Roberto De Candia 

                           

Dall'amico Roberto De Candia   riceviamo e pubblichiamo  volentieri questo stupendo racconto che ci riporta ai tempi, ormai lontani, della nostra giovinezza. Leggendolo ho provato la stessa emozione che provai la prima volta che ebbi modo di ascoltare la  "La leva calcistica del 68" di Francesco De Gregori, ma, questa volta, suscitata da fatti e personaggi reali che hanno attraversato la mia vita. Grazie, Roberto!, grazie per questa bellissima emozione. 
Ci piace ricordare che 
1972 ha partecipato e vinto un contest sul racconto breve indetto dalla Scuola Holden (di Alessandro Baricco) e sponsorizzato da Unicredit, al Salone Internazionale del Libro di quest'anno, al Lingotto di Torino.

                             MILLENOVECENTOSETTANTADUE
                                         
di Roberto de Candia

         1972

Dedicato a tutti quelli che, come me, non capiscono un accidente di calcio, ma soprattutto e tutti, a mio Fratello Enzo.
 

  E sì che quell’agosto erano proprio in tanti a sostenere fosse il più torrido di quel decennio; canicola opprimente di giorno, tasso d’umidità da far crescere porcini sulla pelle di notte.  
    Ed invece no: era il solito, triste, mesto rito dei trenta giorni più caldi dell’anno che possedevano la capacità di cancellare dall’immaginario collettivo ogni traccia della memoria di precedenti estati, e con loro, le eccezionali temperature registrate.
   
Lo scenario è ancora una volta il Pianeta Terra, in particolare un tipico paesino dell’entroterra del Sud d’Italia, polveroso, indifeso, piagato dagli ultimi cinquant’anni di emigrazione, partenze, speranze, illusioni, disillusioni.
    
Le costruzioni sberciate dal tempo, le strade bucherellate come da una devastante acne giovanile; gli asini con la loro solita soma di legname che portano in luoghi sconosciuti, attraversando lentamente e con sonori lamenti le stradine ed i vicoli del paese.  Le donne anziane sedute appena fuori dall’uscio di casa, con l’uncinetto nervoso tra quelle mani sicure e marchiate dal tempo, l’odore intenso del sugo di pomodoro che sbuca gioioso dalle modeste cucine in pietra, a piano terra.  
   
In piazza, l’unica, gli anziani giocano a carte da trent’anni la stessa partita, ininterrotta.    

    I bambini si inseguono ridendo coi loro giochi fantasiosi: spade e fucili di legno, scudi di latta; le ginocchia sbucciate, tutto l’anno.
   
Cani, gatti, galline, lucertole: dappertutto.
   In questo paesino, ripopolato in agosto in coincidenza con la chiusura estiva delle grandi industrie del Nord, c’era un rito solido e robusto al pari dei festeggiamenti del Santo Patrono: questa tradizione costruita su un credo incrollabile era il torneo estivo di calcio tra le contrade.
   Sei agguerritissime “Seleçao” che si davano battaglia durante i primi giorni d’agosto, solo dopo una durissima preparazione psico-fisica che occupava l’intero inverno e la primavera precedenti.   Squadre messe su senza alcuna risorsa (se si fa eccezione per la passione), abbigliate con divise di fortuna, che si sforzavano di sembrare tutte dello stesso colore, almeno per gli sguardi meno pignoli.
  
