Domenico  Cianci

                                                                                         
                                                                                            

    Domenico Cianci è nato a Santa Severina nel 1940. Venuto al mondo in una famiglia contadini, conobbe, sin da giovanissimo, gli stenti e i sacrifici di tutti i fanciulli che vissero gli anni difficili del dopo guerra in una terra povera e abbandonata come la Calabria di quel tempo. Costretto a  interrompere gli studi per aiutare la famiglia nel duro lavoro dei campi, poté riprenderli solo a distanza di otto anni. Conseguita la licenza media nella sua Santa Severina, frequentò per due anni l'Istituto magistrale di Vibo Valentia, poi, la carenza di mezzi economici lo costrinse ad abbandonare gli studi e a emigrare a Sanremo. 
   Nella città dei fiori, conciliando il duro lavoro con gli studi, conseguì il diploma di geometra che gli consentì di lavorare alla costruzione dell'Autostrada dei Fiori. Costretto ancora una volta a lasciare il lavoro per problemi di salute, si impiegò, successivamente, come casellante. E' in pensione dal 1996 e vive attualmente a Milano. Dopo il pensionamento ha continuato a coltivare una serie di interessi che vanno dal teatro all'arte, ai libri, alla musica classica, alla frequenza di centri di aggregazione e di corsi vari.
  Proprio in occasione di uno di questi corsi ha scritto una pregevole "Lettera alla felicità" ricca di umanità, di profonde riflessioni che scaturiscono da un dialogo apparente con questa evanescente entità,  ma che finiscono per costituire il bilancio di una vita certamente dura, ma che egli ha saputo vivere serenamente accettando quanto di bello e di brutto gli veniva offerto,  grazie al dono dell'accettazione serena della sofferenza e della fatica e alla capacità di saper comunque cogliere il bello dell'esistenza anche quand'essa ci serve un "pane amaro". Grazie a questa filosofia di vita Domenico incontra la felicità  "
negli occhi melodiosi d’una coetanea" che  poi diventerà sua moglie, nella contemplazione dei nipotini, le sue "gocce d'eternità", nelle minute cose di ogni giorno che a volte ci lasciamo stoltamente scivolare addosso come l'acqua senza apprezzarne la ricchezza e l'arcano fascino  e con questa felicità convive tutt'ora. 
   Un vecchio adagio che lessi da ragazzo in un racconto di cui non ricordo più l'autore, ma che mi pare si richiamasse al Tantra tibetano,  recitava così: "
Quando tu nascesti tutti intorno a te ridevano e solo tu piangevi... fa sì che quando morirai tutti piangano e tu possa sorridere felice." Non so se Domenico abbia ispirato volutamente la sua vita a questo concetto, ma, in ogni caso, lo ha messo in atto, magari anche inconsapevolmente. Vale davvero la pena di leggere questo suo pregevole scritto che ci aiuta a vivere felici e ci mostra, ancora una volta, quale immensa "miniera d'oro" di intelligenze, valori, cultura sia stato e sia ancora il nostro Mezzogiorno.
                                                 
Peppino Marino

L'amico Domenico Cianci ci manda questa bellissima poesia scritta nel lontano 1977 dalla quale traspare l'amore per il figlioletto e l'ansia di vederlo un giorno colto, saggio e umile, armi con le quali,  a differenza della "corazza dell'ignoranza", si vincono tutte le battaglie della vita. 

Antonio, dolce tesoro mio,
goccia condensata della mia linfa
e   dei miei pensieri,
meta e scopo del mio mondo,
cosa vuoi da me 
 che di te vorrei fare
un uomo   colto?

Tutti i giorni ti ribelli
alle mie regole spartane.
Tu hai ragione ed io non ho torto.
Quando padre tu sarai,
con te mi confronterai,
e giudicare potrai
la mia persona
e tutto il  mio vissuto.

Sei vicino ai dieci anni e pensi tanto!
Pensi al tuo passato senza gloria,
al tuo presente senza storia.
Antonio caro, anima ribelle,
vita e morte si confondono
guardandoti giocare.

