Donna
Caterina era odiata da tutti in paese, ma nessuno osava far trapelare il
minimo cenno di riprovazione, di odio, di avversione per quella che era
universalmente riconosciuta come una malvagia strozzina.
E in effetti l’arpìa approfittava in modo odioso della miseria
e della disperazione che regnava in paese per impinguare le sue tasche,
il suo granaio, la sua cantina, i
suoi otri, le sue giare esercitando l'ignobile arte dell’usura. Aveva
avuto la fortuna di ereditare un bel po’ di proprietà e di danaro dal
padre, un fattore del barone, che a sua volta l'aveva accumulata sulla pelle di tanti poveri
braccianti che si divertiva ad angariare e che, ciononostante, gli si
inchinavano e gli baciavano la mano per procurarsi qualche giornata di
lavoro, un
pugno di olive o un quarto di grano. In paese si diceva anche che
facesse il gallo con le mogli di quei poveracci e qualcuno gli
attribuiva anche qualche figlio spurio, com’erano chiamati in quel
tempo i figli naturali.
Caterina, che i poveri ribattezzarono contro voglia
donna Caterina per quel po’ di
roba che possedeva, fu, fortunatamente, la sola erede di quella pasta d’uomo che non
ebbe figli maschi e con le ricchezze ereditò anche la malvagità del
vecchio fattore. In paese prestava di tutto: dai soldi col dieci per cento
mensile, al grano con l’interesse di un quarto a
tomolo, all’olio
pretendendo una quarta a
litra, alle semenze, sempre col quarto. Ma la
strega aveva messo in atto un sistema ancor più odioso per pelare le
sue vittime. Pare che quando prestasse le derrate, olio, vino, grano,
semenze, usasse delle misure normali, mentre alla restituzione, oltre a
pretendere l’ esoso interesse, si servisse di misure leggermente
maggiorate depredando ulteriormente le malcapitate vittime.
All’età
di quasi trent’anni aveva sposato un brav’uomo, don Antonio,
l’unico in paese che aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a quella
serpe, anche se la sua ricchezza faceva gola a parecchi spiantati. Don
Antonio, a differenza della moglie, era una brava persona, una vittima
della megera che lo trattava come una pezza da piede. Spesso lo apostrofava villanamente davanti alla gente quando il pover’uomo
era costretto a chiederle una lira per comprarsi i sigari, ma non
trovò mai la forza e il coraggio di appiopparle un paio di sganassoni.
Per fortuna le pene del pover'uomo finirono presto perché, consumato
dalla tisi, tolse il disturbo all’età di quarantacinque anni. Quando
mastro Peppino, lo schiattamuorto del paese si presentò a casa poco
prima del funerale armato di saldatore, stagno e acido per saldare il
sarcofago di zinco, l’afflitta vedova ne approfittò per farsi saldare
il manico di una litra di latta che stava per staccarsi.
Dal
"felice" matrimonio erano nate due figlie femmine, subito
rifilate a due gonzi di paese, e un maschio, un’autentica carogna che,
mentre la madre rubava con lo strozzinaggio, lui rubava più
platealmente a man bassa
tutto ciò che gli capitava a tiro. Ovviamente la refurtiva andava ad
impinguare i magazzini di
donna Caterina che si guardava bene dal cercare di distogliere quel figlio
delinquente dalla sua poco lodevole attività. Spesso la gente si
lamentava col maresciallo dei carabinieri, ma mai nessuno era riuscito o
aveva trovato il coraggio di fornire prove inoppugnabili che
consentissero di metterlo al fresco anche perché solitamente il suo
pezzo forte erano le derrate alimentari, le galline e prodotti agricoli
che, una volta mischiati con quelli della madre, era praticamente
impossibile individuare. Tutti in paese speravano che un giorno qualcuno
gli mettesse una palla in fronte, ma l’attesa durava da anni e nulla
veniva a modificare il corso degli eventi. Luigino così continuava la
sua proficua attività praticamente indisturbato divenendo ogni giorno
che passava sempre più audace e spavaldo.
Un triste giorno l’intrepido
ladrone commise l’errore che lo perse per sempre. Introdottosi
furtivamente nel palazzo della baronessa donna Amalia di Pietragrossa
che era uscita poco prima in compagnia della cameriera per andare ad
ascoltare la messa, dopo aver forzato un paio di porte interne, aveva
raggiunto la stanza da letto della nobildonna e, rovistando nel comò,
aveva messo le mani su una preziosa parure
custodita all’interno di un pregevole cofanetto intarsiato. Sfortunatamente,
però, i rumori provenienti dall’interno della dimora non erano
sfuggiti al giardiniere Pasquale Pagnotta che si fece di corsa le scale
che collegavano l’atrio al piano superiore. Non si sa come fu, ma
quel delinquente di Luigino si accorse dell’arrivo del dipendente
della baronessa e, appena questi si affacciò nella camera da letto, lo
abbatté con grande candelabro colpendolo in piena fronte.
