Atti del convegno su Umberto Lafortuna
 

 

Castello di Caccuri - 18 dicembre 2005

   Domenica 18 dicembre 2005,  nelle sale del castello di Caccuri, l'Associazione culturale Zeus ha promosso un convengo sulla figura di Umberto Lafortuna, poeta caccurese e maestro elementare del secolo scorso. Dopo l' ìntroduzione del presidente Giuseppe Sganga, il saluto del sindaco di Caccuri,  prof. Arcangelo Rugiero  e del dirigente scolastico prof. Giuseppe Silletta,  Vincenzo Parrotta ha letto alcune liriche dell'illustre caccurese.  Sono seguite, quindi, le relazioni del prof. Francesco Falbo, di Giuseppe Marino e  del poeta Bruno Tassone. 
   Abbiamo voluto pubblicare,  in questa pagina, gli atti del convegno e la documentazione fotografica dell'evento  sperando di far cosa gradita ai visitatori.


Un momento del convegno

 

  Parte del pubblico in sala

L' introduzione del Presidente Sganga

  Il Presidente Peppino Sganga

Signori e signore,
a nome mio e dell’associazione culturale che presiedo saluto e ringrazio tutti voi, le Autorità presenti, il sindaco professor Rugiero, il dirigente scolastico professor Silletta, il dottor Romeo Fauci, Vincenzo Parrotta che leggerà, con la consueta bravura alcune delle più belle  poesie del maestro Lafortuna, i relatori  che hanno accettato con entusiasmo di intrattenerci sulla figura e l’opera del poeta caccurese e quanti hanno collaborato alla riuscita dell’iniziativa. Saluto calorosamente e ringrazio per la collaborazione anche i parenti di Lafortuna presenti in quest’aula.
      L’associazione culturale Zeus,  nata nell’ormai lontano 199  , si è posto, fin dalla sua fondazione, l’obiettivo di riscoprire, valorizzare e trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale, le tradizioni,  la lingua, il costume, la storia di questo nostro paese. Uno dei primi obiettivi fissati e raggiunti è stato quello di far rinascere a Caccuri, paese di grandi tradizioni musicali, una banda che attualmente risulta composta da una quarantina di ragazzi e che rappresenta un punto di orgoglio per il nostro paese. Da decenni, infatti Caccuri, che pure aveva avuto in passato ben due bande musicali e centinaia di bravi musicanti, non aveva più una banda. Oggi i nostri giovani, grazie a questa iniziativa, non solo  hanno avuto la possibilità di imparare la musica, imparare a suonare uno strumento ed esibirsi con successo in decine e decine di comuni della Calabria, ma soprattutto hanno trovato il modo di stare insieme, conoscersi, socializzare, impegnare in modo sano e proficuo il tempo libero. Possiamo, dunque, affermare, con orgoglio, di aver dato anche un nostro modesto contributo all’elevazione culturale e sociale di tanti ragazzi. Ancora c’è molto da fare; ci spettiamo che altri giovani si accostino alla musica, decidano di entrare a far parte della banda musicale che è patrimonio collettivo del paese, ma siamo convinti che ciò avverrà.      
       L’associazione Zeus ha promosso anche attività teatrali con la messa in scena di diverse  commedie, ha organizzato due edizioni della Mostra Collettiva d’Arte dell’Alto Crotonese nelle quali hanno esposto centinaia di artisti provenienti da tutti i paesi della provincia di Crotone e dell’intera Calabria, ha organizzato e curato la presentazione di un saggio sul brigantaggio locale scritto dal nostro socio Peppino Marino, oggi relatore a questo convegno, ha prodotto e distribuito gratuitamente Cd multimediali.
      Oggi, con questo convegno, vogliamo riscoprire e far conoscere alle giovani generazioni la produzione letteraria di un nostro illustre concittadino vissuto nel secolo scorso che, grazie al suo ingegno e alla sua cultura, seppe imporsi all’attenzione di scrittori, poeti, pedagogisti e uomini di scuola,  editori ed intellettuali italiani che ne apprezzarono il lirismo, la semplicità e l’efficacia del verso e la grandissima umanità.   
      Il compito di illustrarne degnamente la figura è affidato ai relatori qui presenti e non tocca a me mostrarvi la grandezza di questo maestro elementare caccurese; a me preme, invece, sottolineare l’importanza di iniziative come questa e chiedere a tutti voi, a tutti noi, di moltiplicare gli sforzi per valorizzare appieno la nostra risorsa cultura che è notevole e che può e deve essere utilizzata per far rinascere il nostro paese.  Rivalutare i nostri personaggi è un dovere morale che dobbiamo assolvere: lo dobbiamo a questi uomini che hanno saputo fare grande la nostra cittadina, lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo alle future generazioni.

 Grazie, buon lavoro e buona serata a tutti.

 


                   Il saluto del Sindaco di Caccuri prof. Arcangelo Rugiero

             
 
                               L'intervento del Dirigente scolastico prof. Giuseppe Silletta

 

            Vincenzo Parrotta legge Lafortuna

 

 La relazione di Giuseppe Marino

Giuseppe Marino

 

Umberto Lafortuna, il maestro poeta

   

Umberto Lafortuna, maestro elementare quando la parola maestro aveva ancora significato, poeta ricco di umanità, educatore scrupoloso ed innamorato del proprio mestiere, nacque a Savelli il 27 marzo del 1884 da un cancelliere della Pretura originario della provincia di Vibo Valentia e da Maria Giuseppa Ambrosio, una giovane donna caccurese che si trasferì, qualche tempo dopo, nel suo vicino paese.

Qui il futuro poeta trascorse gli anni dell’infanzia, anni fondamentali nei quali imparerà a conoscere e ad amare il mondo che lo circonda, la natura, le piante, i fiori, gli animali e quei cuccioli d’uomo coi quali trascorrerà poi tanta parte della sua, non troppo lunga, vita. Fu in quegli anni che Umberto Lafortuna imparò a conoscere il linguaggio delle piante, degli animali; a saperli ascoltare e a leggere nel loro animo per poi dare loro voce nelle sue liriche.

Successivamente si trasferì a Napoli ove frequentò le scuole superiori e conseguì il diploma di abilitazione magistrale. Fu quindi chiamato ad assolvere gli obblighi di leva e prestò servizio militare a Messina. Lo spaventoso terremoto del 1908 lo colse proprio nella cittadina siciliana dove scampò miracolosamente all’immane catastrofe saltando da una finestra proprio qualche attimo prima che il palazzo crollasse.  Subito dopo, partecipò attivamente e con grande spirito di abnegazione, alle operazioni di soccorso e contribuì a salvare numerose vite umane strappando quei corpi martoriati alle macerie e, per questo motivo, fu insignito del diploma di merito istituito con regio decreto nel 1910.