Quante volte mi domando
come, dove e quando
smussare devo nella tua persona!.
Serena, armoniosa e ricca di pensieri,
con tanta pace e luce dentro il cuore
vorrei  vederla
camminar tra gente colta, 
risoluta e aperta a tutti
con saggezza e umiltà.

 Tante volte con te energico mi mostro,
e forse sbaglio.
Ma con te parlare devo tanto,
e dentro la tua anima
scavare e seminare devo
il seme dell’amore,
il senso del lecito e del giusto,
e soprattutto del SAPERE
il desiderio aggressivo.

Tutto nella vita costa, e con fatica,
... ricordalo..!
Le battaglie non si vincono
se resti corazzato d’ignoranza.!!
Carico di sapere e vestito d’umiltà,
tutta la tua vita sarà serena,
.ricordatelo..
Te lo dice tuo papà.

 Lettera alla felicità

   Cara Felicità, devo scriverti una lettera e non so chi sei, quale aspetto hai e come ti presenti a chi ti cerca.  Indosserai sicuramente abiti semitrasparenti e dalle mille sfumature intonate agli stati d’animo di quelle creature semplici che ragionano col cuore.
   Alcuni saggi affermano che rendi sereno e gaio l’essere umano se riesce ad afferrarti e tenerti ferma con la mente anche per un secondo solo. Io, da bambino, parecchie volte ho tentato di scovarti nel silenzio ombroso e saturo d’incenso della cattedrale e anche nella piccola chiesa di campagna, poco lontano dal borgo di poche anime contadine che mi ha visto nascere e crescere fino a venti anni.
    A nove anni, quando mio padre mi ha tolto dalla scuola per seguirlo nei campi, ti ho cercato dalla sommità di Caprara, quel monte non tanto alto ma isolato, esposto ai quattro venti, e dominante  su colline e valli a perdita d’occhio.
In cima in cima a quel monte possedevamo un grosso uliveto, nel cui centro un piccolo fabbricato rurale,  circondato da sei mandorli, un sorbo e due filari di fichi d’India, sfidava i venti e controllava la severità e l’immobilità delle montagne circostanti. Alla raccolta delle mandorle io e mio padre vi andavamo prima che spuntasse l’alba e ritornavamo al paese al crepuscolo, poco prima che le ombre della sera invadessero le strade.
   Da quell’altezza e con quel silenzio divino ti ho cercato  nella purezza delle albe e dei tramonti e nelle arcane profondità  del cielo. Non ho scorto una traccia della tua presenza ma quella pace e quel mistero mi facevano venire i brividi.
   Alcune notti pernottavamo in quel casale grezzo e semi abbandonato ed io, bambinello, fino a quando non mi prendeva il sonno, ti  cercavo, attraverso la finestra aperta, tra le stelle e il chiarore della luna piena. Non so se nel firmamento cercavo te o un’altra cosa che con te aveva una certa affinità. Certo è che vedevo e toccavo la sapienza e la potenza del Creatore. Con stupore, gioia e trepidazione assieme mi perdevo nell’immensità dei vuoti interstellari. Erano segni tuoi quelle emozioni che provavo?
   Avevo undici o dodici anni quando mia madre mi portò al mare, lontano dal paese venti e più chilometri. Era la prima volta che lo vedevo. Lo stupore fu immenso. Il cielo era di un celeste particolare e la gran massa d’acqua gli faceva da specchio, grancassa e contraltare. Estasiato dinanzi a quel celeste fermo e a quell’azzurro in movimento, ti ho cercato  nelle stratosfere e nelle creste argentate delle onde. Non ti ho visto nemmeno in questi due posti, ma la sorpresa e la commozione sono state intense e ugualmente gratificanti. Un giorno, sempre di quel periodo, dopo un potente temporale, un meraviglioso arcobaleno si mise a puntellare  due montagne lontane. Più lo guardavo più’ lo trovavo stupefacente. Trasalimenti uno dopo l’altro. Anche quel giorno ti ho cercato senza risultati nei colori di quel miracolo del cielo.  Attorno ai tredici anni, quando la razionalità aveva  incominciato a tarlarmi la fantasia e l’innocenza, ti ho cercato nel profumo dei fiori, nella fralezza e nell’ingenuità delle farfalle.  Ti ho cercato dappertutto mia cara, anche in quel periodo.  Ho tentato di scorgerti  perfino nello sguardo e sul volto di un mio nipote appena nato, di un’adolescente, di una giovane al colmo dello splendore, negli occhi e nel tatto delle morbide mani di mia madre e non mi sembra di averti mai incontrato e tanto meno di avere con te dialogato più di tanto.  Provavo solo emozioni dalle più delicate alle più violente assieme ad altrettanti stupori indescrivibili. Quei segni erano sicuramente tuoi strettissimi parenti nel ruolo di tuoi fidati messaggeri con destinazione il cuore degli umani. Sei sempre un po’ dovunque sotto varie forme e noi umani, che non ci rendiamo conto come il tempo scorre, non ti vediamo, non sappiamo coglierti e darti accoglienza nel nostro animo.
