Città Spettacolo, una rassegna in crisi - 26-09-02 - da Il Quaderno |
Fernando Panarese
Il nostro, mosso da ragioni certamente più preganti, pone le tende nella Grande Mela. E lì che la Storia, in pieno svolgimento, reclama i suoi interpreti grandi e piccoli. E lì che questi, puntuali, accorrono da ogni parte del globo. A nulla valgono, perciò, gli impegni e le promesse di fedeltà. Ogni amore vive di alti e di bassi.
Ma il festival sannita di teatro (e non solo) rischia di spegnersi fin dal suo esordio, complice il testimonial fedifrago, che per primo lascia la nave e scappa via sul più bello. Lo spettacolo va comunque in scena. Non lo ferma il programma stringato, non la pioggia di settembre, non le acrobazie di bilancio, né le grandi e piccole polemiche che da sempre l'accompagnano. Ma l'idea di una città in festa, gli elfi del circo itinerante, teatro, teatro, insomma teatro, il sogno di qualche anno fa, batte un colpo. A vuoto. La parola Domani assomiglia a un'illusione che presto svanisce. Qualcosa non funziona. Il cammino incespica in una sottile linea di noia che ottunde le rappresentazioni di teatro, molto diradate e talvolta disadorne. Ciò, nonostante gli acuti di pubblico. E la simpatica beffa di una folla in lite alla ricerca del biglietto invenduto per l'ultima opera del novello Totò, secondo alcuni, dell'epigono di Eduardo, secondo altri, ma per l'anagrafe e per la critica, semplicemente Vincenzo Salemme da Napoli.
E' questo un aspetto, per altro non
marginale, anzi evidente e contraddittorio, del festival sannita: il
trionfo di Salemme. L'assedio al botteghino. Le ovazioni. La disperazione
degli esclusi.
Primo, Città Spettacolo, dopo ventitré anni di onorata presenza, dopo gli sforzi, le idee, le illusioni di quante amministrazioni hanno avuto l'onere di gestirla, non richiama uno spettatore che sia allogeno. Secondo, il gusto medio dell'indigeno è palesemente orientato verso il nazional popolare, con spiccata preferenza per la commedia in lingua napoletana. Poco male. Basta comprenderlo. E si comprenderà così il trionfale successo di altrettante feste di popolo che, nel culto di quella che i francesi definiscono semplicemente art de pacotille, crescono e si alimentano nella notte e alla luce di lune più o meno piene.
Ogni città, ogni villaggio, ha il suo festival, preferibilmente estivo. Un festival è un buon contorno da affiancare alla normale proposta turistica, soprattutto se culturale. A Benevento si approntò il contorno molti anni or sono. La pietanza, cioè il turismo culturale, mancava. E manca a tutt'oggi: respinto, tra l'altro, da un'offerta malata di indifferenza, timore e tanta improvvisazione. La guariranno le pur generose idee dell'assessore alla cultura con il cartellone di spettacoli che vorrebbe coprire in anticipo l'intero anno solare?
Nel frattempo, la vita cittadina si è trasformata con la complicità di tutti, in una sorta di festa mobile. A contare le rassegne, i recital, i concerti, vocali, strumentali, jazz, classica, rock, rappresentazioni di teatro, performance comiche, esibizioni di divinità mediatiche, ci si accorge che le occasioni non mancano. Ma un'esuberante offerta che non si avvalga di apporti esterni finisce col placare il desiderio e raffreddare l'aspettativa. L'aspettativa si nutre di originalità. Originale può essere un festival di teatro. Ma inteso come spazio di sperimentazione. La sperimentazione è un grande rischio. Politico. Quale amministratore ha il coraggio di osare? Nazzareno Orlando giura che si punterà sulla via della qualità. La presenza di Rodolfo Di Giammarco tradisce la vicinanza di un esperto qualificato, seppure poco noto al di fuori della nicchia specifica.
E' difficile immaginare cosa accadrà dopo l'edizione presente, cioè quella dal curatore assente, dei media nazionali a dir poco tiepidi e di un'organizzazione tanto sbilenca da fallire anche sull'ovvio. Si pensi ai programmi stampati tardissimo, alla sconcertante incapacità di informare e di pubblicizzare. Non comprendiamo il trionfalismo di chi opera con uno staff che, pur non privo di qualche efficiente e cortese professionalità, riesce a trasformare finanche la prima, che doveva essere un musical, in uno psicodramma collettivo. Siamo a teatro, d'accordo. Ma vorremmo sapere perché tutto, anche il prevedibile, si affronta sempre con l'ansia del last minute, con l'affanno dell'evento eccezionale, quale non è, e si creano quindi i motivati mugugni e le proteste interminabili. Purtroppo, l'umore dello spettatore-pagante, il parere del cittadino-contribuente, non guarda all'impegno profuso, ma solo e soltanto al risultato ottenuto. E basta.
|