Un’insopprimibile voglia di vincere ed un senso di appartenenza al rione da far impallidire qualsiasi contradaiolo senese in prossimità del Palio.
   Occorreva dominare le altre cinque squadre su un assurdo campo di calcio, che, per definire tale, occorreva prima consumare una dose industriale di LSD: una distesa di sabbia secca e polverosa, così compatta da sembrare cemento, con l’unica variante di una simpatica spolverata di pietruzze ben acuminate, sfaccettate come diamanti e pronte ad accanirsi sulle ginocchia del povero malcapitato che avesse deciso maldestramente di caderci sopra. Chiudeva il menù qualche vetro qui e lì, ricordo di bottiglie di birra lanciate dal settore meno elegante del pubblico, che intendeva attribuire a quel gesto un significato metafisico di disapprovazione composta e sdegno coeso nei confronti delle decisioni arbitrali, non condivise per lo più in linea concettuale.
   Infine gli arbitri: figure commoventi, quasi metaforiche (nel senso che non erano propriamente i più dotati di mezzi fisici degni di menzione) e irrinunciabili. Nessuna designazione federale, sponsorizzati per l’abbigliamento o dall’unico ferramenta in paese, o da se stessi; muniti di due dita nervose da infilare in bocca per fischiare sonoramente le frequenti infrazioni sia al regolamento federale che al codice penale. Il fischietto, un lusso che avrebbero conosciuto solo negli anni ottanta.
   Erano odiati praticamente da tutti, e per tutto il resto dell’anno. E le loro mogli o fidanzate erano additate come artefici primarie delle protuberanze cornee attribuite, senza giri di parole, ai loro compagni.
   Ai bordi del campo le panchine delle squadre, abitate da allenatori in soprappeso e paonazzi, imprecatori implacabili, dall’ambiguo massaggiatore provvisto di corsa sbilenca, di secchio pieno d’acqua putrida e di birra, unica medicina a disposizione, somministrata in occasione degli scontri più duri, per ridare vigore al guerriero contuso.  
   E poi le povere riserve, che sapendo di non poter giocare nemmeno un minuto, speravano sordidamente in un infortunio di un titolare. E speravano.
   Non mancava il presidente del team, figura mitologica e, al tempo, finanziatore atipico, nel senso che l’irrorazione economica alla squadra non assumeva il tradizionale contenuto economico, ma il “lider maximo” era solo il garante dell’abbuffata  di fine torneo in caso di primato, approvvigionatore instancabile di arrosti dal potere taumaturgico e di ogni altra pietanza ipercalorica, quasi sempre piccantissima.
   La squadra dei nostri eroi (inevitabile schierarsi) aveva un nome che risvegliava gli istinti più mistici e conferiva ai giocatori un’aura divina: la nostra squadra, cari miei, era la “Misericordia ”.
   Io ero la mascotte di questa allegra banda di svitati; un bambinetto biondino petulante e zompettante come un tapiro del Borneo, che seguiva rumorosamente ogni scontro dei suoi beniamini, proprio come fossero Re Artù ed i Cavalieri della Tavola Rotonda. 
   Ero sempre ai bordi del campo che gracchiavo, compresso e shakerato dalla tifoseria agitata e costituita prevalentemente da emigranti comaschi, tedeschi e svizzeri, tutti commissari tecnici mancati, con un PH della pelle pari a 23, che ricordava il bouquet dello stoccafisso delle isole Lofoten, nel pieno della stagionatura.
   In quella mitica e ridicola squadra c’erano tanti giovani leoni, ma qui, per inevitabile brevità, ne ricorderemo solo due.
   Quando si riunivano tutti nello spogliatoio (struttura di discutibile fatta, costituita da quattro tufi messi l’uno sull’altro, in barba ad ogni fondamento ingegneristico e logico)  prima dello scontro – ed in quella situazione ci si trovava, in effetti, in prossimità di un match durissimo – c’era il momento della cosiddetta pre-tattica, che poi altro non era che dieci minuti di autentico caos, durante i quali ognuno diceva la sua urlando e l’unico punto di convergenza era sul numero di ossa da rompere agli avversari.
   In questo sagace Master di strategia calcistica, partecipavano tutti, contemporaneamente. Tutti tranne uno, il più giovane, che ad un’analisi superficiale del comportamento poteva risultare, dopo la prima ora di osservazione, irrimediabilmente muto. E muto se ne stava seduto su una panchina arrugginita nello spogliatoio, con la testa rannicchiata nelle larghe spalle, con le mani unite e le dita che roteavano lente a disegnare nell’aria chissà cosa, attività che probabilmente gli permetteva di estraniarsi da quel putiferio che si agitava a pochi centimetri da lui.   Era castano, la fronte alta, azzurro di occhi e con un piccolo spacchetto verticale sul mento. Non era alto, ma era dotato di un fisico straordinariamente atletico. Sempre zitto. Sempre.
   Faceva lo stopper, ruolo ingrato e lontano dalla gloria dei goal e dai sorrisi di approvazione e desiderio delle ragazze. Un ruolo che non ti fa ricordare, che non ti fa mai diventare un idolo. Un oscuro lavoro di gambe e cuore, tanto, per proteggere il proprio portiere.