   La ragione ti chiude ogni spiraglio quando grande è il desiderio di sopraffare i nostri simili e altrettanto incontrollabile è l’ingordigia di guadagnare sempre  di più.  Sono tue nemiche quelle smanie. Sono forti e radicate in ognuno di noi, e tu sei troppo delicata e incapace di frenarne o quanto meno attenuarne  l’irruenza che spesso travolge le tue deboli iniziative. Non ti tocco, non ti vedo, ma sento sempre la tua presenza quando apro gli occhi e vedo, tocco e sento quanto mi circonda. Sarai forse quell’ombra muta che mi viene dietro quando vado incontro al sole prossimo al tramonto o che mi precede quando allo stesso sole volgo le spalle? Adesso che vagando vado a ritroso sugli eventi salienti dell’esistenza, devo dirti cara Ombra che, nonostante la ragione abbia spodestato da parecchio tempo le illusioni, tu non sei stata con me tanto recalcitrante. In un sommario inventario della vita il positivo sovrasta il negativo.
   Mi hai sorriso e dilatato il cuore il giorno della prima comunione e me lo hai poi subissato di canti e di musiche paradisiache quando, quindicenne, sono andato ad annegarmi negli occhi melodiosi d’una mia coetanea, divenuta subito la morosa, poi la mia dolcissima consorte, madre dei miei figli e ora nonna di Giulia, Benedetta e Leonardo, le nostre tre gocce d’eternità a cui auguro una lunga vita sana e tranquilla,   di  saper cogliere emozioni anche dalle minute cose e  di  continuare a seminare, serenamente, tanti eredi nell’inarrestabile scorrere del tempo. Ero appena adolescente quel giorno del primo incontro con quell’angelo che poi è diventato il rifugio e il custode della mia anima. Da poco mi ero pudicamente affacciato nel meraviglioso mondo delle donne. E’ stato, quello, un giorno di scintille, di sussulti, di tuffi e capriole nel dolcissimo lago dei suoi occhi.
   Da quel momento in poi tu mi hai inondato di brividi sublimi, del tutto diversi da quelli che fino allora mi aveva concesso di godere il Creatore attraverso le sue creature grandi e piccole. Con mia moglie accanto mi hai fatto toccare la corrente multipla dei sensi e fatto mandare in estasi l’anima e la ragione. Mi sei venuta accanto e fatto palpare il cielo con le mani anche quando, a Sanremo, sono passato dalla categoria dei lavoratori della terra a quella dei geometri e dintorni.
   Per fare un minimo inventario attendibile dei momenti di felicità, devo osservare attentamente nei registri della memoria di pensionato settantenne trasferito da Sanremo a Milano solo per fare il nonno.
   Osservando qua e là, mi sono reso conto che devo ringraziarti molto per i continui contatti che tu mi hai dato e per i giorni felici che ne sono scaturiti, dolce Chimera, dolce e tenera Ombra evanescente.
    Non posso farti un elenco preciso di tutti i momenti belli vissuti durante i miei settant’anni, ma qualche altro aneddoto, in cui tu mi sei stata dolce elargitrice di piaceri e gioie, devo pure riportarlo su questa letterina.
   Erano le tre di una notte  senza stelle e con una nebbia che calava fitta dappertutto, quando nella casa del mio  piccolo borgo calabro   è venuto al mondo il figlio maschio con un semplice parto naturale.
   Dopo alcuni minuti ho lasciato la  puerpera  alle cure dell’ostetrica e sono scappato con l’auto a informare del lieto evento e a sollevare dall’ansia i miei vecchi genitori, la cui dimora era distante circa un chilometro dalla mia. Ero tanto inebriato di gioia in quei momenti che, facendo retromarcia, andai a sbattere contro un muro. Ebbene, devo dirti che non scesi per costatare i danni al paraurti. La gioia non aveva prezzo ed io non avevo tempo da perdere.  Ingranai la prima, la seconda, la terza e, fendendo all’impazzata la fitta nebbia e il silenzio della notte, mi trovai in un niente nella casa paterna.