Assolti gli obblighi di leva il giovane maestro fece ritorno a Caccuri per insegnare nella scuola elementare. Nel 1930 diede alle stampe, presso l’editore Trevisini di Milano, il  volume “Pupille infantili”, una raccolta di poesie e prose che si avvalse della prefazione del più illustre pedagogista italiano dell’epoca, Giuseppe Lombardo Radice. Il libro riscosse   molto successo, sia tra i lettori, sia tra gli addetti ai lavori. Molte riviste pubblicarono  brani e poesie tratti dal volume del maestro caccurese, mentre altre apparvero sui libri di testo per la scuola elementare. A questo proposito, ho sempre conservato con cura maniacale il mio vecchio libro di testo della seconda elementare, anno scolastico 1957/58, questo che vedete, un testo di Maria Balbo dal titolo “Campo di fiori” nel quale, accanto a poesie di Zietta Liù, Lina Schwarz, Giuseppe Fanciulli, Renzo Pezzani Diego Valeri, Angiolo Silvio Novaro, a pagina 47, compare anche la celebre “Nonno inverno” del nostro Lafortuna.

Incoraggiato dal successo, tentò, inutilmente, di pubblicare un secondo volume delle sue preziosissime liriche. Purtroppo ben altre erano, in quei tempi bui, con un terrificante conflitto in corso, le preoccupazioni degli editori e degli stessi potenziali lettori per cui i pregevoli capolavori che continuò a produrre, vergati su fogli di fortuna con grafia pulita e curata, rimasero  sepolti, per decenni, fra le sue carte. Qualche anno fa, grazie alla cortesia e alla sensibilità delle signorine Rita e Mirella De Franco, nipoti del poeta, abbiamo avuto l’opportunità di scoprire le liriche inedite che confermano tutta intera, la grandezza e la sensibilità dell’Autore.

Umberto Lafortuna continuò ad insegnare nella scuola elementare di Caccuri, fino alla morte che lo colse la notte di Natale del 1944.

C’è, forse,  qualcosa di arcano, di mistico, di sublime in questa curiosa coincidenza: il poeta dei bambini, il maestro che ai bambini ha dedicato la vita, che ha sempre cercato di educarli, di coltivarne la sensibilità, di elevarli culturalmente e moralmente, anche attraverso le sue stupende poesie, si spegne proprio nel momento in cui viene al mondo un altro Maestro, il più grande di tutti, l’uomo destinato, col suo insegnamento, a salvare il mondo. Ed ecco che questa morte assume quasi l’aspetto di un passaggio del testimone, di un passaggio di consegne: “Maestro, sembra dire Umberto Lafortuna rivolto a Gesù, sono vecchio e stanco; il mio tempo è finito. Io ho fatto quello che ho potuto, ho parlato al cuore dei fanciulli, ho cercato, e forse qualche volta ci sono riuscito, di renderli più buoni; ora tocca a te continuare. Buona fortuna, Gesù!”  E nel dire queste parole, l’anziano educatore si addormenta dolcemente. In quel momento la vicina “focera” che prima stentava ad ardere, si ravviva, emana bagliori più intensi; nuova luce e nuovo calore investono i vecchi intirizziti raccolti in cerchio intorno al “sacro fuoco” e le campane annunciano al mondo il passaggio del testimone. Sarò un sognatore, ma a me piace pensare che Umberto Lafortuna, poeta, da vivo, fin nella più intima delle sue fibre, poeta lo abbia voluto essere anche nella morte.

A me che ho la fortuna di insegnare da 35 anni nella sua scuola, in quella scuola alla quale Egli, insieme ad altri illustri colleghi, com’è già stato ricordato, seppe dare lustro e decoro, tocca, questa sera, il compito di ricordarlo nella veste di maestro, soprattutto, oltre che di poeta, sapendo, ovviamente, che i due ruoli si intrecciano profondamente e che il poeta, quand’anche rifugga dalla retorica, faccia di tutto per bandire dai propri versi qualsiasi intento didascalico, finisce, fatalmente, per educare: educare al bello, educare al sano, educare al giusto. E’ sempre così, se ci si fa caso. Perfino i cosiddetti poeti maledetti, gli Angiolieri, gli Aretino, in Brassens finiscono, paradossalmente, per educarci ai valori veri della vita.

Lafortuna, nato per caso a Savelli, è un caccurese con tutti i pregi e i difetti di questo generoso popolo; un uomo ricco di ingegno, con una formazione culturale profonda e robusta. Potrebbe, come hanno fatto tanti altri, a  cominciare dal Simonetta, lasciare Caccuri, trasferirsi in una grande città, far fruttare meglio i talenti che la natura benigna gli ha consegnato in abbondanza, invece preferisce rimanere nel suo paese che ama in modo morboso, scendere tutte le mattine la Salita Castello , risalire la via Chiesa, contemplare dal sagrato, la facciata e il campanile di Santa Maria delle Grazie, gettare uno sguardo dall’alto ai suoi amati Vignali e poi girare per la Porta Nuova e raggiungere la sua scuola di via Adua, chiudersi nell’aula con i suoi alunni, insegnare loro ad apprezzare le poesie del Carducci, del Pascoli, di Arnaldo Fusinato, le gesta di Garibaldi, l’astuzia, il pragmatismo ed il cinismo di Cavour, a conoscere i laghi, i fiumi, i monti, le isole e le penisole dell’Italia e del mondo. E quando, finita la dura giornata di lavoro, corretti i quaranta – cinquanta compiti degli alunni che componevano le classi del tempo, torna a casa e, dopo aver consumato un pasto frugale, si butta sulla spalla l’inseparabile fucile, riscende la Salita Castello , attraversa il Sumporto, , la Misericordia e raggiunge il Murorotto, la Portapiccola , San Rocco e, finalmente, gli uliveti e i prati degli amati Vignali  sparando, di tanto in tanto, qualche “botta” a qualche pernice, a qualche lepre o a qualche tordo che gli capita a tiro. La sera, quando, finalmente, giunge il momento della giornata nella quale è possibile godersi le gioie della famiglia, seduto al desco con donna Emilia, Nicola, figlio e suo collega che insegnava nella stessa scuola, Benito e Maria, consuma la cena, mentre ognuno racconta la propria giornata o commenta i fatti del paese. Ed ecco Benito presentargli il quadretto disegnato con i pastelli avuti in regalo dal babbo, quello col cielo verde, il giardino celeste, il viale giallo come un canarino e il sole che sembra una frittata; ecco gli amici, i vicini di casa che arrivano alla spicciolata per “spostare”, per trascorrere insieme la serata, per dar vita a quel lieto convito invernale “accanto a un bel fuoco adunati” per affogare “i candidi fiocchi nel vino frizzante prendendo “a calci e a morsi i gravi e barbuti discorsi” per parlare soltanto “di rosee speranze, di amori, di giochi e di danze, di liete avventure con dolci, leggiadre creature”.

