In due mondi 
Carmine Abate

Volevo cominciare con una poesia, però, visto che in sala aleggiano ancora le bellissime poesie lette dai ragazzi, cambio la mia scaletta; ve la leggerò alla fine.
Ho pochissimo tempo perché devo prendere il treno: il treno fa parte della mia vita, purtroppo sono stato sempre costretto a prendere treni. Poi vi racconterò perché. 
Poco fa il Prof. Gnisci diceva che scrivere storie significa dare senso ai frammenti di senso di cui siamo costituiti. E' vero. Scrivo anch'io per dare senso ai miei frammenti. Ed è proprio di questi frammenti di cui sono costituito che vorrei parlarvi, partendo dal primo, probabilmente il più importante: la mia origine arbëresh.
Ecco, la mia madrelingua è l'arbëresh (lo so bene che adesso qualcuno vuol prendere appunti e non sa neanche come scriverla questa parola). L'arbëresh è l'albanese antico, la lingua che parlavano in Albania cinque secoli fa le popolazioni che poi per non sottostare alla dominazione ottomana - l'Albania e i Balcani in quel periodo e fino al '400 furono occupati dall'esercito più potente del mondo di allora, appunto l'esercito ottomano - decisero di scappare, di scappare e vivere altrove, in terra straniera ma liberi, piuttosto che schiavi a casa propria. Quindi questo esodo di ieri - come tanti esodi di oggi - è anche una grande lezione di libertà, di amore per la libertà. 
Dunque gli Arbëreshë arrivarono in Italia. Come mai proprio in Italia? E' facile rispondere: Perché l'Italia è a un tiro di schioppo dall'Albania, è vicinissima, addirittura dalla Puglia si vede l'Albania in certe giornate chiare, se ne vedono i monti. Non è dunque un caso che anche gli albanesi di oggi siano venuti proprio in Italia.
Gli Arbëreshë arrivarono in Italia e fondarono cento paesi continuando a parlare la loro lingua, tenendo in vita le loro tradizioni, professando la loro religione che era (ed è ancora oggi) per lo più di rito greco - ortodosso.
Oggi in Italia ci sono ancora 50 paesi in cui si parla l'arbëresh, l'albanese antico; gli altri, per i motivi più disparati, tra cui la vicinanza ai grandi centri urbani o la lontananza da altri paesi albanofoni, hanno perso la lingua, hanno perso la cultura, le tradizioni arbëreshe.
Nel mio paese invece si mantengono ancora, si mantengono al punto che io stesso fino a sei anni parlavo solo arbëresh (che - tengo a precisare - è una lingua, non un dialetto); poi sono andato a scuola e come tutti gli altri bambini arbëreshë sono stato scolarizzato in italiano. 
Vi racconto un piccolo aneddoto. Pensate che quando sono andato a scuola ero convinto di dover imparare il napoletano, non l'italiano, perché sentivo mio padre la mattina quando si faceva la barba che canticchiava canzoni napoletane; poi al mio paese in quel periodo venivano i "teatristi" che facevano spettacoli teatrali e circensi ed erano, guarda caso, sempre napoletani; gli stessi commercianti che vendevano le loro cianfrusaglie erano sempre napoletani. Ero anche molto contento di questo fatto, perché il napoletano, come voi sapete, è una lingua molto armoniosa, musicale (non è un caso che le canzoni "italiane" più conosciute all'estero sono napoletane, a partire da "'O sole mio"). 
In fondo la mia esperienza scolastica è stata simile a quella della ragazza marocchina che è intervenuta prima, che ha raccontato del suo primo giorno di scuola. Anch'io i miei primi giorni di scuola li ho vissuti come un bambino straniero costretto a spogliarsi della sua madrelingua e a imparare una lingua che in qualche modo gli andava stretta, cioè la lingua italiana. Poi, per ironia della sorte, sono diventato un insegnante di italiano. 