   Mio padre e mia madre avevano lasciato la porta socchiusa e se ne stavano nel letto, in ansioso dormiveglia. Dopo il diluvio di lacrime di gioia per la regolarità del parto e per  il bimbo venuto alla luce sano e bello, stemmo a guardarci a lungo  senza dirci una parola sola: la gabbia toracica faticava a contenere il cuore . Tu reggevi le redini delle forze fisiche e mentali, mie e dei miei vecchi genitori, nei cui occhi lucidi ti ho visto scintillare e volteggiare.
   Passeggiavi delicatamente sulla nostra pelle, schizzavi agile dalle mie alle loro pupille, ti divertivi ad annegarci in sempre più copiose e calde lacrime di gioia.
   Le stesse emozioni tu mi hai elargito quando è venuta al mondo la femminuccia e, tanti anni dopo, il giorno delle loro lauree, della compera delle loro case e delle loro nozze.  Nel mio vocabolario non trovo parole capaci di cogliere nella loro pienezza e poi esternare almeno in parte le gioie e le commozioni provate quando le nostre gocce d’eternità, Giulia, Benedetta e Leonardo hanno messo piede in questo mondo. Tolta la parentesi dell’operazione al cervello per quell’intruso angioma che mi ha privato della vista all’occhio destro e dell’uso naturale della parte sinistra del corpo intero, quando tu mi hai lasciato solo, solo con la morte e l’infinito e poi fatto precipitare a svolgere con una mano un lavoro alienante, deprimente, tra colleghi dei quali alcuni non sempre mi capivano, per tutto il resto non sei stata tanta avara nei miei confronti. In molte altre liete circostanze tu sei venuta a sfiorarmi la mente e il cuore. Ti sei sempre comportata con maniere delicate. Ritorno a dirti che non posso elencarti tutte le volte in cui tu mi hai fatto sorridere e commuovere. Ti ringrazio per il passato, per il presente che mi scivola da sotto i piedi e anche per il futuro che, come a tutte le persone anziane, anche a me viene incontro denso di nuvolaglie. Non mi abbandonare ora che incominciano a mancarmi le forze fisiche e si moltiplicano gli acciacchi, ora che mi perdo nella girandola degli interrogativi del trantran quotidiano e nella ragnatela dei pensieri metafisici. Con la tua  verve  vienimi spesso accanto, tutta protesa e pronta a stimolarmi e a moltiplicarmi le emozioni, i sentimenti e quanto altro mi tiro appresso in questo scorcio d’esistenza affollato di fantasmi.  Tu non hai un corpo, un volto, dicevo, non fai neanche ombra ma docile e silente fai la parte della regina tra le forze, le speranze e tutti gli altri fili intuibili e non visibili che tessono, sostanziano e sorreggono la vita degli umani. Non per niente, durante tutti gli attimi del nostro quotidiano, tutti ti cerchiamo dentro e fuori la sfera dei nostri affetti, dentro e fuori la cerchia di quanti ci circondano. Io, col cuore sgombro dalle varie cupidigie, continuo tenacemente a farti il filo e tu non essere restia. Apriti e vienimi incontro quando ti è possibile. Regalami tutte le meraviglie e le emozioni che la mia età può cogliere e gustare.
   A settanta anni ogni essere pensante diviene spesso un’isola di silenzio galleggiante su paludi d’amarezze e solitudini. Con i tuoi sprazzi luminosi tienimi lontano dal diventare una tale isola durante l’avanzare sul viale che porta sulle rive del  buio e del silenzio eterno. Non aspiro ad allori e agi, ma ti prego di aiutarmi a rendermi la vecchiaia meno amara.  Per quanto devo vivere, fammi stare sano e in armonia  con mia moglie, con i figli, col genero e la nuora e soprattutto con i nipotini. So che dappertutto ti aspettano tanti cuori tristi, ombrosi e che tu non hai più voglia di ascoltarmi. Ma prima di lasciarti andare a dare un po’ luce e di allegria a quelle anime che vedono nero anche dove il sole acceca, ti devo fare un’ultima supplica cui tengo tanto.  Integri, come sono adesso, lasciami i sensi, gli affetti, la mente, la parola e le gambe. Con un libro, un  po’ di compagnia dei parenti, degli amici e anche di soli estranei, essi mi aiuteranno a stare sereno e pago fino all’ultimo respiro.

