Cronache di poveri briganti
Il brigantaggio nel XIX secolo a Caccuri e dintorni

di Giusepe Marino

                                                             
      

 

Premessa

 

      “Te tagliu ‘a capu cumu Zirricu!”. La terribile minaccia, il più delle volte scherzosa, qualche volta anche seria e irosa, mi risuonava nelle orecchie fin da bambino. Zirricu: chi era costui? Mistero, mistero fitto, nessuno sapeva rispondere alla domanda; ci si limitava a dire che era stato un terribile brigante e che, dopo averne combinate di tutti i colori, era stato ucciso a Eydo da un   suo compare che lo aveva tradito e che, dopo avergli tagliato la testa, aveva portato il “macabro trofeo” in trionfo per le strade del paese. Questo era tutto quello che era dato sapere su un fuorilegge che, secondo la tradizione, avrebbe terrorizzato Caccuri per molti anni.
     L’alone di mistero che circondava l’identità e le imprese di questo misterioso personaggio e il desiderio di identificarlo mi hanno spinto ad avviare una ricerca sul brigantaggio e a scrivere questo libro.   
         Partito con queste intenzioni, mi sono imbattuto, fra l’altro, in una storia poco conosciuta, forse frettolosamente rimossa, una “storia proibita”, come ha scritto qualcuno. E’ la storia della tenace resistenza dei combattenti delle Due Sicilie contro l’annessione del regno borbonico all’Italia, la storia di centinaia di migliaia di uomini, briganti (ma anche gente perbene)  che lottarono, per molti anni,  contro quello che consideravano un esercito di occupazione e che mostrò il volto feroce della repressione, spesso perpetrando crimini non certo meno odiosi di quelli dei briganti.  Ma mi  sono imbattuto anche in decine di altri poveracci, di miserabili, alcuni dei quali caccuresi, posti volutamente ai margini della società dalle classi dominanti del tempo, sfruttati, privati di ogni diritto, laceri e affamati che, come è stato autorevolmente scritto dagli storici del tempo, vedevano nella vita del brigante e nella pratica della grassazione una grande attrattiva. Briganti per necessità, dunque, poveri cristi che si ingegnavano a sbarcare il lunario arrivando persino a spogliare i loro simili, lasciandosi avvolgere sempre più dalla spirale del crimine fino a morire ammazzati o a marcire in un penitenziario.
      Non v’è nulla di eroico nelle gesta di questi miserabili braccati dalla gendarmeria reale, dalla guardia urbana, dall’esercito, dai manutengoli dei vari possidenti, che venivano catturati e uccisi, nella maggior parte dei casi, con una facilità disarmante; tuttavia, spesso, riuscivano a suscitare, se non ammirazione, almeno un briciolo di comprensione e di umana pietà.
       La ricostruzione di quasi settant’anni di vicende storiche locali che tenterò di operare attraverso la pubblicazione di questo libro, di una storia minore e locale di cui forse gli addetti ai lavori si sono, spesso colpevolmente, disinteressati, risulterà certamente lacunosa e carente sotto molti aspetti, ma ciò dipende essenzialmente dalla difficoltà di consultare fonti e di reperire materiale documentale. È davvero triste constatare come la narrazione e la documentazione di quasi un secolo di vicende storiche caccuresi – a parte ciò che è stato scritto e che si può recuperare nei pochi documenti ufficiali conservati negli archivi di stato – siano state demandate, dagli “intellettuali” caccuresi del tempo, al farsaro Angelo Raffaele Secreto (Velociu) che, essendo, purtroppo, analfabeta, non poté tramandare compiutamente ai posteri la sua preziosa opera. Nessuno che si sia mai preso la briga di scrivere un diario, un promemoria, un appunto qualsiasi che consentisse di squarciare un velo, di accendere una fiammella nel buio della conoscenza.
       Nel libro sono narrate le vicende di numerosi briganti caccuresi e non, le imprese criminali compiute sul territorio caccurese e nei dintorni del paese, le azioni brillanti e meno brillanti delle forze dell’ordine. Insomma, una serie di fatti che, mi auguro, possano interessare il lettore e soddisfarne 1'interesse e si apprenderà anche che la maggioranza dei Caccuresi ebbe comportamenti coerenti con la legge, nonostante le ristrettezze dei tempi e i gravi disagi.
      Prima di chiudere queste note sento il bisogno di ringraziare il Presidente della Comunità Montana Alto Crotonese Carlo Rizzo e gli amministratori dell'ente, il sindaco Sandro Falbo e gli amministratori di Caccuri, il sindaco Pietro Durante e gli amministratori di Castelsilano, che hanno offerto il patrocinio dell'iniziativa, i responsabili dell'ufficio anagrafe di Caccuri, Vincenzo Parrotta e Domenico Secreto per la disponibilità mostrata nei miei confronti, la dottoressa Pagano del1'Archivio di Stato di Catanzaro, 1'amica Daniela Secchiari che ha illustrato 1'opera, gli amici Peppino Sganga e Erica Rento e 1'Associazione culturale Zeus per la loro preziosa collaborazione.
                                                          