Il mattino dopo Umberto Lafortuna torna a fare il maestro. Come tutti i suoi colleghi del tempo deve assolvere un compito duro, impegnativo, delicato, complesso. Deve strappare le nuove generazioni ad un analfabetismo spaventoso ed anacronistico, combattere la piaga dell’evasione dell’obbligo e della mortalità scolastica, inculcare nei suoi alunni un briciolo di coscienza nazionale, insegnare loro un po’ di storia patria, un po’ di geografia per capire com’è fatto il mondo, insegnare ai figli a leggere le lettere dei padri emigrati in America, istruire, educare e trasformare in “uomini”,  monelli sporchi, laceri, affamati che muoiono dalla voglia di scappare da quell’aula grigia, dagli spaventosi catafalchi di legno chiamati banchi per scorrazzare liberi nella campagna che intravedono attraverso i vetri, magari per andare a rubare ciliegie o pesche o, più semplicemente, cetrioli e calmare i morsi della fame. Ma ecco il miracolo: il maestro Lafortuna riesce ad ammansire, istruire ed educare questa povera umanità, questi poveri fanciulli con l’arma della poesia, portandoli a spasso, con i suoi versi, per quella campagna che così tanto li attrae, mostrando loro, con la magia del verso, “un grappolino di testine pigolanti che sbucano da un nido”, facendolo rimpinzare di ciliegie le cui “ciocche dai rami passano nelle bocche”, raccontandogli delle lamentele del gufo infelice perché costretto a vivere di notte e della luna che riesce a consolarlo. Tutto ciò senza mai essere melenso, senza scadere nella retorica, bandendo, quanto più possibile, ogni intento didascalico, piuttosto simpatizzando con i bimbi che commettono qualche marachella, instaurando con i pargoli una sorta di benevola, ironica complicità che, però, disvela al fanciullo la scorrettezza del suo comportamento, lo fa vergognare della sua biricchinata raggiungendo lo scopo educativo, senza provocare inutili traumi o sensi di colpa.

Umberto Lafortuna, maestro e poeta, affronta con i suoi alunni anche un altro gravissimo problema, quello dell’emigrazione e lo fa, anche in questo caso, cercando di lenire, quanto più possibile, la sofferenza, la struggente nostalgia di chi ha una persona cara dall’altra parte dell’oceano. Lo fa diffondendo messaggi di speranza come nella poesia “Ala di vento” nella quale il bimbo chiede al vento di trasportarlo in volo “oltre il gran mare” per raggiungere il babbo che “lavora nella miniera profonda e nera” o quando scrive: “Tu sei lontano, ma certo saprai, che il tuo figliuolo ti vuol bene assai. Torna, ti prego: torna, non tardare, noi siamo stanchi di aspettare! Ti raccomando di scriverci spesso e ti ricordo ciò che m’hai promesso.”

“E’ dentro di noi un fanciullino!” Chissà quante volte il maestro Lafortuna avrà ripensato a questa frase del Pascoli le cui opere, lui che si nutriva di buone letture ed era in possesso di una solida cultura, conosceva alla perfezione, ma, ne sono certo, anche se non avesse mai letto una riga del poeta romagnolo, anche se non si fosse pasciuto delle liriche dell’autore della Cavallina storna e della Quercia caduta, fanciullino, nell’intimo lo sarebbe stato ugualmente.

“Il Lafortuna  sente, con delicatezza oserei dire materna, il limite della mente puerile, sa creare agili fantasie, arguti racconti, versi snelli, vivaci che paiono fioriti dal labbro stesso dei suoi scolari. Egli è il fanciullo poeta che dovrebbe essere ogni vero maestro, privo assolutamente di retorica”, scrive di lui Giuseppe Lombardo Radice, quasi ad avvalorare questa tesi, e poi ancora: “Il Lafortuna è maestro e che maestro dev’ essere!, in un oscurissimo paese della Sila, dove egli vive una vita libera da ambizioni e ricca di interiorità.” Ecco, in queste poche parole del grande pedagogista c’è tutta l’essenza dell’opera di Umberto Lafortuna, la sua grandezza,  il riconoscimento della sua splendida carriera di maestro elementare, il suo lascito e noi, abitanti di quell’oscurissimo paese della Sila nel quale si fabbricava e si fabbrica ancora cultura e che egli illuminò con sprazzi di vivissima luce, noi maestri di quella scuola nella quale sbocciava e cresceva, giorno dopo giorno un’ opericciuola fragrante come l’aria di una pineta montana” non possiamo non commuoverci, non possiamo non sentire il cuore gonfio di orgoglio.

Grazie, maestro Lafortuna, grazie per questa donazione, per questo prezioso lascito, per questo patrimonio di inestimabile valore che hai voluto consegnarci. Mi auguro, e ne ho la certezza, che non andrà disperso. Ai Caccuresi, a tutti noi eredi di questo tesoro, alle Autorità del paese, chiedo di adoperarci per custodirlo gelosamente come un gioiello di famiglia, della nostra famiglia caccurese, di tramandarlo alle future generazioni, di continuare a leggere e a far studiare le poesie di Lafortuna, di tramandarne il nome anche attraverso l’intitolazione di una strada, di una biblioteca, magari di una fondazione che si occupi di valorizzare  le opere del maestro caccurese, ma anche di altri artisti e uomini di cultura nati, vissuti e a Caccuri ed innamorati  di questo povero, ricco paese.

 

La relazione di Franco Falbo

  Franco Falbo

La Poesia di Lafortuna: una voce della periferia,ma non periferica.

      L'iniziativa dell'Associazione culturale Zeus di richiamare alla memoria dei giovani, caccuresi e non, l'opera del maestro Lafortuna è meritoria: consente di riallacciare i fili con il passato, fili che la frenesia dei ritmi moderni troppo spesso recidono o impediscono di annodare, fili che sono,  però, necessari per non sentirsi senza radici, senza identità, senza un retroterra di tradizioni, che possono legittimare quello che noi siamo oggi.
      E' indiscutibile che una comunità, piccola o grande che sia, perché possa avere un presente e un futuro non può non avere un passato, non può non mantenere viva la memoria di ciò che l'ha caratterizzata, nel bene e nel male.
     Comunemente si dice " ricordare per non dimenticare". Questo, sappiamo, è uno dei grandi insegnamenti che la Storia dispensa ai popoli.  Il passato svolge, infatti, una funzione duplice: da un lato ammonisce a non reiterare gli orrori di cui l'umanità non può andare fiera, dall'altro stimola a continuare quel cammino, ognuno per la propria parte, di civiltà, di progresso che costituisce ,o dovrebbe, il tratto distintivo della natura umana.  
    Quello che vale per i popoli, vale anche per le piccole comunità, che si sono cementate e nelle difficoltà e nei momenti lieti, solidarizzando nelle prime ed esaltandosi nelle seconde, sviluppando, così, una propria cultura, una propria identità,contrassegnate da usi e costumi che nel corso dei secoli hanno scandito il loro cammino.
    E ciò risulta vero anche per la nostra Caccuri, di cui il Lafortuna rappresenta una nota lieta, una voce che ha saputo fissare sulla pagina "frammenti di vita", "peculiarità caratteriali",  ammonimenti sapienti", patrimonio di una comunità che la velocità assunta dai tempi moderni rende lontana,ma che cronologicamente è molto vicina,considerato che è quella degli anni venti - trenta del secolo appena andato via.
    Debbo confessare che anche per me la figura di Lafortuna "poeta" è stata una scoperta. Il suo nome non mi era sconosciuto. Lo avevo più volte ascoltato da mio padre, pronunciato col rispetto dell'antico scolaro, un rispetto rimasto immutato negli anni. Certo, in quel ricordo c'era il suo ritorno nostalgico all' infanzia, età felice e spensierata, se vista con gli occhi di chi si avvia al tramonto della vita. Ma che in quel tuffo nostalgico ci fosse anche la figura del maestro Lafortuna era la testimonianza del seme che questi aveva sparso nella comunità caccurese.