 

Eccovi una bellissima poesia di Domenico dedicata al padre con la quale, come sempre capita  a ognuno di noi, l'Autore riesce a dire al genitore quello che non è mai riuscito a dirgli quand'era in vita. In questo scritto struggente e delicato c'è tutta la  cultura della nostra società contadina, il dramma dell'emigrazione che ha sempre condizionato la vita dei meridionali, le aspirazioni e il riscatto della gente umile, ma dignitosa del Mezzogiorno d'Italia.
             Peppino Marino

 

 A mio padre

  Avevo vent’anni
e tu sessantotto, papà,
quando   ti ho abbandonato
per trovare fortuna   a Sanremo.
Anche tu,  diciannovenne,   
 hai lasciato   tuo padre 
per andare  a trovare lavoro in America.
Mio figlio si è separato da me  
ancora più giovane.
Lui aveva solo  diciotto anni quando
a  Sanremo ha preferito Milano,
dove ora io mi trovo a svernare   
gli anni   della vecchiaia.
La storia si ripete carissimo padre.
L’aspirazione dei figli
di  distaccarsi   dalla dominazione paterna
 è  radicata nell’animo  dei giovani di ogni epoca
 e di ogni regione geografica.
Una tua sorella mi ha detto,
quando  io ero un ragazzo,
che tuo padre ti  aveva  raggiunto a Brooklyn
 per starti vicino  e che tu,  taciturno e ribelle ventenne,
sei scappato a Pittsburgh perché amavi  essere libero.   
Tre anni dopo la mia partenza  dalla famiglia,
 tu, settantunenne e malandato in salute,
 mi hai  raggiunto a Sanremo per   renderti conto
se  davvero  ero salito di casta
e se, poi, potevi  finire i tuoi giorni sotto i miei occhi.
Ricordo i tuoi zigomi  ossuti,
 le rughe profonde del viso,  del collo,
il cui colore  non differiva da quello delle noci essiccate.
Ricordo le tue mani   piene di calli e col dorso  serpeggiato 
 da grosse  vene bluastre in rilievo.
Eri contento, papà, dei  gradini che avevo salito
nella scala sociale  e, ancora di più,
per il rispetto di cui godevo.
 Eri sereno,  orgoglioso, appagato
sebbene, tre anni prima, ti avessi lasciato
 a far fronte da  solo, vecchio   ammalato,
ai tanti  lavori   pesanti dei campi. 
 Non mi hai parlato neanche a Sanremo
come non lo hai mai fatto
quando a Crapara e  nelle   altre  nostre  campagne
 stavamo dall’alba al tramonto
a stretto  contatto di gomito.
 Stavamo  muti, sen’anima,  come due pietre.
 Non  mi parlavi neanche a Sanremo, dicevo
ma dai tuoi occhi  lucidi e gonfi di gioia
sgorgava  il tuo orgoglio e anche il    perdono
per il  mio atto d’indocile figlio.
Durante  gli ultimi  tuoi  tre anni
vissuti nella mia casa di Taggia,
ho fatto  tutto il possibile
per darti    serenità,  benessere
e  per  smuovere e scavarti nell’intimo.
Hai letto cinquantadue raccolte di favole 
dietro  la finestra della tua camera,
da  dove  ti vedevo allungare lo sguardo nostalgico
sugli orti lontani, sul panorama di Taggia,
 sulle acque  e sugli oleandri  del torrente Argentina,