Quando ho deciso di scrivere, ovviamente non potevo scrivere nella mia madrelingua, perché nessuno, nessuna scuola, neanche le superiori, neanche l'università, mi ha insegnato a scrivere nella mia madrelingua e tutto questo alla faccia dell'articolo VI della Costituzione italiana che dice che la Repubblica italiana tutela con apposite norme le minoranze etnico-linguistiche. Purtroppo quest'articolo, per noi, è rimasto lettera morta, nel vero senso della parola. 
Io sono quindi cresciuto analfabeta della mia madrelingua. A quel punto non mi restava che scrivere in italiano, la lingua in cui ero stato scolarizzato. Però questa scelta, all'inizio forzata, di scrivere in italiano l'ho vissuta, non so neanch'io perché, come una sorta di tradimento nei confronti della mia madrelingua.
Per questo motivo mi piace definirmi, con una parola forse un po' difficile, "transfuga linguistico". Transfuga è una sorta di disertore, uno che sceglie di scrivere in una lingua che non è la sua madrelingua. 
Questa mia situazione linguistica si è andata ulteriormente complicando - e, lo dico subito: arricchendo - dal momento in cui a sedici anni, quando avevo più o meno la vostra età, per la prima volta ho cominciato a bazzicare in Germania, dove ho lavorato come studente-lavoratore in fabbrica e nei cantieri. 
Ad Amburgo viveva la mia famiglia: mio padre, quando io avevo quattro anni, è emigrato prima in Francia, dove ha lavorato come minatore, e poi l'anno successivo in Germania, dove ha lavorato per circa trent'anni nei cantieri stradali e dove, a un certo punto, sono andate a vivere mia madre e mia sorella; quindi la mia è una tipica famiglia dell'emigrazione. 
In Germania mi sono imbattuto non tanto nel tedesco, nella cultura tedesca; mi sono imbattuto invece nella cultura degli emigranti, i cosiddetti "Germanesi", cioè persone che, vivendo in Germania, dopo tanti anni non sono più calabresi puri o arbëreshë puri, né tanto meno possono essere definiti tedeschi. Sono, invece, qualcosa di diverso, di nuovo, di ibrido. Ecco: i "Germanesi" sono figure ibride come la lingua che parlano, una lingua fatta di parole tedesche, di parole italiane tedeschizzate, di parole tedesche italianizzate, di parole arbëreshe e dialettali anch'esse ibridate.
Io proprio in Germania, vivendo a contatto con gli emigranti, vedendo le condizioni di vita degli emigranti - vi parlo soprattutto della prima generazione dei Germanesi, che si può paragonare alla generazione degli immigrati oggi in Italia - ho sentito la necessità di scrivere. Ecco, la mia voglia di scrivere mi è venuta lì. Ho cominciato a scrivere in Germania, proprio per denunciare l'ingiustizia dell'emigrazione. Io l'avevo vissuta sulla mia pelle, però ho riflettuto - ero giovane come voi, allora - su questa costrizione: costringere qualcuno a vivere altrove era per me, allora, la più grave delle ingiustizie. Oggi so che ci sono ingiustizie ancora più gravi, però in quel periodo mi sembrava la più grave in assoluto e ho cominciato quindi a scrivere poesie e racconti usando spesso lo stesso linguaggio degli emigranti, e li ho pubblicati in Germania. 
Dunque, il mio esordio narrativo è avvenuto con un libro pubblicato in tedesco nell'84, "Den Koffer und weg!".
Solo molti anni dopo, nel '91, ho pubblicato il mio primo romanzo, "Il ballo tondo", in Italia. 
L'ho scritto in italiano, però non nell'italiano standard della maggior parte degli scrittori italiani, perché per uno come me lo scrivere in italiano comporta una grande fatica; mi porta via un sacco di tempo, probabilmente perché io penso in un'altra lingua, sogno in un'altra lingua, sento in sottofondo il ritmo delle antiche rapsodie arbëreshë. Insomma, voglio dire che le storie che ho in testa, che mi ronzano in testa, sono storie che "sento" in diverse lingue: in primo luogo in arbëresh, poi in germanese, in calabrese, in tedesco, e cerco di farle respirare tutte all'interno della lingua italiana. Questa è la mia strada. 
