Ringrazio
chi mi ha invitato e chi mi ha ospitato e chi oggi, come voi, è venuto qui ad
occupare il suo tempo ed ascoltarci. Io spero, mi riferisco ai ragazzi che sono
i più numerosi nel pubblico, che queste ore che passerete con noi siano
altrettanto utili di quelle che avreste passato con i vostri professori in
classe.
Accademicamente, il mio intervento ha il titolo di relazione introduttiva. Io
non farò alcuna relazione ma introduzione sì, per il fatto che ho la
responsabilità di parlare per primo. Vi presenterò una specie di contenitore
dentro il quale ho infilato delle storie: vi racconterò delle storie e poi alla
fine vi darò degli annunci. Per raccontarvi queste storie e per arrivare alla
fine del mio discorso all'inizio ci sarà, sta per esserci, una dichiarazione
metodologica, cioè la dichiarazione delle carte che vi permettono di giocare
oggi questa partita con noi.
Metodologia
Sostengo che raccontare storie sia una delle attività
fondamentali degli umani, come singoli, come tradizione, come popoli.
Raccontiamo storie sempre, ogni giorno, diverse volte durante il giorno: per
esempio quando qualcuno ci chiede: "Hai dormito bene?" Dormire,
attraversare il sonno, non è forse la stoffa di una storia? Una storia che non
conosciamo e che, se qualcuno ce la chiede,
- hai dormito bene? - noi in qualche modo siamo costretti a tirar fuori
dal tessuto di ombra e di luce della nostra notte.
E
anche se ci limitiamo a dire, "sì, ho dormito bene" abbiamo riassunto
una storia. E ancora, quando torniamo a casa se siamo giovani come voi nostra
madre chiede: "com'è andata oggi?"; nostra moglie chiede: "com'è
andata oggi?"; nostro marito chiede: "com'è andata oggi?": non
si tratta di storie che qualcuno sta invocando da noi? Rispondiamo
"bene" e passiamo oltre. Quel "bene" copre tonnellate di
storie che non diciamo. Oppure, se
siamo dei chiacchieroni, cominciamo a dire "oggi ho fatto quello e
quell'altro", "Ti ricordi quando?…Ti ricordi quella volta…?".
Raccontiamo un sacco di storie fino a che nostra moglie, nostro marito, nostra
figlia, nostro nipote dice: "A papà, basta…datte 'na calmata" come
dicono a Roma.
Le
storie ci attraversano, ci trapassano, ci costituiscono, eppure non ce ne
accorgiamo. Raccontare storie è l'atto con il quale ci prendiamo la
responsabilità di dare un senso al tempo, ai frammenti di tempo dai quali noi
siamo costituiti; all'insensato dal quale la nostra giornata è fatta. Allora,
come dice un grande filosofo francese che si chiama Paul Ricoeur (eviterò le
citazioni erudite: solo all'inizio ve ne do alcune): scrivere una storia,
raccontare una storia significa dare un senso ai frammenti di tempo dai quali
noi siamo costituiti, dare senso al nostro
tempo e nello stesso tempo dare tempo, una temporalità al senso.
Questo è il primo avviso metodologico che volevo darvi.
Il secondo
è che dobbiamo imparare a pensare a noi stessi non
come ci insegnano qui - siamo in un liceo classico - i maestri della
filosofia occidentale, soprattutto Cartesio, e cioè che io esisto se penso. Ma
dobbiamo imparare a pensare e a vivere pensando che io esisto se qualcuno mi
pensa; e ancor meglio, se qualcuno
mi pensa e me lo dice, perché se
qualcuno mi pensa e non me lo dice io non lo so, non esisto, non sto bene. Sto
bene se qualcuno mi pensa e me lo dice. È chiaro che mi deve pensare bene,
perché se pensa male di me e me lo dice ci starò male; ma se pensa bene di me
io mi sento esistere; e se me lo dice io mi sento esistere bene.