su Castellaro, sulle alpi marittime, su Triora
 e, girandoti a destra,   su Arma e sul suo mare
screziato di  lamine e di  riccioli argentei
che  inni di gloria innalzavano al cielo.
In quel dolce periodo mio figlio  aveva solo tre anni.
Lo accarezzavi,  giocavi, litigavi con lui,
te lo mettevi  sulle ginocchia
e gli raccontavi le favole di cui  non era mai sazio .
Nel grande    cimitero  di Sanremo,
in cima a valle Ormea,
ora tu  riposi in un loculo alto,
in mezzo a una fila di sconosciuti.
Sono trascorsi  quasi quattro decenni
 da quando sei spirato  tra le mie braccia.
 Da allora non  ho mai smesso
 di  chiederti perdono per  averti lasciato
quando avevi     disperato  bisogno del mio aiuto.
 Non ho mai smesso e  mai smetterò altresì
di ringraziarti per quanto mi hai  trasmesso
attraverso i tuoi occhi, il tuo esempio.
Non fa niente se  quand’ero bambino
non  mi hai  raccontato una favola,
e se non mi ha mai sorriso.
Non fa niente se non mi hai insegnato
a leggere e scrivere, ad avere a che fare
con  la matematica,  il greco e il latino,
se non mi hai parlato di Dante e Petrarca
e  se neanche un semplice accenno m’ hai dato
dei grandi  ingegni che hanno   elevato 
i sentimenti e i pensieri del genere umano.
In nessun modo potevi, caro papà.
 La zappa, l’aratro, la falce
erano state le tue  penne stilografiche;
 per libri e quaderni avevi  la terra
e per compagni  solo il vento e  la pioggia,
il freddo e il  caldo cocente.
Il tuo mondo   era quello
e  sarebbe stato anche il mio
se  io non avessi avuto il coraggio
di lasciarti per   scappare a Sanremo.
Mi sono bastati  tutti quegli anni
 vissuti con te in campagna
 per   ipotizzare da fuori   il tuo animo
e da dentro penetrare  il tuo  mondo di terra.
Avresti  agito con   me
come a sua volta
tuo padre  ha    fatto  con te
 fino a quando non sei scappato in America.
 Le tue labbra, ripeto,  erano restie ad aprirsi,
anche quando ti supplicavo di dirmi qualcosa
dei tuoi sentimenti e dei tuoi pensieri.
Non parlavi, ma  dai tuoi occhi  traspariva
quanto bolliva nel  tuo  animo chiuso.
Ti ringrazio  non solo per  avermi dato la vita
ma  soprattutto per  quella   grammatica
semplice e rude,
senza parole, 
di solo sguardi 
e per  quella morale
che   i tuoi  lunghi  e profondi silenzi  
mi hanno    trasmesso con    saggia
e  soppesata   pazienza.
Se dal cielo mi  vedi e  mi ascolti,
preparami un posto al tuo fianco.
Quando verrò,   e non   credo sarà lontano quel giorno,
ci  svuoteremo le idee, gli affetti, tutto il nostro  vissuto
come non abbiamo mai fatto.
Ci svuoteremo fino all’ultima scaglia riposta
nel fondo delle nostre  semplici anime.
Dei  numerosissimi  errori perdonami anche quello
di   non essere riuscito a convincerti quanto belli
sono il dono, la potenza e lo scambio della parolache, tra noi, purtroppo, non c’è mai stato.