Devo dire però che con il tempo ho capito che probabilmente la lingua italiana, per il fatto che non mi è così familiare come può esserlo per uno scrittore italiano, questa lingua-distanza mi permette di scrivere su una materia scottante come la migranza o sul problema delle minoranze con un certo distacco, mi permette probabilmente di filtrare quei contenuti che sono stati messi in rilievo anche prima - per esempio la nostalgia - che appunto attraverso il filtro di un'altra lingua non risultano retorici.
Penso - e sicuramente ne avrete conferma in questo convegno - che gli scrittori stranieri che scrivono in italiano utilizzino anche loro l'italiano come una lingua-distanza capace di filtrare le loro esperienze, perché altrimenti scivolerebbero e spesso scivolano - bisogna anche dirlo, questo - un po' nella retorica, un po' nella nostalgia scontata. 
Vorrei chiarire un altro punto, perché il mio intervento non sembri il lamento di un figlio di emigranti che ha vissuto le migrazioni in maniera solo drammatica, con tutti quei gravi problemi che vivono gli emigranti. Vorrei dire questo: a distanza di anni, dopo un faticoso cammino, anche dopo tanta sofferenza, dopo aver vissuto sulla mia pelle anche il razzismo, persino quello violento - e ne ho parlato, ne ho scritto di questo soprattutto nei racconti de "Il muro dei muri" - alla fine posso dire che l'emigrazione ha rappresentato per me una grande opportunità, una ricchezza. 
La definisco una ricchezza, una grande ricchezza culturale e forse questa è la testimonianza che vorrei offrire oggi ai tanti giovani presenti in sala: la testimonianza di uno che è partito in quella maniera che vi ho raccontato e che poi un giorno ha sentito in testa un "clic", un piccolo "clic" che ha trasformato tutta questa esperienza, che poteva essere una palla al piede, qualcosa che ti blocca, in un'esperienza positiva. Perché, vorrei farvi notare, vivere tra due mondi o meglio: in due mondi, vivere positivamente più culture, parlare più di una lingua, conoscere persone di tantissime nazionalità non può che essere una ricchezza. 
Si parla spesso, ed è uscito fuori anche oggi, del "bisogno delle radici" e normalmente si dice che gli emigranti sono degli sradicati. Ebbene, questo può essere vero, ma io vorrei capovolgere anche questo luogo comune sugli emigranti e dire che intanto mi sembra difficile che uno perda completamente le proprie radici. Io personalmente non ho perso le mie radici, no, non si sono seccate le mie radici. Se voi mi immaginate come un albero, ecco, io sotto i miei piedi ho le mie vecchie radici e a queste radici ho visto, piano piano, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, crescere nuove radici. Ecco, questo sono io adesso: un uomo che ha tante radici, non uno sradicato, per questo sto cercando di vivere quest'esperienza come una ricchezza e di narrarla nelle mie storie, cioè di scrivere proprio per dare un senso ai singoli frammenti della mia vita, valorizzandole tutte, mescolandole assieme. 
In fondo, avere questa identità frammentaria non è poi un dramma, non deve costituire un problema. Forse un'identità frammentaria ci consente di vivere più consapevolmente quest'Europa che sta diventando sempre più multiculturale.