Questa
è, a mio vedere, una delle pochissime possibilità della gioia tra gli umani,
insieme alla musica (ma della musica non posso parlare qui: mi manca il tempo).
Quando noi costituiamo con l'altro -
che sia un bambino e io un
adulto, che sia un nero e io un
bianco, che sia una donna e io un
maschio: tutta la diversità dell'umano, e anche gli animali, come diceva San Francesco, e il pianeta
di cui facciamo parte - Quando stabiliamo con l'alterità e i testi che ci
vengono dall'antichità – Omero o Dante, sono altro rispetto a noi – quando
stabiliamo con l'alterità, qualunque essa sia, un rapporto dobbiamo pensarlo
come un rapporto di assecondamento reciproco.
L'assecondamento reciproco, che sembra un concetto troppo
complicato, corrisponde a quello che vi ho detto prima rispetto all'ascolto
reciproco: Io sto bene se voi mi ascoltate, se sento che voi mi state ascoltando
e voi state bene se quello che sto dicendo interessa il vostro ascolto, perché
se io vi sto annoiando voi, a vostra volta, reagite facendomi vedere la vostra
noia e io sto male a mia volta.
Stiamo insieme in un doppio vincolo; ed è importante che questo
doppio legame non diventi una trappola infernale; al contrario, che noi
riusciamo a trasformarlo in un assecondamento reciproco: io assecondo voi, vengo
per secondo dopo di voi, voi venite per secondi dopo di me e insieme ci
assecondiamo.
Ancora un altro avvertimento metodologico sul metodo stesso.
Che
cos'è un metodo? È la strada mentre la percorriamo, ha scritto un grande poeta
spagnolo, Antonio Machado. La strada, il cammino più esattamente, il cammino
mentre lo stiamo facendo. Non è quello che sta prima; sta avvenendo ora,
invece. Il mio metodo, che io vi sto esplicitando, è lo stesso avvenire del nostro incontro, l'avvenire adesso,
qui.
Il metodo, ancora, oltre che la strada mentre la facciamo è la
strada quando ci volgiamo a guardarla dopo averne fatto un pezzo. Guardiamo
indietro e vediamo dove, come, quando siamo passati: quello è il metodo.
Il terzo avviso, e questa secondo definizione di metodo l'ha data
un grande storico delle religioni francese che si chiama Georges Dumezil.
La terza citazione che vi faccio, poi vi prometto che non ve ne
faccio più, è invece di un grande pedagogista brasiliano che si chiama Paulo
Freire, il quale dice: "il mondo non è; il mondo si va facendo".
A questa, chiamiamola, teoria fa riferimento tutto quello che ho detto fino ad
ora.
E
adesso vi racconto le storie.
La
prima storia è che io conosco gli scrittori migranti da più o meno
dodici anni. Conosco i loro scritti e conosco loro, alcuni sono miei
amici. Con gli scrittori migranti, coloro i quali sono venuti in Italia come
stranieri per venire a vivere tra di noi e sono diventati in qualche modo come
noi, per esempio usando la nostra lingua e addirittura decidendo di scrivere i
loro racconti e le loro poesie nella nostra lingua, con questi stranieri e non
stranieri che vivono in una specie di zona d'ombra tra l'identità italiana e
un'altra identità o altre identità - come
Carmine Abate che sta al mio fianco, che è nello stesso tempo italiano,
calabrese, arberesh, migrante, ex germanese e chissà quante altre cose, che ha
tre lingue madri: chi può dire di avere tre lingue madri? Non una e le altre
due perfettamente conosciute. No, tre lingue madri, cioè tre madri - io con
loro, con gli scrittori migranti, ho
imparato a coevolvere, ad assecondarli nella reciprocità, a coevolvere, a
trasformarmi.