   Il caos andava attenuandosi, significava che si stava per entrare in campo: era una partita ostica, nervosa, contro i favoriti che disponevano di una buona difesa e di un fuori classe come attaccante, autentico funambolo, che tanto dolore aveva regalato sin lì ai terzini che lo marcavano.
   La “dirigenza” della Misericordia temeva il peggio quel pomeriggio; dal capannello dei suoi compagni (tutti ormai senza voce per le ultime, cesellate decisioni tattiche) si stacca uno che va verso il giovane muto. Era suo fratello maggiore, figura carismatica della squadra ed invasato sostenitore del fatto che la vittoria era l’unico risultato accettabile quel giorno. Aveva la barba e portava gli occhiali anche in campo, circostanza che gli aveva impedito un accettabile sviluppo del gioco di testa che, se poteva, evitava.   Anche lui atletico, costruito da una solidità fatta di tanto sport ed ottimismo verso la vita.   Un uomo positivo che però, all’interno del rettangolo di gioco, subiva rapidamente una trasformazione da far impallidire Sir Robert Louis Stevenson ed il suo ridicolo Mister Hide; un urlatore con una vena esegetica da incazzatissimo sindacalista della Fiom, in piena trattativa di rinnovo di contratto collettivo...  E la sua grinta? Braveheart al suo confronto era un professionista dell’uncinetto…
   Era munito di una convinzione infrangibile di essere un Rivera mancato, un vero architetto del goal, strappato a gloria certa da alcuni irritanti e continui impegni familiari.   
   Grande il suo convincimento di possedere il verbo calcistico scolpito su tavole di granito.   Ma questa era una caratteristica che condivideva generosamente con almeno altri tre milioni di italiani.   Era il numero 10, magica cifra.
   Ecco che si avvicina al silenzioso fratello minore (che nemmeno alza la testa, immerso com’era in chissà quale viaggio, verso chissà quale galassia), si accoscia accanto a lui e con voce secca, priva di aloni emotivi, comincia: “Tu sai chi c’è oggi come centravanti con gli avversari, vero? Lo sai che è il più bravo di tutti e che gioca in serie C. Lo sai, vero?”   ed il giovane scuote lento il capo in un movimento che andava interpretato, ma dai soli suoi familiari e da un ristretto capannello di Junghiani sperimentalisti, in un sì. 
    “Bene - continuava suo fratello – quello oggi lo marchi tu, e non tocca un pallone. Intesi? Oggi non passa: annullalo, annientalo, fa quello che vuoi, ma fermalo! E’ chiaro?”  ancora un altro cenno della testa, come quello di prima. Si alludeva nelle avvertenze ad un autentica macchina da goal, che prima di quel giorno godeva di un’immunità quasi parlamentare….
   Si alzarono entrambi e si avviarono con gli altri verso il campo, passandomi vicini, a me che li vedevo come eroi mitologici che camminavano al rallentatore, come in “Fuga per la vittoria”.   Erano sempre brividi.  I miei.
   La partita era in salita. Il giovane difensore prese posto in campo e, saltellando per riscaldare la muscolatura, guardò distrattamente il cielo che aveva lo stesso colore dei suoi occhi.   Giocava con scarpe strette, senza più tacchetti, vecchie ed inadeguate, con quella casacca amaranto sbiadita, senza neppure il numero sulle spalle, a stabilirne il ruolo.   Ma di lì a poco il suo ruolo sarebbe stato chiaro a tutti, pubblico ed avversari.   Eccome se sarebbe stato chiaro!
   Il fischio d’inizio (con le dita) faceva partire quella battaglia e con essa il caos più terrificante sugli spalti;  subito il fiero attaccante avversario, adorato dalle ragazzine e probabilmente in segreto da tante mogli annoiate, parte col pallone attaccato al piede destro: direzione porta avversaria.   Tre peones dribblati con disinvoltura e sufficienza, quasi sbadigliando.   Urli.   Ma mentre correva verso il suo primo goal, ecco che d’improvviso sbuca qualcosa dal nulla. Pochi attimi ed il centravanti si ritrova con gli occhi che guardano obliquamente la sabbia dura ad un centimetro di distanza: non si era accorto di nulla ed era giù.  Era a terra e non era stato sfiorato. Che diavolo era successo?  Per la risposta gli fu sufficiente alzare appena lo sguardo impolverato: il pallone era docile tra i piedi dello stopper avversario, quel ragazzo con le spalle larghe che subito dava la palla ai suoi compagni.  Un attimo in cui si interrompono i gridolini delle tifose e dall’altra parte del campo si leva un urlo orgoglioso: “Sìììììììì ! Sei grandeeee!!!”.  Era il fratello maggiore, grintoso ed invasato nel vedere quella tigre in difesa, che a momenti gli scoppiano i polmoni.
