Perché adottare principi e pratiche dell'educazione interculturale nell'insegnamento di discipline ben consolidate all'interno dei programmi scolastici, come la geografia, la storia, l'educazione civica, la letteratura?
La risposta a questa domanda rimanda a una premessa fondamentale. Nel corso degli ultimi due decenni, in seguito ai forti flussi migratori provenienti dai Paesi dell'Africa, dell'Asia, dell'America Latina e dall'Est Europa, i vari contesti sociali e culturali italiani hanno assunto un aspetto spiccatamente multiculturale, all'interno dei quali uomini e donne di cultura, religione e costumi differenti si sono ritrovati a coesistere - non senza tensioni - come tanti parti di uno stesso paesaggio. In questo passaggio di millennio, in particolare, la società italiana sta vivendo una fase di profonda trasformazione i cui esiti appaiono estremamente variabili, ma che possiamo, entro certa misura, riuscire a gestire se ci disponiamo a considerarla - e, di conseguenza, ad agire in essa - come un grande laboratorio dove le diverse componenti si arricchiscono reciprocamente, si scambiano esperienze nuove e crescono in un processo di meticciamento continuo.
L'assetto multiculturale e complesso della società attuale sfugge assai frequentemente a chi per professione si trova a svolgere un'attività di insegnamento. Nella prassi didattica quotidiana le esigenze poste dalla società pluriculturale stentano, infatti, a trovare risposte e soluzioni adeguate.
L'educazione interculturale rappresenta, per così dire, la ricerca di una risposta a queste questioni.
Per quanto abbia ricevuto numerose definizioni, l'educazione interculturale costituisce sostanzialmente un approccio di tipo nuovo (nella misura in cui può essere chiamata nuova una pratica che da alcuni anni comunque è stata sostenuta e attuata mediante esperienze didattiche e formative) che mira ad instaurare una relazione di reciprocità verso chi sino ad ora abbiamo indicato semplicemente come l'altro, il diverso da noi, colui che è definito da uno scarto e, in ragione di questo scarto, rivela la nostra identità.
L'approccio interculturale conduce a rivisitare e a rielaborare radicalmente il concetto di identità. Se, infatti, in una qualsiasi relazione gerarchica tra persone o gruppi, l'identità è quell'insieme di caratteri naturali e culturali che contraddistinguono una data persona o un dato gruppo da tutti gli altri in ragione di uno scarto, di un limite, di un'esclusione, nell'orizzonte interculturale essa assume un carattere fluido, mobile, perennemente aperto che ha la sua ragione d'essere nell'inclusione e nell'osmosi di elementi anche profondamente differenti. L'identità, pertanto, si definisce in questa prospettiva come un processo in cui fattori diversi si compenetrano e i cui risultati possono diventare a loro volta variabili aperte a ulteriori cambiamenti e combinazioni.
L'approccio interculturale mira ad affermare questo concetto di identità attraverso l'instaurazione di una relazione di reciprocità tra le parti. Questo rapporto avviene solitamente attraverso tre momenti fondamentali.
Primo momento: il riconoscimento delle reciproche identità attraverso l'ascolto delle reciproche esperienze. L'educazione interculturale è, infatti, una forma di comunicazione che non implica una trasmissione del sapere da un polo positivo a un polo negativo (come comunemente avviene nelle forme di insegnamento tradizionale), bensì una reciprocità formativa, in una co-educazione che si compie in un crescere insieme arricchente per tutte le parti in gioco.
Secondo momento: lo scambio dei reciproci patrimoni formativi. La comunicazione interculturale non è un dialogo in cui ciascuna delle parti rimane al proprio posto, ma è scambio, familiarizzazione degli elementi culturali diversi in un progetto di reciproco arricchimento.
Terzo momento: il riconoscimento di un comune denominatore umano dietro le diverse esperienze che fa scomparire lo scarto implicito nel precedente concetto di identità e fluidifica le differenze.