Dicevo prima che ho esordito in Germania nell'84; io vedo nella mia esperienza di scrittore germanese molte affinità con gli scrittori stranieri che scrivono in Italia. Pensate che in Germania facevo parte di un'associazione culturale che si chiamava "PoLiKunst", di cui facevano parte scrittori e artisti stranieri di ben 17 nazionalità. Tra di noi ovviamente usavamo il tedesco come lingua veicolare - così si dice, ragazzi, lingua veicolare, cioè, per capirci tra di noi, per veicolare le nostre esperienze ai tedeschi. Molti di questi autori scrivevano direttamente in tedesco, altri, come me, come il turco Aras Oren, scrivevano nella lingua dei germanesi o in italiano. Io oggi, lo dico anche al Prof. Gnisci che è un punto di riferimento di questa letteratura, vorrei spezzare una lancia a favore dei migranti che non scrivono nella lingua del paese che li ospita, ma che continuano a scrivere nella loro madrelingua: ci sono anche loro, spesso vengono isolati e, rispetto a quegli scrittori che scrivono direttamente in italiano, incontrano maggiori difficoltà ad essere pubblicati. 
Anche oggi, qui in questo convegno, vengono analizzati e letti solo i testi di autori stranieri che scrivono in italiano. A me piacerebbe conoscere le opere degli stranieri che vivono in Italia, che non sono in grado di scrivere in italiano e scrivono nella loro madrelingua delle opere magari straordinarie. 
Ecco, io vorrei che nel movimento degli scrittori migranti non si dimenticassero gli scrittori che scrivono nella propria madrelingua ma sugli stessi temi, che poi sono gli stessi temi su cui scrivevamo in Germania: il dialogo, il razzismo, l'integrazione, la ricerca dell'identità. A volte addirittura con lo stesso stile, cioè cercando anche di utilizzare il linguaggio ibrido che dovrebbe essere un po' anche la caratteristica di questa letteratura.
In conclusione mi auguro che la letteratura degli scrittori stranieri che scrivono in italiano o nella loro lingua oggi in Italia prenda sempre più piede, diventi sempre più importante, perché è una letteratura che può dare nuovi input alla letteratura italiana che, come sappiamo tutti, è un po' spenta. Gli scrittori migranti hanno più sguardi: lo sguardo nuovo, che acquisiscono vivendo nel paese straniero, e lo sguardo del paese d'origine. Dunque possono narrare l'Italia di oggi con uno sguardo diverso, illuminare zone oscure della vita italiana che un italiano non riesce a vedere. Inoltre nelle loro valigie ci sono le storie che si portano dietro dal paese d'origine, quelle non bisogna dimenticarle mai, ma ci sono anche le nuove storie che vivono in questo nuovo mondo multiculturale.
Quindi è una letteratura che potenzialmente potrebbe diventare la letteratura del futuro. Io spero che riesca a trovare sempre più spazio anche nei cataloghi degli editori di qualità, ben distribuiti, e spero che questi libri siano presenti in tutte le librerie e che vengano letti.
Concludo con la poesia. Una poesia che ho scritto moltissimi anni fa, in Germania. Si intitola "Giochi di lingue".



Giochi di lingue

Gjuha jonë e bukur, 
ripetevo a sei anni a cantilena 
giocando a Scanderbeg nell'afa densa
sognando gli eroi che venivano dal mare 
- dal mare rossovino dei miei sogni -
e parlavano come noi, 
si neve, sì, si neve

Poi a scuola mi dissero: 
La nostra lingua è bella. 
Ripeti: con due elle, come stella. 
E più tardi giocavo a Garibaldi 
ripetevo obbedisco obbedisco 
sotto uno spicchio di luna passeggera,
sognavo camicie rosse che venivano da lontano 
- dal lontano incolore dei miei mondi -
e parlavano come noi 
nei vicoli di sera

A vent'anni, dopo il militare, 
mi diedero il congedo e il passaporto,
verde come quello di mio padre, e 
Unsere schöne Sprache, mi dissero 
al corso serale per stranieri 
e d'allora ripeto gut gut
sulla luna di marzapane storta 
e vedo ad occhi chiusi 
i nostri con le valigie che arrivano dal confine
- dal confine bianconeve dei rimpianti -
e parlano come noi: 
Bella Sprache jonë
nostra Gjuha schöne 
e bukur unsere Lingua

 


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