   Ma c’è poco da godere: in un istante il pallone è di nuovo alla difesa avversaria che serve con geometrica precisione ancora il suo goleador che ancora si stava rialzando; alla velocità del pensiero è da solo davanti agli occhi inermi del portiere, che vedono l’asso dell’attacco avvicinarsi a grandi falcate, ed un un ghigno maligno sulle sue labbra.   Grandi falcate, dicevamo, ma non così grandi come quelle dello stopper, che, distrattosi, recupera il suo uomo in pochi metri; e nella sospensione di rumori prodotta dall’adrenalina, si sente solo un grido urlato da lontano, il fratello maggiore: “Giù! Giù! Non farlo passare!!!” e sul secondo “Giù!” le gambe del centravanti si piegano in avanti, ma lì attorno non ci trova il pallone: solo un boccone di polvere. Il pallone, lui, era stato toccato all’indietro con grazia al suo portiere dall’invincibile ragazzo, tutto tra i piedi dello stupito avversario e dei suoi tifosi.
   Era come avere San Giorgio a cavallo in area di rigore, e quel giorno per i poveri draghi erano solo botte…
   Ma ancora pochi altri minuti e, come in “Guerra e Pace”, si verifica un capovolgimento improvviso di fronte: un goal della Misericordia, ma non un goal qualsiasi: un goal di testa… del fratello maggiore (primo della sua vita…) servito da un cross indovinate di chi?  
   Era davvero festa grande! Gli urli del neo-cranico goleador avevano tramortito tutti gli astanti, era come se avesse visto la Madonna e tutti i santi contemporaneamente!
   Ma gli avversari non si danno pace e, non appena rimessa la palla a centrocampo, ripartono indomiti a caccia del pareggio.   E ci sarebbero anche riusciti con il solito fuoriclasse, ma non appena a tu per tu con lo stopper, convinto di vedere fumo in uscita dalle narici del furente difensore, viene colto da improvviso terrore ed invece che provare il suo implacabile dribbling sul ragazzo, impaurito come davanti ad un plotone delle SS, passa subito il pallone – sarebbe più corretto dire che “si libera” dal pallone – ad una schiappa di compagno che stenta a credere a quel che succede ed incespica da solo sulla palla, tra le risate di tutti.
   Le ragazzine, quelle più perspicaci, cambiano nei cori il nome del loro beniamino, che adesso ha la casacca amaranto sbiadita, senza numero. Ma ormai lo riconoscono. Eccome se lo riconoscono.
   Nell’attaccante si avvertivano i primi segnali di perdita d’identità, per la prima volta nella sua carriera straprovinciale di asso del dribbling.
   Quel pomeriggio nulla passò oltre l’area di rigore.   C’era un leone che braccava i suoi avversari senza sosta e giù, giù.  Non ce n’era per nessuno.  Solo polvere.  Le mogli annoiate avevano già maliziosamente intuito chi avrebbe occupato le loro fantasie più segrete per i prossimi giorni.  Niente più guasconi e funamboli ciarlieri.   Solo un paio di spalle larghe, niente fronzoli.   Azione, quella sì, ed un paio di laghetti di montagna al posto degli occhi.
   Il fratello maggiore (che se nel frattempo gli avessero assegnato un tema sulla giornata più bella della sua vita avrebbe finito per descrivere quella partita) guardava il cielo ogni volta che la sua difesa era in pericolo e quando vedeva l’avversario abbattuto come da un missile terra-terra, benediceva quel suo silenzioso familiare, ed il suo orgoglio ormai faceva fatica ad essere contenuto dentro i confini della regione...
   E quel bambinetto biondino e petulante, ogni volta che il suo eroico difensore spezzava le reni alla fantasia del sui avversari, era lì che gridava di gioia con le braccia all’insù verso il cielo, che già mostrava i suoi segni rosa e rossi: l’incontro stava per finire.
   Nessun segno visibile di gioia sul viso di quel ragazzo con gli occhi chiari ed un’incontenibile frenesia sulla faccia del fratello maggiore e dei suoi compagni, che quel pomeriggio avevano visto, sotto quella temperatura da sciogliere le pietre, come si può ridicolizzare un mito  con la sola grinta infinita di un ragazzo timido.
   Lo portarono in trionfo: avevano vinto e non avevano subito nemmeno un tiro in porta, il portiere poteva starsene alle terme, e tutto questo solo per suo merito, dello stopper.  Quel giorno in rete non ci sarebbe andato nemmeno il diavolo. La partita dopo era la finale, che vinsero ancora per il merito assoluto di quel ragazzo di pochissime parole.
   E quel paesino polveroso ed arroventato quell’agosto trovò il suo silenzioso eroe; quell’eroe che in campo fermava i bulldozer in corsa, ma che a casa veniva sgridato da sua madre perché tornava con le scarpe piene di terra e sassi, che distribuiva equamente in tutte le stanze, inseguito dai suoi compagni festanti.  Sua madre non poteva immaginare quanti cuori avevano palpitato quell’agosto per il suo ragazzo, altrimenti non l’avrebbe così aggredito.
   A proposito, quell’anno la Misericordia vinse il suo torneo ed il suo invasato Presidente fece in modo che alla cena finale quel ragazzo taciturno venisse rimpinzato a dovere di ogni sconcezza culinaria, per poi essere sottoposto ad una accurata lavanda gastrica a base di Cirò rosso.
   Sono passati decenni da allora, ma chi ebbe il privilegio di assistere ai fatti qui raccontati, non ha potuto  più dimenticare quello che vide in campo quell’anno, e quel ragazzo con gli occhi timidi in quella graticola pietrosa.
   …E sì che quell’agosto pareva davvero il più caldo di tutti…

Roberto de Candia

        

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