Tuttavia faremmo un torto, in primo luogo al maestro Lafortuna ,se oggi noi parlassimo di lui come una grande voce del Novecento, lasciandoci prendere la mano da quella partigianeria che spesso contraddistingue i nostri giudizi; ma altresì egli subirebbe un torto se dovessimo includerlo tra i tanti ed anonimi epigoni del Novecento.

La sua poesia non va, infatti, enfatizzata, ma neanche sottostimata: si tratta di liriche che hanno una loro dignità,una valenza poetica ; di versi che offrono molti spunti, che consentono di affermare che l'esperienza poetica del Lafortuna non è riconducibile ad un unico modello, come potrebbe far pensare la breve prefazione di Giuseppe Lombardo Radice.

Nella sua poesia egli seppe, in modo istintivo, naturale, cogliere e dar voce a diverse sfaccettature, riconducibili nell'ambito del Decadentismo, ma anche al di fuori di esso, il che la rendono perciò stesso meritevole, se non di un'attestazione di assoluta originalità, quantomeno di apprezzamento per non essere un esempio di pedissequa imitazione.

In tal senso ,pur se voce della periferia, essa non è periferica,ossia marginale, in quanto presenta connotati che impediscono di ricondurla ad un'unica esperienza, di catalogarla come poesia di imitazione, connotati che le conferiscono autonoma dignità e distintive modulazioni.

Questa considerazione mi ha indotto a dare alla presente relazione il titolo;" La poesia del Lafortuna: una voce della periferia,ma non periferica", piuttosto che quello propostomi , in un primo momento, dall'amico Nino "La poetica del fanciullino nelle liriche di Umberto Lafortuna", che avrebbe costretto di collocare le liriche del maestro caccurese nel solo ambito del solco pascoliano, privandole del giusto riconoscimento di essere il portato di una cultura vivace e molteplice; mi ha indotto a contestualizzare l'esperienza poetica del Lafortuna, a calarla nella Caccuri degli anni venti/ trenta, nella realtà di "un oscurissimo paese della Sila",come osserva giustamente Lombardo Radice nella sua breve,interessante prefazione .

Sulla base di ciò non si può non convenire che la poesia del Lafortuna è certamente,per provenienza geografica, una voce di un'area periferica, come era, e non poteva essere altrimenti, la Caccuri degli anni trenta, una realtà contrassegnata da una radicata cultura contadina, cui faceva da contrappunto la presenza di un ristretto numero di artigiani e di commercianti( i bottegai), ad essa funzionali.

Quelli della mia generazione ricorderanno bene gli eredi di quella realtà, dove i non molti falegnami,calzolai, fabbri (i forgiati), sarti, soddisfacevano con i loro manufatti le esigenze di quel mondo, dove la pratica del "baratto" era una prassi consolidata, giacché, in un'economia dove il denaro circolante costituiva un'eccezione, necessariamente l'estinzione dei debiti era legata ai cicli dell'attività agricola:alla mietitura del grano, alla vendemmia, alla raccolta delle olivelli "uccisione del maiale.

Di una realtà dove anche il farmacista continuava ad essere l'antico speziale, conoscitore di erbe medicinali, che adoperava per preparare decotti, sciroppi, infusi, tisane per alleviare i mali di stagione .... Di una realtà dove le poche botteghe di generi alimentari portavano ben in vista l'iscrizione "generi alimentari, coloniali e diversi",  per testimoniare che anche l'Italia aveva ormai il suo Impero coloniale, che non era più seconda a nessuno, sullo scenario europeo.

Di una realtà che  illustri intellettuali, a partire dagli anni subito dopo l'Unità, sollecitati dall'esperienza del brigantaggio, avevano posto all'attenzione dei vari Governi, denunciandone l'arretratezza economica Asociale, culturale evidenziando che la persistenza di quella arretratezza sarebbe stata gravida di" malanni",  perché il malcontento che essa partoriva, incanalato e strumentalizzato dalle forze del malaffare, non senza connivenze palesi e sotterranee della politica ( come non ricordare l'etichetta che Salvemini appiccicò a Giolitti, definito "ministro della malavita") avrebbe segnato il destino di quelle Regioni, come purtroppo è avvenuto.

La Caccuri degli anni trenta, peraltro, può essere assunta a paradigma della grande maggioranza delle aree del Mezzogiorno, aree neanche sfiorate da quello sviluppo industriale che, nei primi decenni del Novecento, aveva interessato l'altra Italia e che né i governi liberali né quello fascista avevano saputo o voluto affrontare,sebbene la Questione Meridionale fosse diventata una problematica concreta a seguito di inchieste, indagini da parte,perfino, di Commissioni Parlamentari, e non più una discussione teorica tra intellettuali sensibili e lungimiranti.

La iattura fu che gli investimenti presero un'altra direzione,saltarono a pie pari il Mezzogiorno: servirono per alimentare e sostenere il militarismo coloniale e così realizzare il sogno di dare al nostro Re anche la corona imperiale.

Risulta,pertanto, pertinente la definizione  di "paese oscurissimo della Sila" per la Caccuri del tempo, che Lombardo Radice inserisce nella sua prefazione al volumetto "Pupille infantili".

Quello che però appare chiaro è che di questo "paese oscurissimo della Sila" il Lafortuna avvertiva di essere ed era parte integrante.

Lo si vede in tutte le sue liriche, ad incominciare da quelle in vernacolo, in cui assistiamo a una piccola galleria di personaggi della Caccuri del tempo, che i suoi versi offrono con un' immediatezza genuina,tanto che li si  sente palpitare di vita propria, balzanti all'attenzione del lettore in modo sorprendente, senza titubanze e con assoluta spontaneità, come avviene in "Parmarinu", dove attraverso pochi tratti caratteristici il poeta ce lo pone davanti nella sua fisicità ,ma anche nelle sue inclinazioni (amicu du vinu e della caccia), un Parmarinu " marini de la "Spataresta", che" Vinnia pupicchie cu le manuzze 'nfrancu e senza aricchie ", altra figura emblematica che ci consente di riannodare il filo della memoria per riscoprire frammenti di una tradizione andata perduta.

E il Lafortuna nojj_deve ricorrere ad artifici retorici per spostarsi dal piano esteriore a quello interioré|évidenzia%i. un particolare stato d'animo,per annotare che " è cangiata a festa" ora che Parmarinii e la Spadaresta non ci sono più, spia,questa del suo essere autentico poeta.

E di questa piccola galleria non poteva non far parte forse uno dei personaggi più distintivi della Caccuri di quegli anni, un personaggio che ha alimentato la fantasia di quelli della mia generazione, che non lo hanno conosciuto direttamente., ma tramite aneddoti, mottetti,, raccontati dai genitori, ma soprattutto da parte di alcune figure di anziani che nella Caccuri degli anni cinquanta e primi anni sessanta, ne mantennero viva la memoria, spesso anche attraverso aggiunte gratuite o stravolgimenti.