Ho innanzitutto cominciato a capire che cosa significa essere
europeo. Ho imparato, e se non li
avessi conosciuti e non fossi in un "commercio" continuo
con loro, in un commercio di idee, in un commercio di amicizia e di
sentimenti, in un commercio di azione reazione reciproca, non avrei mai capito
come sto capendo da allora, cioè da per lo meno una decina d'anni, che cosa
significa essere europeo e che cosa significa essere “nativi” europei. Ma su
questo non posso dilungarmi, potete trovare sul banchetto in fondo alla sala
delle copie di un mio libro recente, del 2001, che ha per titolo Una
storia diversa. Anche lì si scrive
una storia, quella della letteratura europea dal punto di vista della
colonizzazione e della decolonizzazione. Attraverso il rapporto con gli
scrittori migranti, e spero anche loro attraverso il rapporto con me, ho
cominciato a capire che cosa significa essere cresciuti dentro la comunità
europea ed essere responsabili di questa novità.
Responsabili, ricordate, significa essere capaci di rispondere, non
solo essere i sovrintendenti, gli amministratori, di una questione
(tu sei responsabile di questo ufficio, di questo compito…); significa
soprattutto, essere in grado di rispondere se interrogati su quello che stai
facendo, che hai fatto, di cui hai l’impegno di rispondere.
Adesso devo decidere stando con voi quale delle mie storie
raccontarvi e poi, se le mie storie vi interessano potete restare in contatto
con me, chiedendomi l'indirizzo e-mail, inseguendomi, leggendo i miei libri.
Vi racconterò
per prima la storia di due ragazzi africani, due ragazzi della Guinea, di 14 uno
e 15 anni l'altro, che un giorno si imbarcarono su un aereo della Sabena che
partiva dall'aeroporto internazionale di Bamako la capitale del Mali, loro
venivano da Conakry, la capitale della Guinea, che non ha un aeroporto
internazionale e quindi arrivarono fino a Bamako, presero l’aereo per
l’Europa, ma non acquistando due biglietti, ma infilandosi dentro il vano dei
carrelli delle ruote. E lì, quando l'aereo arriva a 10.000 metri si fanno -56°
e un essere vivente muore assiderato.
Arrivato l'aereo a Bruxelles, coloro i quali sono adibiti alla
revisione immediata delle apparecchiature trovarono morti assiderati i due
ragazzi, questi due bambini della Guinea, e trovarono nelle loro tasche una
lettera con la quale si presentavano, venendo come clandestini in Europa. Si
presentavano a noi, gli europei.
La lettera fu pubblicata dai giornali belgi, se ne ebbe una eco
anche in Italia, se ne parlò per un giorno; la storia di due bambini della
Guinea che muoiono a -56° può interessare, forse, più di un giorno noi
europei abitanti di Eurolandia? Ci commuoviamo un attimo, un attimo solo, un
giorno, poi una storia del genere ci annoia.
In Italia ne parlò "Il Manifesto" e basta. Nel settembre del '99 l’
evento, che era accaduto il 3 agosto del '99; nel settembre del '99, quindi con
una grande tempestività, il mensile "Nigrizia", stampò come
editoriale, cioè come primo articolo, il testo della lettera dei due ragazzi
africani tradotta in italiano. Adesso ve la leggo prendendola appunto da "Nigrizia".
Sostengo che questa lettera dovrebbe essere testo di studio in ogni scuola
italiana ed europea, perché è diretta a noi, e noi siamo i responsabili.
Ognuno di noi europei di Eurolandia dovrebbe rispondere a questi bambini.
