Vincenzino era
un ragazzo molto coraggioso; almeno di questo si era spesso vantato con
gli amici quando il sabato sera, lasciata la casella di Battinderi dove
viveva con i genitori e le sorelle, si recava a piedi a Caccuri per
trascorrere qualche ora con i suoi coetanei all’osteria a giocare a
carte e a padrone e sotto. Poi, dopo aver mangiato per cena un piatto di
spezzatino di coratella o quattro stigliule
accompagnando il tutto con qualche bicchiere di vino, verso le 9 si
avviava per il sentiero che, attraverso San Nicola,
Rittusa e Zifarelli portava a Battinderi.
In
una calma e serena sera del mese di novembre, una di quelle sere tiepide
e serene che ci regala San Martino, conclusa la solita gozzoviglia con
gli amici, prese la via di casa. La notte era senza luna e il buio lo si
poteva tagliare con l’accetta, ma Vincenzino, che conosceva la strada
a menadito, non se ne curava. Nella tasca del pastrano portava sempre un
pezzo di rera
che, appena arrivato alla periferia del paese, laddove finivano i
lampioni a olio dell’illuminazione pubblica che rischiaravano
fiocamente le viuzze strette del borgo, era solito accendersi per farsi
un po’ di luce lungo il cammino, una luce che, comunque, non andava
oltre un metro dalla punta delle scarpe.
Quella
volta aveva appena oltrepassato San Nicola ed era giunto a una
sessantina di passi dalla Conicella quando gli si pararono innanzi due
orribili teschi distanti un quattro – cinque metri l’uno
dall’altro che si libravano nell’aria buttando fiamme e fuoco dalle
orbite incavate e dalla bocca.
Le
orribili apparizioni si protendevano minacciosamente verso di lui e,
contemporaneamente un urlo bestiale e una risata demoniaca gli fecero
gelare il sangue nelle vene. Nonostante le gambe gli fossero
improvvisamente diventate di ricotta, si voltò di scatto per fuggire
lontano da quelle macabri apparizioni tornando in paese. Il brusco
movimento e il panico incontrollabile gli fecero cadere di mano la
torcia che si spese immediatamente al contatto con l’erba umida
lasciandolo completamente al buio. Fece molti tentativi, ma non
riuscì a smuoversi da quel maledetto posto perché una mano invisibile
lo teneva saldamente per il pastrano impedendogli qualsiasi movimento.
Intanto la terribile risata che l’eco moltiplicava più volte,
rimbombava nella piccola valle accentuando il suo terrore.
Il
povero giovane non ebbe il coraggio di voltarsi temendo di avere alle
spalle il diavolo in persona e, col viso sempre rivolto verso il paese,
implorava l’essere misterioso che lo teneva prigioniero di non fargli
del male e di lasciarlo andare, ma per quanto tentasse di svincolarsi da
quella terribile morsa, non riuscì a smuoversi di un millimetro, anzi
gli sembrò che il diavolo giocasse con lui a rimpiattino,
consentendogli di avanzare per qualche centimetro per poi tirarlo
nuovamente verso di sé con uno strattone, mentre urlo e risata gli
sembravano sempre più vicini. Quando il terrore raggiunse il culmine il
poveretto cadde in deliquio e quella proverbiale perdita di coscienza
venne a toglierlo pietosamente da quell’orribile situazione.
Lo
svenimento dovette durare a lungo perché lo svegliò un tenue raggio di
sole che lo colpì proprio sugli occhi. Ancora intontito Vincenzino non
riuscì a stabilire subito se aveva avuto un terribile incubo o se aveva
vissuto realmente quella brutta avventura. Per qualche attimo non capì
nemmeno dove si trovava, poi tutto gli riaffiorò spaventosamente alla
mente. Poi pensò che oramai era giorno fatto e che la luce del sole
aveva certamente scacciato gli spiriti delle tenebre per cui si sentì
un po’ rincuorato, anche perché in lontananza si udivano alcune
pecore belare. Allora si
guardò intorno e si avvide del lembo del pastrano impigliato nel ramo
di un pruno e, guardando verso Conicella, a una trentina di metri di
distanza, vide due grosse zucche rosse che pendevano
dai rami di un mandorlo oscillando lievemente a ogni alito di
brezza.
Colto da un
indicibile furore, disincagliò il pastrano dal pruno, poi prese a
sassate le zucche, quindi si avviò nella direzione dalla quale gli era
sembrato provenissero l’urlo e la risata. Fu allora che dietro alcuni
di mucchi
rinvenne alcune bucce d’arancia e molte cicche, segni inequivocabili
di un bivacco notturno. Il povero giovane inveì in cuor suo contro gli
autori di quella mascalzonata mandando loro tutte le maledizioni possibili
e immaginabili, quindi si avviò mestamente verso Battinderi dove trovò
la famiglia in ansia per il ritardo e dovette inventarsi una scusa per
aver passato la notte fuori di casa.
Da quella
volta Vincenzino non mise più piede in paese e non si fece mai più
vedere all’osteria, non tanto perché avesse paura di imbattersi
ancora negli spiriti della notte, ma per quella di dover sostenere lo
sguardo beffardo e sornione degli autori di quell’ odiosa burla che
non potevano non essere i suoi compagni di gozzoviglia.
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