Queste figure svolsero, inconsapevolmente, un' importante funzione culturale, grazie atta quale oggi alcuni, ed è il caso deiramico Nino, possono porsi,sul piano del recupero memoriale, come anello di congiunzione tra i giovani di oggi e la Caccuri di allora.

Il  Lafortuna, nella lirica dedicata ad Angelo Raffaele Secreto,detto "Viloce" ,fin dai primi versi, mostra la sua sagacia poetica, rilevando, in modo naturate, il contrasto tra il nome "Angelo" e la bruttezza delle sue fattezze, ma anche la consequenzialità tra il come era stato "allevato" e il come era rimasto" e bruttu ,stortu, vasciu Fallevaru ( i genitori) e bruttu, stortu, vasciu illu restaru", versi attraverso cui, a mio giudizio, il poeta sollecita un duplice interrogativo: Viloce rimase " stortu e vasciu" per non contraddire i genitori che così " l' allevaru", oppure perché non si può non essere per come si viene formati, educati?.

Questa seconda ipotesi ci riconduce alla dimensione pedagogica della poesia del Lafortuna, una dimensione che rappresenta una sua costante..

Interviene però,subito dopo una tipicità della poesia del Lafortuna, che non mi sembra inopportuno definire " tecnica del contrasto", che qui gli consente di far emergere dalle negatività fisiche delle positività culturali, intellettuali, che gli occhi negano, ma che l'orecchio scopre in quella "lingua pizzuta e tag|iente", ossia in quella facilità di un eloquio pungente che diventava motivo di preoccupazione durante il periodi del Carnevale, quando egli (Viloce)"usciva" con le sue farse a "sbrigognare" chi aveva la coda di paglia.

E personaggi della Caccuri del tempo sono presenti anche nelle liriche in lingua non pubblicate,liriche efficaci, poeticamente valide,come attestano le tre quartine dedicate a Marietta Morrone, in cui assistiamo al sapiente recupero di una strofa classica

Le tre quartine, a rima baciata la prima ,alternata la seconda e, mentre la terza a rima chiusa o incrociata, richiamano quelle di una lirica del volumetto "Pupille infentili", precisamente "Pittore in erba" . E ricorso sapiente alla quartina dimostra la maestria poetica del Lafortuna, a cui non faceva difetto la conoscenza della tradizione della poesia italiana

    Certo, il dialetto conferisce ai personaggi della sua Caccuri più consistenza, più immediatezza, più pregnanza, rispetto a quelli a cui egli da vita nelle liriche in lingua. Ciò si spiega col fatto che il dialetto risultava essere la sua veste congenita, perché, come è risaputo, la poesia "funziona meglio quanto più si avvicina per ritmo e dizione^alla lingua parlatacene per il Lafortuna, uomo e maestro perspicace, era il caccurese, uno strumento che ottimizzava la citata "tecnica del contrasto",  la quale ha comunque una sua efficacia anche nei componimenti in lingua, come dimostra la lirica in questione, in cui detta tecnica fa emergere una positività a tutto vantaggio della donna, addirittura nei confronti di una dea.

Già da quanto sopra emergono,così come avevo preannunciato, alcuni spunti che rendono difficile una collocazione della poesia del Lafortuna nell'ambito di un unico solco poetico.

Ma se pur periferica geograficamente, anche la Caccuri degli anni venti e trenta un qualche contatto col resto dell'Italia doveva pur averlo, altrimenti non potremmo spiegarci la poesia del Lafortuna, specie quella espressa nel felice volumetto "Pupille infantili".

Un dato risulta inconfutabile: l'esperienza poetica del Lafortuna s'inserisce, con una sua dignità e peculiarità, nel filone della poesia italiana di fine Ottocento inizio Novecento, in quel periodo storico -letterario denominato Decadentismo, che presentava al suo interno una molteplicità di sfaccettature  artistiche, aventi però una costante, la crisi esistenziale dell'uomo, crisi derivante dal tramonto e fallimento degli ideali positivistici ( come non ricordare il paradosso che la scienza avrebbe prima o poi sconfitto anche la morte) ,non sostituiti dalla "fede" in nuovi valori.

Di fronte a tale crisi l'intellettuale di fine ottocento scopre di essere una creatura infelice la cui esistenza è segnata dal dolore, scopre l'importanza del mondo interiore, di essere partecipe di un'anima più grande,quella della natura,del mondo,del cosmo ,scoperta che avviene non per via razionale, ma attraverso le strade del sentimento, delle intuizioni.

E' questa la dimensione del poeta "veggente", cioè dell'esploratore del Mistero, dell'inconscio, del poeta che non dispensa certezze, che è capace,però, attraverso improvvise folgorazioni ed intuizioni di pervenire all'assoluto, di scoprire,come osserva il Flora,"l'universale corrispondenza e analogia delle cose., perché in tutto c'è il Tutto" ; che è capace di dar voce a quelle pulsioni dell'animo, a cui la scienza non attribuiva valore,ma che un valore dovevano pur avere,dal momento che ritornavano prepotentemente alla ribalta, dopo la constatazione che la tanto decantata scienza non aveva mantenuto le promesse di dispensare felicità e benessere per tutti, evidenziando,così, che questi due livelli(felicità e benessere) non sono e non possono essere interdipendenti, e ciò prima che arrivasse Fromm a teorizzare la dicotomia tra l'essere e l'avere.

Ebbene,tra le tante sfaccettature del Decadentismo, la poesia del Lafortuna non è accostabile a quelle a lui più coeve,ossia a quella Futurista o Ermetica, il che è facilmente spiegabile: nella periferia, in un paese "oscurissimo della Sila", anche se "toccato" dagli echi delle avanguardie poetiche, essi non trovarono accoglimento, essendo per sua natura la periferia conservatrice, affezionata a ciò che da tempo si è in essa sedimentato.

Questo ci porta a spostare agli ultimi decenni dell'Ottocento i punti di riferimento della poesia del Lafortuna, in un'area in cui il nuovo si trascinava dietro ancora qualcosa del vecchio.

E' in questa area che ci dobbiamo muovere per trovare gli agganci culturali di riferimento della poesia del La fortuna.

Un primo nesso lo troviamo nella dimensione panica, ossia in quella tendenza a confondersi,mescolarsi con il tutto,con l'Assoluto, che per alcuni, ed è il caso del D'Annunzio, s'identifica con la Natura, simboleggiata nell'antichità da Fan, il dio protettore dei campi e delle greggi, predisposizione che il poeta pescarese rende in modo mirabile nella lirica la Pioggia nel Pineto, in cui il lettore, stupito ed estasiato, assiste al progressivo "farsi natura" del poeta e della sua bella Ermione.