Cercate di fare per qualche minuto il vuoto dentro di voi, il vuoto
è come una mandorla aperta e vuota dove dentro non c'è la mandorla. Pensate di
creare dentro di voi questa mandorla vuota, aperta dentro di voi e fate sì che
io entri, che la mia voce entri in questa mandorla vuota, proviamo:
Conakry, 29 luglio
Eccellenze, Signori membri e responsabili d'Europa,
abbiamo l'onore, il piacere e la grande fiducia di scrivervi questa lettera per
parlarvi dell'obiettivo del nostro viaggio e della nostra sofferenza di bambini
e giovani dell'Africa. Voi siete per noi, in Africa, coloro a cui chiedere
soccorso. Noi vi supplichiamo, per amore del vostro continente, in nome dei
sentimenti che nutrite per il vostro popolo e soprattutto per l'amore che avete
per i vostri figli che amate per la vita. Inoltre, per l'amore del nostro
creatore Dio onnipotente che vi ha dato tutte le buone esperienze, ricchezze e
potere per ben costruire e organizzare il vostro continente e farne il più
bello e ammirabile tra tutti. Signori membri e responsabili d'Europa, è per la
vostra solidarietà e gentilezza che noi vi chiediamo soccorso in Africa.
Aiutateci, noi in Africa soffriamo enormemente, abbiamo dei problemi e alcune
mancanze a livello di diritti. Abbiamo la guerra, le malattie, la penuria di
cibo, ecc. Quanto ai diritti dei bambini, e' in Africa e soprattutto in Guinea
che abbiamo troppe scuole ma una gran mancanza di istruzione e insegnamento.
Salvo nelle scuole private dove si può avere una buona istruzione e buon
insegnamento, ma ci vogliono forti somme di denaro. Ora, i nostri genitori sono
poveri e ci devono nutrire. Inoltre non abbiamo neanche scuole sportive dove
praticare il foot-ball, il basket o il tennis. Per questo noi, bambini e ragazzi
dell'Africa, vi chiediamo di fare una grande, efficace organizzazione per
l'Africa per permetterci di progredire. Dunque se vedete che ci sacrifichiamo e
mettiamo a repentaglio la nostra vita e' perché in Africa si soffre troppo e
c'e' bisogno di lottare contro la povertà e mettere fine alla guerra in Africa.
Infine, vi preghiamo di scusare molto per aver osato scrivere questa lettera a
Voi, i grandi personaggi a cui dobbiamo molto rispetto. E non dimenticate che è
con voi che dobbiamo lamentarci per la debolezza della nostra forza in Africa.
Yaguine Koita e Fodé Tounkara
L'ultima
frase nel tono dolce, gentile, leggero di tutto il testo, appare più intensa.
Il francese era ottimo, dissero i giornalisti di Le
Soir, il giornale di Bruxelles.
Nell'ultima
frase i due ragazzi ci ricordano le nostre responsabilità: "
E non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci per la debolezza della
nostra forza in Africa".
Noi
europei occidentali, noi grandi colonizzatori, gli illuminati, coloro che hanno
portato la luce in tutti i mondi, la luce della ragione, del progresso e della
tecnica, e la luce di Cristo, della fede e della verità in Dio. Coloro i quali
possedevano e possiedono le armi più sofisticate, gli argomenti più potenti,
le opere più grandi mai costruite. Noi non costruiamo capanne di fango, noi
costruiamo con il granito, con la pietra. Siamo i più potenti del mondo e per
questo siamo andati in Africa e nelle Americhe, in Asia e in Australia. Gli
inglesi addirittura fecero dell'Australia il loro carcere, un intero continente,
serviva per mandarci i malfattori: perché tenerli a Londra? o a Birmingham?
Mandiamoli dall’altra parte del mondo. A questa gara per portare la luce della
nostra civiltà, abbiamo partecipato anche noi italiani. Mi viene da raccontarvi
la storia di Adua, ve la racconto in breve: nel 1896 occupammo l'Etiopia, nel
1896, il 2 marzo, il generale Baratieri si schierò con 20.000 italiani contro
60/70.000 etiopi, però il generale Baratieri aveva una grande artiglieria ed
era un discendente di Giulio Cesare, dei grandi condottieri dell'occidente
europeo, di quelli che sanno schierare in battaglia le truppe, di quelli che
hanno fatto scuole di guerra per millenni e avevano di fronte un'orda di
selvaggi.