Pasquale
cadde fulminato, con gli occhi sbarrati mentre dalla fronte il sangue
sgorgava abbondante. Il ladruncolo arraffò alla meglio la refurtiva e
scese le scale come un fulmine per allontanarsi dal palazzo. Fortuna
volle proprio nel momento in cui trafelato usciva dal cancello di villa
Pietragrossa si imbattesse in zu Rosario, il carrettiere che si recava
alla scuderia per accudire le bestie. Il giovane continuò la corsa
verso casa, ma più si avvicinava alla sua abitazione, più sentiva
dentro una specie di cocente rimorso, un qualcosa che non aveva mai
provato prima che si sommava alla paura per le conseguenze del suo
insano gesto. Sentiva la refurtiva in tasca scottare terribilmente come
se fosse stata a lungo nel fuoco. Entrò in casa furtivamente ma col cuore in gola
preoccupandosi di nascondere accuratamente
i gioielli all’interno del materasso pensando forse che ciò lo
avrebbe salvato senza rendersi conto che il vero problema era
l’incontro inaspettato con zu Rosario, prezioso testimone nel futuro
processo, ma più che la preoccupazione per le conseguenze dell’omicidio, il ragazzo, per
la prima volta nella sua vita, soffrì per un sincero pentimento per
quell’esistenza sciagurata condotta fino ad allora, per il male fatto a quei poveri
diavoli ai quali aveva
spesso sottratto quel poco che avevano per sopravvivere e che era
costato loro duro lavoro e sacrifici. Non riusciva a cancellare dalla
mente, nemmeno per un secondo, l’immagine del corpo di Pasquale
esanime; quel fiotto di sangue che fuoriusciva dalla fronte, quegli
occhi sbarrati lo
perseguitavano. Trascorse tutta la giornata nel magazzino, nascosto
dietro il cascione del grano come un topo che si nasconde al gatto
sicuro che la madre non sarebbe venuto a cercarlo. Donna Caterina era
abituata alle lunghe assenze del figlio spesso impegnato in quelle
nobili imprese per cui non si allarmava se non lo vedeva per un giorno.
Il rimorso e il pentimento divenivano sempre più cocenti e per la
prima volta in vita sua si ritrovò a piangere. Per un po' pensò anche
di andare a costituirsi, ma la paura di imbattersi nel tragitto in
qualche parente del morto che gli avrebbe levato la pelle lo terrorizzò
e lo fece raggomitolare nel suo rifugio.
Verso le nove di sera, quando oramai il paese era immerso nel
buio della sera e la gente si preparava ad andare a letto, uscì
guardingo dalla tana e si infilò silenziosamente nella sua stanza
gettandosi sul letto. Gli occhi sbarrati del povero Pasquale non gi
fecero prendere sonno e si rigirò un centinaio di volte nel giaciglio, mentre il rimorso e la paura se lo
consumavano ome una candela.
Mancava poco alla mezzanotte quando da basso sentì un trambusto,
un vociare confuso, poi colpi secchi e decisi al portone di casa. A quel
punto si vide perso, sbiancò in volto, trasalì, ma non pensò nemmeno un attimo a una possibile
fuga, d’altra parte le gambe di ricotta non gli avrebbero consentito
nemmeno di fare un passo. Si raggomitolò ancora di più su se stesso come una povera
preda che si vede perduta e aspetta con rassegnazione che il suo
predatore l’afferri e la dilani. Ancora qualche attimo, poi senti le
urla scomposte di donna Caterina e numerosi passi pesanti che rimbombavano
sulla scala di legno che portava al piano superiore. D’improvviso la
porta si spalancò e nel vano illuminato dal tenue chiarore di un lume che
donna Caterina teneva in mano intravide la sagoma di tre carabinieri col moschetto
puntato verso di lui e il corpulento maresciallo alle loro spalle.
“Luigi
Di Nardo, in nome del re e del popolo italiano ti dichiaro in arresto
per l’omicidio di Pasquale Pagnotta e per il furto dei gioielli della
baronessa Pietragrossa” gli recitò il sotto ufficiale mentre due
carabinieri si precipitavano su di lui per ammanettarlo.
“Maresciallo,
non ti preoccupare, fu la replica di Luigino, stai tranquillo, non
scappo. Potete anche non mettermi le manette, oramai so quello che mi
aspetta. Fatemi soltanto, prima di gettarmi in prigione, baciare per
l’ultima volta mia madre.”
Il
maresciallo Bonafede pensò che, tutto sommato poteva esaudire questo
innocente desiderio e fece segno ai carabinieri di attendere un po’
prima di ammanettarlo. Luigino allora ringraziò con un breve cenno e si
avvicinò alla madre per baciarla.
All’improvviso
si udì l' urlo bestiale di donna Caterina, il pavimento si chiazzò di
sangue, mentre Luigino sputava un qualcosa che si ritrovava fra i denti.
I carabinieri, presi alla sprovvista, non sapevamo che fare e persero
qualche secondo per capire cos’era successo, poi videro donna Caterina
che, urlando per i dolore, cercava di tamponare il sangue che sgorgava
abbondante dall’orecchio dal quale Luigino, con un morso, aveva
strappato gran parte del padiglione sputandolo sul pavimento. Allora un
carabiniere gli sferrò un tremendo pugno sul muso mandandolo a
ruzzolare sul pavimento, poi lo raggiunse e lo ammanettò.
“Delinquente,
criminale, gli sibilò il maresciallo mentre lo trascinava da basso, non
ti era bastato l’assassino del povero Pagnotta, anche tua madre volevi assassinare? Perché le hai dato quel morso?”
“Maresciallo,
rispose il giovane criminale, quel morso se lo è ampiamente meritato;
se oggi vengo trascinato in prigione come ladro e assassino, la colpa è
anche sua; se quando da bambino cominciai a rubare e a portare in casa
la refurtiva, invece di accarezzarmi e di incoraggiarmi mi avesse
pestato a sangue forse non sarei diventato un ladro e un assassino e il
povero Pasquale sarebbe ancora vivo, e
mentre pronunciava queste parole
calde lacrime gli solcavano il viso provocandogli
un bruciore come se gli avessero posato sul volto un ferro rovente.
Questa
breve novella è una sorta di collage di alcuni aneddoti che mi
raccontava il mio carissimo nonno Saverio
Chindamo ( ‘u zommaru), contadino analfabeta innamorato del melodramma
e grande affabulatore. Devo a lui il gusto per il racconto, oltre che la
conoscenza approfondita del mondo e della civiltà contadina degli anni
a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
Peppino Marino
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