Ebbene, la persistente presenza di elementi naturalistici in molte delle liriche del Lafortuna, come il bosco ombroso e il cardellino, di cui egli interpreta il messaggio del canto, prerogativa che presuppone la coscienza della propria dimensione universale, di essere cioè in comunione con il tutto, come avviene nella lirica "Sogno pauroso"; o le farfalle e gli uccellini, e a seguire il sole,la pioggia, la neve e il vento, da come emerge dalla Urica "Siamo bambini",;o ancora la luna pazzerello, l'usignoletto che sgrana il suo canto nel valloncello solcato dal ruscello, come proposto nella lirica "Dormi,dormi",  suggeriscono la presenza , nella poesia del Lafortuna. di una dimensione panica, che però non subisce le complicazioni dannunziane.

In D'Annunzio, il panismo, semplificando, non è altro che un aspetto di quella ideologia superomistica, certamente deformata rispetto all'originale teorizzazione nicciana, ideologia completamente assente nella poesia del Lafortuna, permeata di bonomia, di sobrie parole di conforto, di adesione cordiale, per niente inimitabile ed estetizzante, alla vita nella sua quotidianità.

Una lettura ulteriore delle liriche del Lafortuna ci porta, però, anche verso altra direzione. S'intuisce subito che l'esperienza poetica del Lafortuna non è spiegabile soltanto secondo tale ottica. Ci sono altre direttrici ,tra cui senz'altro quella indicata da Giuseppe Lombardo Radice nella sua breve prefazione, quando dice che "egli (Lafortuna) è il fanciullo- poeta che dovrebbe essere ogni vero maestro" 

Ecco dunque un'altra angolazione ,quella certamente preponderante, comprendere la poesia del Lafortuna.

Al pari della poesia del Pascoli,anche in quella del Lafortuna si respira "il mistero",per esplorare il quale insufficienti si sono rivelati sia la filosofia sia la scienza, la prima in quanto non ha saputo dare una spiegazione soddisfacente del mondo,la seconda perché non ha saputo assicurare all'uomo la felicità tanto decantata ed il dominio assoluto della Natura,aspetto quest'ultimo di cui noi quotidianamente sperimentiamo la veridicità, vagliando la nostra impotenza di fronte a fenomeni naturali devastanti che ci affliggono, che dimostrano che per quanti passi l'uomo possa compiere nel campo delle conoscenze e della tecnologia,^ divario tra sé e la Natura non sarà mai colmabile.

Ma dove hanno fallito il filosofo e lo scienziato può, secondo il Pascoli ,riuscire il poeta, il solo che,mediante improvvise intuizioni, può "illuminare" in qualche misura, il "mistero" ed attingere al segreto della vita universale e alle corrispondenze arcane tra le creature e le cose.

Questa dimensione del mistero e delle corrispondenze arcane tra le creature e le cose, la si trova anche nella poesia del Lafortuna, come attestano tanti suoi versi, sia delle liriche già citate sia di altre ,come, esempio, la lirica " Giocattolo abbandonato", in cui risulta evidente l'arcana corrispondenza tra il giocattolo e il bambino,diventato nel frattempo adultere a cui la vita è stata tolta dalla violenza delle armi

In tal senso la poesia per Lafortuna, al pari del Pascoli, diventa strumento di conoscenza, in quanto consente di cogliere una " verità" altrimenti destinata a rimanere nell'ombra ; di " rubare" sprazzi di luce a quella realtà vera che è il mistero che si annida nelle cose, nei rapporti tra esse e il mondo delle persone, una realtà che non è più quella fenomenica ,che cade sotto i nostri sensi, ma qualcosa di più profondo, che si nasconde all'occhio della ragione e della scienza,ma non a quello del poeta" veggente" , il solo che sa in qualche misura scoprirla, portarla alla luce.

Riprendendo, poi, la definizione che il Lombardo Radice da del Lafortuna "fanciullo-poeta", appare evidente il richiamo a quella "Poetica del Fanciullino" che il poeta di San Mauro di Romagna elaborò in una prosa, enunciandone gli elementi portanti.

Pascoli fa del fanciullino il simbolo dell'irrazionalità, del modo, cioè, tutto particolare,ingenuo ed incantato di vivere e di sentire che ha il vero poeta. E questo fanciullino non è una prerogativa di alcuni. E' in tutti gli uomini, per cui,in teoria,tutti possiamo essere poeti Avviene però che i più, assillati dalle loro attività pratiche, mettono a "tacere il fanciullino che è in loro"; in pochi, tra i più sensibili e sognanti, il fanciullino fa sentire continuamente la sua voce di stupore davanti alla natura e al fascino del mistero. Questi pochi sono i veri poeti.
E Lafortuna appartiene alla categoria dei pochi, non c'è dubbio. Anche per lui^come per Pascoli la poesia non è " logos", cioè razionalità, ma consiste in una perenne capacità di stupore tutta infantile che il Pascoli metaforizza nell'immagine del fanciullino; anche in lui, come in Pascoli, vi è la scoperta del valore poetico delle umili cose, di quelle appartenenti e al mondo della natura e a quello " domestico", familiare.

E che il Lafortuna sia fanciullo-poeta si scorge nello stupore che impregna i suoi versi e che gli consente di " far rivivere ciò che è stato", e ciò che egli ha modo di osservare, stupore che sappiamo essere una "virtù" appartenente al mondo dei fanciulli, che l'uomo adulto ha depauperato, assillato dalle incombenze della vita, nonché dall'inseguimento spasmodico di falsi valori, in primis quello di "far soldi", sospinto dal desiderio di apparire, tanto che oggi si può, in una certa misura, rovesciare l'antico detto che "non è l'abito a fare il monaco" .

Ma faremmo un torto al maestro Lafortuna se lo adagiassimo completamente sulla esperienza pascoliana.

Pascoli ebbe il merito,sappiamo,di aver capovolto i termini della poetica romantica là dove essa parlava del "poeta ut puer" (poeta - fanciullo) in "puer ut poeta"(del fanciullo - poeta).

Questo capovolgimento lo portò, però, a confondere quella fanciullezza ideale della poesia ,a cui alludevano i Romantici, con la reale fanciullezza, un'esperienza cioè chiusa in un mondo limitato, facendo così fare, come osserva il Puppo, "al poeta un vero e proprio regresso psicologico", che non poteva non essere,nel suo caso, che foriero di un'angoscia esistenziale, senza consolazione, essendo stata la sua adolescenza devastata dall'intervento "dell'uomo e della storia", intervento che aveva disarticolato quel legame naturale che era la famiglia.

Ciò spiega il perenne ricorrere nella poesia pascoliana, come osserva Bàrberi - Squarotti, dell'immagine dell'infanzia come nido non ancora disfatto, della casa, come nido " caldo,chiuso,raccolto....,senza rapporti con l'esterno, ma brulicante di complici intimità, di istinti e di affetti viscerali". La casa -nido serviva al Pascoli per sottrarsi alla Storia,ossia alla vita, "dispensatrice di dolore"

Nella poesia del Lafortuna , al contrario, non scorgiamo il dramma,!'angoscia esistenziale, una conflittualità con il mondo circostante, con la vita, che al Pascoli infondeva timore}paura, perché contrassegnata dal dolore e dalla morte la cui, come unica consolazione, si poteva opporre il "sentirsi fratelli nel comune dolore", o il rifugiarsi nella casa-nido.