Ad
Adua morirono 5.000, secondo alcuni storici, 7.000 secondo altri, italiani. Che
siano 5.000 - accettiamo pure la stima più bassa - ; 5.000 italiani morti ad
Adua significa più di tutti gli
italiani morti durante le guerre risorgimentali. Eppure voi, sui manuali di
storia studiate certamente il Risorgimento. Per quanto? 80 pagine? 100? E la
battaglia di Adua per quanto la studiate? C'è scritta sui vostri manuali? E
dove sta scritta? E quanto se ne parla? E
noi italiani chi siamo? Noi siamo buoni, brava gente. In Africa abbiamo portato
luce, strade, acqua, telefono, gas.
Noi
italiani abbiamo dimenticato, abbiamo rimosso la nostra responsabilità
coloniale, per cui quando i due ragazzini della Guinea dicono "non
dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci" non tiriamoci
indietro come facciamo sempre.
Non
diciamo che questa è una storia che riguarda i belgi, i francesi, gli inglesi;
quelli sì che sono stati dei colonialisti e dei pessimi colonialisti; noi lo
siamo stati per pochissimo tempo e siamo stati buoni.
Non
è vero! Questa è una storia che dobbiamo ancora raccontarci, per bene, noi
italiani.
Adesso vi
racconto un'altra storia, e poi smetto. Questa volta è una poesia, una poesia
di Derek Walcott, un grande poeta caraibico, premio Nobel, nero, quindi di
origine schiava, di quei neri che gli europei e gli arabi, ma più gli europei,
deportarono dalla costa atlantica per centinaia di anni nelle Americhe e in
Europa. In Europa facevano i camerieri nelle case dei nobili e dei borghesi.
Nelle Americhe gli schiavi.
A
La Havana c'era il più grande mercato di schiavi. A La Havana venivano venduti
o per i grandi facenderos
dell'America del Sud, del Brasile in particolare, oppure per i grandi
agrari dell'America del Nord, e diventavano schiavi nelle piantagioni di cotone
del nord e di cacao del sud.
Derek
Walcott è un discendente di questi infelici, ma come tutti i caraibici ha
trasformato il dolore, l'infelicità in gioia, in capacità di vivere
gioiosamente la vita. Beati loro, noi europei siamo così tristi.
Derek
Walcott dice di sé “io sono un nero con i capelli rossi". Perché è un
nero i cui antenati si sono incrociati con gli olandesi e gli inglesi.
Questa
poesia è stata scritta da Derek
Walcott il 16 giugno del 2000, in onore del grande fotografo brasiliano
Sebastiano Salgado. Sebastiano Salgado ha fatto una delle sue ultime
grandissime, bellissime mostre
fotografiche, forse la più bella, almeno secondo me, che si chiama "In
cammino". Essa è dedicata ai migranti di tutto il mondo, non soltanto ai
migranti che affrontano l'avventura della migrazione per cercare un mondo
migliore, anche ai rifugiati, anche a quelli che fuggono dagli stermini e che
sono costretti a scappare dalla loro patria come i Kurdi, un popolo che non ha
una terra, ha soltanto una diaspora, e che quindi, visto che è assediato e
sterminato da tutti, deve fare ricorso alla lotta armata.
Ricordatevi
che la lotta armata nonostante quello che dicono le televisioni italiane ogni
sera - di essere dei bravi
pacifisti, e soprattutto,
se si è pacifisti, che nella situazione attuale bisogna essere pacifisti pro
Israele, perché Israele ha il diritto di esistere e i palestinesi sono dei
terroristi - ricordatevi che vi stanno ingannando. Il diritto alla lotta armata è sancito dalla Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani dell'ONU del 1948. Procuratevelo questo libriccino
e leggetelo a scuola. Sono pochissime pagine. Nel terzo paragrafo del preambolo,
i popoli della Terra, il 10 dicembre del 1948 scrissero:
"E' indispensabile che i diritti dell'uomo
siano protetti da norme giuridiche se si vuole evitare che l'uomo sia costretto
a ricorrere come ultima istanza alla ribellione contro la tirannia e
l'oppressione".
