Ce l'hanno fatta anche stavolta.
Mentre chiedono sacrifici agli italiani, gli onorevoli
mantengono il loro stipendio intatto, e i costi della
politica non cambiano. Perchè è stato dichiarato "inammissibile"
l'emendamento al decreto sviluppo che
proponeva di
ridurre
gli stipendi
dei parlamentari,
investendo questo
notevole taglio nelle opere di sviluppo e crescita.
Invece l'istanza, portata avanti dalla senatrice Pd
Leana Pignedoli, è stata cassata dalla
Commissione industria del
Senato, che sta vagliando l’ammissibilità o
meno dei circa 1.800 emendamenti presentati.
I parlamentari votano no, negando al Paese la
possibilità di investire una quota sulla crescita e
l'occupazione giovanile. Era quanto deciso
dall'emendamento bocciato: "Al fine di
reperire,
attraverso la riduzione del costo della rappresentanza
politica nazionale, maggiori risorse da destinare al
sostegno delle politiche per la crescita e l'occupazione
giovanile, il trattamento economico
omnicomprensivo annualmente corrisposto ai membri della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica non
può superare la media ponderata rispetto al Pil degli
analoghi trattamenti economici percepiti annualmente dai
membri dei Parlamenti nazionali dei sei principali Stati
dell'Area Euro".
Non è la prima volta che il Parlamento riesce a
dribblare simili proposte di legge che tentano di
mettere mano nelle loro onorevoli tasche: già lo scorso
anno, a luglio, quando ancora era in piedi il
governo Berlusconi, la Commissione Bilancio del
Senato aveva bocciato - durante una votazione notturna e
segreta - i provvedimenti da adottare per ridurre i
costi della politica, annunciati dall'allora ministro
dell'economia Giulio Tremonti. Un
notevole dimezzamento dei costi, se mai ci fosse stato:
da quasi 12 mila euro a "soli"
6 mila euro, adeguandosi al livello medio degli
altri paesi europei. Nulla di fatto.
La situazione non è cambiata sotto Monti:
sfumata l'idea della riforma costituzionale
per ridurre il numero dei deputati e senatori,
così come i numerosi dietrofront del governo sul tema
del taglio dei costi della politica, affidando la
decisione direttamente all'esecutivo, cioè al
Parlamento, cioè ai diretti interessati.
Contraddittorio, oltre che beffardo.
Così come il bluff del taglio dello stipendio,
annunciato a inizio anno. La decurtazione dell'indennità
parlmentare di 1.300 euro lordi al mese
- 700 euro netti - di cui si vantarono parlamentari di
destra e sinistra era in realtà il taglio di un aumento
automatico dovuto al cambio di regime pensionistico. Una
rinuncia ad un aumento, in buona sostanza, lasciando la
situazione esattamente come prima.
Ed è praticamente passata sottovoce la raccolta firme portata avanti quest'estate dal partito di Unione popolare per chiedere un referendum sul taglio degli stipendi d'oro dei parlamentari. Un milione e trecentomila firme prese per dire no alla legge 261 del 1965, che determina l’indennità parlamentare: 3.500 euro mensili che ogni membro di Camera e Senato riceve per le spese di soggiorno a Roma. Una proposta che ha un iter lungo: a gennaio, infatti, le firme raccolte saranno consegnate in Cassazione che dovrà valutare la leggittimità delle sottoscrizioni. Esito che si saprà soltanto in autunno, dopodichè sarà la volta della Corte Costituzionale che valuterà i quesiti non prima di gennaio 2014. Se tutto va bene, si voterà nella primavera successiva.