Lafortuna non si rinchiude "in una sua "casa - nido". Troviamoci contrario, nelle sue liriche cordiale adesione alla vita, gustoso divertimento, una materna,più che paterna, complicità , un sentirsi parte di quel mondo a cui egli offre, nei suoi versi, l'opportunità di "avere una voce", altrimenti impossibile, per presentarsi nella sua genuinità , semplicità, nel suo "lieto" trascorrere.

La poesia del Lafortuna si discosta da quella pasco! i an a, anche per altre ragioni.

Il verso del La fortuna non è " franto dalle cesure", non è dilatato dagli "enjembements" ,attraverso cui il Pascoli supera il limite del verso e della strofa, non si affida alla vasta gamma di risonanze ed echi che offre la parola utilizzata per il suo valore fonosimbolico, come fa il Pascoli, ma è "snello e vivace",come osserva il Lombardo Radice, senza complicazioni retoriche.

Inoltre, mentre la poesia del Pascoli, così come osserva il Modigliani ," non ha un filo narrativo né logico, è una poesia senza dimensioni e senza linee,  tutta atmosfera e stati d'animo ",quella del Lafortuna   procede secondo uno schema di tesi-antitesi, attraverso cui il poeta caccurese conferisce ai suoi versi quella dimensione didascalica peraltro evidenziata da Lombardo Radice, li carica di una valenza morale, sociale che risulta evidente.

Quanto sopra ci consentiva di guardare, per la lirica del Lafortuna, anche al di fuori dell'esperienza pascoliana , di scorgere in essa anche echi antecedenti , presenti in quella tradizione della poesia italiana, come quella Romantica fino al Carducci, che aveva svolto una funzione sociale, nel senso che essa veniva vissuta come mezzo si di conforto,ma anche di elevazione spirituale e di celebrazione dei grandi ideali umani Era questa la dimensione del Poeta vate ,in cui il Pascoli ,per sua indole, non poteva riconoscersi.

Orbene, che ci sia una dimensione sociale nelle liriche del Lafortuna è fuori da ogni dubbio. Certo, essa non ha la consistenza di quella dei grandi Romantici, non proclama grandi ideali umani, non celebra grandi valori e grandi sentimenti. Essa svolge , sommessamente, la sua funzione  nell'ambito di una realtà ristretta ,di quella realtà umana che il maestro Lafortuna ha di fronte e che i suoi versi possono raggiungere, una realtà riconducibile a quel mondo scolastico per il quale egli dovette nutrire un profondo rispetto, per il quale mondo i suoi versi vogliono essere un veicolo di elevazione culturale, spirituale, vogliono essere,come osserva l'amico Nino "Piccole perle".

In considerazione di quanto detto, mi sembra che la nota caratteristica della poesia del Lafortuna sia un certo eclettismo,per il fatto che egli manifesta la capacità di assimilare spunti, immagini, della tradizione poetica italiana di fine Ottocento, il che lo rende non rinchiudibile in uno stereotipo, cosa non da poco lo rende unavoce  che, pur guardando a dei modelli , rivendica per sé una sua autonomia, una sua originalità, nota che ci consente di parlare di lui , oltre che come maestro ed educatore,anche come poeta. 

Un 'ultima considerazione, prima di concludere.

Come conciliare il messaggio che emerge dalle sue liriche con la sua convinta adesione al fascismo? Come non trovare stridente lo stupore infantile,  la bonomia, il candore, l'arguzia, l'adesione cordiale alla vita che emerge dai suoi versi, con i proclami di guerra, le leggi razziali, le politiche coloniali del fascismo?

Quello che mi sento di dire è che egli non avvertì la contraddizione,per il fatto che per lui non c'era.

Al pari del Pascoli, umanitarista e socialista, che inneggiò all'impresa di Libia nella sua famosa prosa "la grande proletaria si è mossa", credendo, ingenuamente, ciò che la propaganda affermava,ossia che essa rappresentasse un'opportunità per sollevare le sortì della moltitudine dei contadini italiani, anche il Lafortuna credette, ingenuamente, alla retorica fascista che presentava il regime come lo strumento per conferire all'Italia quella grandezza che le competeva per i suoi trascorsi storici, per conferire al popolo italiano,quindi anche a quello della sua Caccuri,, quella dignità morale, culturale, economica che le spettava, per dare ai personaggi e al mondo delle sue liriche un futuro non contrassegnato da privazioni.

                                                    Francesco Falbo

La relazione di Bruno Tassone


       Bruno Tassone

Relazione sul Poeta Umberto Lafortuna (Savelli 27.3.1884 - Caccurì 25.12.1944)

"La società contadina nei versi di Umberto Lafortuna"

Caccurì 18 dicembre 2005

II mio caro amico Giuseppe Marino, vostro concittadino, parlando di Umberto Lafortuna lo ha definito: "Poeta fanciullo, poeta dei fanciulli", riprendendo le asserzioni fatte da Giuseppe Lombardo Radice nella prefazione dell'unica opera stampata dal nostro poeta, "Pupille infantili".

Rileggendo i versi di questa raccolta non ho potuto fare a meno di condividere quanto da loro affermato ed aggiungere che, con semplicità, senza filosofeggiare, con delicatezza, da vero maestro educatore, riesce a trasmettere ai giovani allievi, stimolando la loro fantasia, i principi morali e i valori che hanno supportato per millenni la civiltà umana e trasformato in tradizione, da non sottovalutare e abbandonare, la società contadina.
Il linguaggio di Lafortuna è semplice, privo di retorica, ma carico di pedagogia e all'altezza dell'educatore e formatore. Anche nei casi in cui sembra che si lasci trascinare dal ruolo, che lo porta ad essere rigoroso ed inflessibile, come richiedevano i tempi, non dimentichiamo che il nostro ha vissuto la fase della costruzione dello stato italiano e il ventennio fascista, nei versi lascia trasparire la sua indole di uomo buono e comprensivo e che riesce sempre a capire gli stati d'animo, gli affanni, le sofferenze e quanto ne deriva dagli stenti e dalla fame, giustificando tutto e trovando 
sempre un buon motivo per sostenere che la vita è bella così com'è, e che il bello si può trovare in ogni cosa. Nei versi in cui fa conversare il gufo e la luna, il primo si lamenta d'essere costretto a vivere nelle tenebre della notte e di non poter assaporare le bellezze evidenziate dal sole, la luna risponde:

"io e le stelle

non siamo pur e belle? "

Lafortuna offre nei suoi versi: la natura vergine e antica della sua Calabria, i suoi rapporti umani, le usanze, i magici rituali, insomma il prezzo che bisogna pagare per non pensare   alle   sofferente   e  uscire   almeno  virtualmente dall'oppressione della miseria.

Quindi la voglia di scrollarsi dalle pene e dalle sofferenze quotidiane:

Un lieto convito invernale

Il cielo  ha un sapore di neve stasera, stasera si beve!
 Accanto a un bel fuoco adunati i candidi fiocchi affocati 
saranno dal vino frizzante che scorre spumante dai colmi boccali. 
Stasera ostracismo ai giornali, ai libri di scienza, ai romanzi! 
Terremo dinnanzi soltanto il licore di Bacco,
le carte da gioco e il tabacco.