E la IV
Convenzione di Ginevra dell'83 ha ancora sancito questo principio. E' giusto
ribellarsi contro il tiranno, come diceva l'Alfieri, un poeta che voi studiate.
Vi leggo questa poesia per addolcirci e salutarci. Prima degli annunci finali. Ve
ne lascio il testo, così potete fare delle fotocopie.
L'onda della
marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche
selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce
smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini
emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali
che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura
che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme,
come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come
fa il pacciame luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno nel fango,
mentre il fumo di un cipresso segnala Sachsenhausen,
e quelli che non stanno sopra il treno, che non hanno
muli o cavalli,
quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina
per cucire
sul carretto a mano perché da tempo le bestie
hanno lasciato i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia
del perdono,
alle campane di pietra sui ciottoli della domenica
e al cono
della guglia del campanile aranciato che buca
le nubi sopra i tigli,
quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda
del carro
come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce
e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio
che hanno
il colore degli stagni dove posano le anitre,
e per le quali
c'è un solo cielo e una sola stagione
nel corso di un anno
ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,
si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua
della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno
una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele,
e del suono del latte in estate dentro le zangole piene,
e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco
quel lago e anche le locande, la birra che si beve,
e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,
ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non si vede
che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro
c'è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,
dove il solo governo è quello dell'albero di pomi e le forze
schierate dell'esercito sono gli striscioni di orzo
all'interno di umili tenute, e questa è la visione
che a poco a poco si restringe dentro le pupille
di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,
rigido e con la fronte che diventa fredda e grigia come le nuvole
che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere
sotto i pioppi e sopra le palme, nell'ingannevole aurora
di questo nuovo secolo che è il vostro.
Santa Lucia, Caraibi 16
giugno 2000
Il
poeta ha lasciato al secolo che viene, che entra, il XXI, il destino di essere
il secolo dei migranti, di coloro che si muovono, di coloro che non stanno
fermi, di coloro che cambiano aria, cambiano lingua, cambiano mente.
I migranti sono quelli che cambiano il mondo,
non quelli che stanno seduti davanti alla TV, non quelli che restano lì, lì
dove capitano, dove possono.
I migranti sono, siamo tutti noi che ci muoviamo all'interno della
storia della specie umana e la specie umana è una specie di migranti nata
milioni di anni fa nella Rift Valley, tra il Kenya e l'Etiopia. E una specie
dispersa, nella diaspora. La parola greca "diaspora" significa
disperdersi, ma anche inseminare, ricordatevelo, non significa soltanto esser
perduti nell'altrove, nei tanti altrove, ma significa anche quegli altrove dove
si va a perdersi per inseminarli.
L'uomo, la specie umana, è non stanziale: si mosse dalla Rift
Valley e attraverso il passaggio di Malta, che allora nel Mediterraneo era un
ponte di pietra di cui oggi resta solo il piccolo arcipelago maltese, attraverso
il Medioriente, la Palestina ecc. andavano in Asia e dall'Asia attraverso lo
stretto di Bering invasero 30.000 anni fa le Americhe e arrivarono fino alla
Terra del Fuoco. E dall'Oceania andarono in Australia.
Noi siamo una diaspora in cammino, non lo dimentichiamo.
Gli
annunci: per la fine di giugno, dal 21 al 28, su iniziativa dell'Istituto di
Cultura Tedesca in Italia, e insieme ad altri istituti di cultura, lo svizzero,
l'austriaco e il francese, con il Comune di Roma e la mia cattedra stiamo
organizzando il primo festival europeo degli scrittori migranti, e quindi siete
tutti invitati. Se volete notizie di quest'iniziativa potete scrivermi
all’indirizzo armando.gnisci@uniroma.it;
e potete leggere la rivista on line che
tratta gli argomenti dei quali vi ho parlato: www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html
Si chiama Kuma, che vuol dire “Parola”, nella lingua barbara,
dell’Africa occidentale.
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