Come può avvenire tutto ciò? L'esercizio più comune attraverso cui questi tre momenti possono essere messi in moto (similmente a un processo a cascata) è quella del decentramento del punto di vista, che consiste nel calarsi nel punto di vista di chi abbiamo definito sino ad ora altro per comprenderne l'essere, le ragioni e il contesto. Non si tratta di un'immedesimazione piatta e acritica, ma di una pratica che affievolisce distanze spesso preconcette verso chi ci sembra diverso ed è, come noi, parte effettiva e costruttiva della società. Il decentramento del punto di vista appare un compito sempre più urgente nell'attuale assetto multiculturale della nostra società dove l'altro - lo straniero, il migrante, il profugo - non è più rappresentabile come tale perché, a tutti gli effetti, egli vive e opera accanto e con noi con eguale dignità.
Ritornando agli aspetti della didattica, si comprende facilmente come in questa prospettiva uno studio che continui a considerare le culture extraeuropee utilizzando filtri e distanze di sicurezza ha sempre meno senso, in quanto quelle culture appartengono costitutivamente al nostro mondo - sempre più mondo di mondi, complesso e pluriverso.
La letteratura si presenta come uno strumento assai efficace per avvicinare gli studenti alla conoscenza di queste culture. La lettura interattiva, la scrittura creativa, la drammatizzazione dei testi costituiscono infatti dei dispositivi didattici mediante i quali realizzare, tanto nelle attività di laboratorio come nel quotidiano scolastico, il decentramento del punto di vista per la comprensione di fenomeni apparentemente distanti. Prendiamo, ad esempio, il neocolonialismo. Nel romanzo del marocchino Abdellatif Laâbi Ordalia è contenuta una fiaba in cui sono ritratte le figure-simbolo delle politiche neocoloniali: il Mago, ossia la potenza straniera che sfrutta le risorse dei Paesi del Sud del mondo; il Signore, paragonabile a uno dei tanti despoti che affamano i popoli di questi paesi; il Sole, emblema delle risorse naturali. La lettura interattiva di questo brano, l'esercizio d'interpretazione che viene richiesto ai ragazzi e la conclusiva valutazione critica costituiscono un'alternativa alla lezione frontale che alimenta l'analisi di un fenomeno che, solitamente, non è oggetto di un approccio letterario.
Un'ultima considerazione relativa alla didattica interculturale e al mondo giovanile. Quando i docenti propongono o veicolano i ragazzi verso la conoscenza di elementi culturali appartenenti a Paesi extraeuropei debbono sempre di più immaginare che costoro, molto spesso, hanno già familiarizzato con questi fattori in maniera naturale e creativa, secondo le fasi di quel processo che viene chiamato antropo-poiesi giovanile.
L'antropo-poiesi è quel margine culturale che fa sì che l'uomo non sia soltanto un animale di natura ma anche e soprattutto un animale di cultura capace di modellare la sua esistenza e la sua identità personale e sociale attraverso l'appropriazione di elementi differenti e la creazione di forme contraddistintive. Se consideriamo adeguatamente le culture giovanili, noteremo che la presenza di fattori originari di culture extraeuropee sono molteplici e le loro combinazioni avvengono spesso in modo spontaneo senza alcun tipo di mediazione esterna.
L'approccio interculturale deve tener conto di questo movimento spontaneo e naturale precedente all'insegnamento e fare leva su di esso, riconoscendolo come risorsa. Per ottenere un buon risultato, in altre parole, la didattica deve sapere venire dopo, rinunciando a quella priorità logica e temporale - l'esperienza, l'anzianità, la posizione superiore di chi insegna verso chi apprende - di cui le tradizionali forme di trasmissione del sapere si sono nutrite. L'educazione interculturale, infatti, è co-educazione, scambio di saperi, reciprocità di relazione, maturazione comune di esperienze e competenze dove barriere e fissità di schemi mostrano tutta la loro provvisorietà e la loro inconsistenza.
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