I gravi, barbuti discorsi

si piglino a calci e a morsi. 
Si parii di rosee speranze, 
d'amore di giochi e di danze,
 di liete avventure 
con dolci, leggiadre creature.

II vino ci doni l'ebbrezza
eh 'è sogno, soave carezza;
ci scacci dal cuore

la noia gli affanni, il dolore.
Egli ha caratterizzato con capacità pedagogica e grande umanità derivante dal suo essere meridionale, il gusto dell'osservazione e della contemplazione, vocazione innata del meridionale che ha bisogno di dire tutto, di raccontare se stesso e gli altri e quanto cade sotto il suo sguardo:

Palummella
Vuli leggia, palummella, 
ma m'addugnu, o civettella,
 ca vulannu, culli juri fa I'amuri : 
teni a vesta eh'è (na festa de culuri 
li cchiù belli e l'aggelli, i quatrarelli, 
chi te viranu passare te vulisseru 
acchiappare. 
Ma si ancunu ppe ' la vesta
po '  t'acchiappa, chi le resta?
Oppure

Pure nui canciàmu

Quann 'era quatrarellu 
puru 'nu timpagnellu,
 'nu chiovu, (nufrischettu, 
'na palla, 'nu cumpettu, 
'nu nenie m'abbastava 
Mo chi ranne sugnu 
cchiù n 'haju e cchiù ne frugnu 
e fazzu lu stuffatu
 pecchì sugnu malatu 
pur 'io d'a malatia 
chjamata "civiltà ".

Alcune poesie sono dei brevi e delicati racconti, come tanti piccoli fotogrammi, tante piccole pennellate multicolori che insieme contribuiscono a raccontare un'epoca dal punto di vista di persone umili, anonimi protagonisti che, con le loro esperienze e la loro vita, hanno costruito delle microstorie comuni a tanti piccoli centri del sud:

Palmerinu, (Ciccillu, Viloce, Cacciature spraticu, e tante altre

Anche prescindendo dall'individuazione rigorosa degli ecotipi eventualmente presenti nei rapporti popolari è possibile raccogliere nei versi di Umberto Lafortuna l'universo dei temi culturali e dei valori testimoniali del patrimonio e della civiltà, o meglio, società contadina. Una società che si trova a grande distanza dai ritmi di quella urbana, la quale, spesso, assume i tratti di una "società inglobante" che si contrappone e soverchia quella rurale legata ai ritmi della natura al tempo metereologico, al ciclo delle stagioni, alla imprevedibilità delle intemperie e delle calamità naturali.

La società contadina legata a quel ritmo che potrebbe essere definito "dimensione temporale della natura", poiché la natura non ha storia agli occhi del contadino. I suoi componimenti delineano un universo che è bene conoscere per dilatare la nostra consapevolezza storiografica e letteraria per comprendere il passato che comunque sorregge il nostro presente. Chi ha conosciuto il mondo contadino ne ritrova i tratti che fanno riaffiorare il sapore e l'odore del pane appena sfornato, i lunghi freddi e piovosi inverni in cui si stava di più attorno al focolare, interrogandosi sulle condizioni del tempo, enumerando i lavori nei campi rimasti in arretrato.

Vernu

Ardu Ile Ugna 'ntra lu focularu 
e nue assettati a rolla ne scurdamu 
da l'annata e de lu vernu amaru:
 ridimu, chiacchiariamu, mie manciamu 
mo 'na patata, mo 'na castagnella 
e jocamu a 'nnuvina nnuvinella.
 Ma u tempu passa, 'nzignamu a cimare
E fora j azza e mina tramuntana.
 Lassamu u focu e ne jamu a curcare.

Ecco con che bravura ci trascina ad immaginare quando a sera alla sola luce delle vampe un po' schioppettanti e allegre o declinate e cupe, ai più anziani veniva chiesto di raccontare qualcosa, frammenti di vita paesana, situazioni e personaggi di un ordinario vivere, ma nello stesso tempo fa emergere le sofferenze patite dalla gente, la fame, la miseria, il durissimo lavoro, le calamità naturali che rendono catastrofico il già triste stato dei molti, al limite della sopravvivenza.

Due versi di Nonno inverno

"Nonno inverno sii clemente per chi soffre e non ha niente "

La sofferenza delle famiglie divise a causa dell'emigrazione.

Alcuni versi Ala di vento

Forse in quest'ora
Babbo lavora
Nella miniera
Profonda e nera.
Ala di vento, fammi contento:
fammi volare
oltre il gran mare!
 Vo ' andare anch 'io
 dal babbo mio.

Accanto a pagine che fanno riflettere sull'asprezza di quel tempo, ce ne sono molte altre di sapore leggero e delicato,

come quelle che colgono le emozioni infantili, la gioia delle piccole cose.
Nei  suoi versi  si muovono personaggi  simpaticamente
stravaganti; a volte maschere che potrebbero appartenere a

qualunque paese del sud o del nord, perché i tipi umani non hanno luoghi, si ritrovano dappertutto. Spesso, come avete potuto notare, utilizza la lingua del popolo, rifiutando la lingua ufficiale, ma solo perché con la lingua parlata, un gesto, la mimica, una smorfia della boccasi riesce a fare un discorso.

Chiunque si avvicina alla poesia di Lafortuna si rende subito conto di quanto era attaccato al quel mondo semplice e come la sua intuizione e il suo fare ne siano espressione diretta, colmi di una ricchezza impareggiabile. Il rispetto per la terra, per la natura, per l'amicizia; il suo alto senso dei valori, famiglia, stato, diritti e doveri. Da ciò possiamo affermare, senza rischio di smentita, che la lettura delle opere di Lafortuna è un vero e proprio viaggio nel passato, che si rinnova giornalmente nelle nostre azioni. Tolta la polvere del tempo si nota e si apprezza la capacità di Lafortuna del raccontare la società vissuta, ricca di emozioni e di sentimenti genuini, anche di una dolce malinconia che l'accompagna e la anima e che gli consente di parlare della realtà vissuta con una semplicità tale da comunicare anche con i bambini, costellazioni del suo  lavoro di maestro, e per i quali ha scritto molti suoi componimenti,   per   parlare   a   persone   e   di   persone sintonizzate    sulle    stesse    frequenze    sentimentali    ed emozionali. Riesce a portare alla ribalta gli elementi e i protagonisti della sua Calabria. Oggi   riproporlo   è   un   modo   per   recuperare   il   forte sentimento dell'appartenenza e dell'identità comune, che è come un messaggio proposto alle nuove generazioni che nonostante tutto e malgrado loro, hanno le radici proprio in quel passato in quella memoria collettiva.
Mi piace concludere questa via conversazione citandovi un pensiero espresso da l'etnologo Ernesto De Martino, nell'opera "L'etnologo e il poeta", che vi propongo testualmente: "Coloro che non hanno radici e pensano di essere cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell'umano.
Per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria a cui l'immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l'opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale".