quale
non si può tornare se non con la parola, il mito della nascita e del familiare
che ritorna nel mezzo della stranierità e dell’ignoto.
Non si può non pensare a Proust e alla scrittura come antidoto
all’irreversibilità, alla violenza dell’identificazione.
“Il “desiderium patriae”, scrive Prete, scava solitudini, consuma
speranze…La lingua è il familiare dello straniero…il proprio
nell’esperienza di espropriazione e di perdita. Eppure anche dalla propria
lingua può accadere di essere esiliati…”
Sembra un’immagine destinata a rimanere sospesa, se non fosse che sappiamo, e
questi autori che oggi sono qui con noi ce lo dicono con forza, che è possibile
accedere ad altre lingue e farle proprie, magari per cominciare a dire la
propria stranierità, che nessun luogo ci appartiene e che questa è l’essenza
stessa dell’essere al mondo.
Credo con questo di aver detto, implicitamente, perché leggo con piacere libri
di stranieri/nomai e che cosa spesso ci trovo.
Per me la lettura di alcuni di questi testi ha voluto dire compiere un giro che,
seguendo la mobilità degli stranieri, ci riporta a casa. Nella stranierità
siamo di casa. Compiuto questo giro, ci ritroviamo però in una casa più larga,
non perché abbiamo accumulato souvenirs esotici di paesi lontani, ma perché
abbiamo scoperto nella vita dei “locali sedentari” che siamo, quanto ci si
possa vedere, tutti, come migranti.
Per questo motivo leggiamo “letteratura di migrazione”, non perché sia
politicamente corretto farlo. Per questo siamo grati a chi trova l’energia per
scrivere e anche, molto, a chi costruisce delle piccole protezioni che
permettano a questa scrittura di prodursi e di essere letta.
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