  L'autore

Capitolo 1

Il brigantaggio locale nei secoli – Il brigantaggio antifrancese 1806–1812

       Calabria, terra di briganti; calabrese sinonimo di brigante. È questo uno dei tanti, forse il più conosciuto luogo comune che vuole gli abitanti di questa sfortunata e bellissima terra sempre armati di trombone, appostati sulle strade polverose di campagna o nei boschi per sorprendere i viandanti, derubarli e, a volte, perfino sgozzarli. Un luogo comune che si perde nel tempo e contro il quale i Calabresi dovettero lottare da sempre.
      Già nel XV secolo papa Paolo II non nascondeva la sua antipatia e il suo disprezzo per la Calabria e i Calabresi, considerati individui poco raccomandabili e pericolosi, provocando l’orgoglioso risentimento di Cicco Simonetta, caccurese, segretario e cancelliere del duca di Milano Francesco Sforza,  che in una celebre lettera ebbe a rispondergli: “Che la prefata Santità dica che tutti li calabresi siano cativi, perché questo toca as mi, respondo così che la Calabria è la più fertile et la migliore provincia che sia nel reame, benché sia nell’ultima et estrema parte de Italia. Nondimeno in Calabria gli ne sono et de boni et de cativi, como è anchora ad Vinexia, ad Roma, ad Napoli et ad Milano e neli altri luochi, pure io me reputo nel numero de li boni et credo haverne facto le opere et professione.”[1]
      Qualche secolo dopo fu la volta del Lombroso a tentare di dimostrare la validità delle sue teorie parlando di una innata tendenza a delinquere dei Calabresi che si leggeva loro in volto. Pare che il celebre criminologo si sia spinto persino a misurare i crani dei briganti uccisi per dimostrare un nesso tra la dimensione della scatola cranica e la tendenza a delinquere. Anche  i Francesi, furiosamente osteggiati dai partigiani filo borbonici nel loro tentativo di impadronirsi della Calabria e del Regno di Napoli, contribuirono ad alimentare il luogo comune del calabrese, feroce brigante.
     La verità è che, nel corso dei secoli, i poveri, i contadini, gli antichi servi della gleba, furono costretti, spinti dalla miseria, dalle angherie, dalle prepotenze, dall’avidità dei feudatari e dal malgoverno dei sovrani del tempo, a cercare nel saccheggio, nella grassazione, nella rivolta e nel ribellismo, la loro sopravvivenza.
      Nel XVI secolo, nella presila crotonese, la situazione era particolarmente grave.  A Caccuri e Cerenzia le popolazioni venivano sottoposte alle angherie e ai balzelli intollerabili imposti .........................................

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[1] E. Motta, Documenti milanesi intorno a Paolo II° e al cardinale Riario. Archivio della

     Società di Storia Partiam XI (1888)  pag. 253-65