Da
Con Hitler nell'averno
(147 versi di 3.048)
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Dante -
Pandora - Hitler -
Giugurta - Irene
[Inizio Canto I]
Nel mezzo
d’una notte o forse l’alba
- non vi so dir, può darsi
fosse sera,
purtroppo
ho la memoria molto scialba -,
dentro
una stanza che non so com’era
- essendo buio fitto e
misterioso,
ovviamente
sembrava tutta nera -,
io
mi sentii di luce bisognoso
e
il desiderio espressi mentalmente.
[In seguito apparve
Dante e]
disse: «Che
vuoi, ragazzo, che mi chiami?»
«Io cerco l’avventura e
uscirne indenne».
«Dovrai per questo vincere gli
esami,
e
tutto non puoi mettere in memoria.
Ma
dimmi, maggiormente cosa brami?».
«Io mi rivolgo a te che sei in
gloria,
perché
alimenti in me la conoscenza
degli
uomini più grandi della storia,
di
tutta la cultura e della scienza».
Il Vate sentenziò: «Posso ben
poco,
nessun
possiede tutta la sapienza.
Ma
vai, non rimanere in questo loco,
percorri
con coraggio mari e monti,
affronta
le intemperie, acqua e foco.
Poi, quando tornerai, faremo i
conti».
[Si va e si fanno
vari incontri].
C’è in
vicinanza un giovane esaltato
che
predica la pace e l’uguaglianza,
ma
lui pretende d’essere elevato
a
grande capo, senza maggioranza,
per
mettere i padroni a fare i servi
e
i negri schiavi nella fratellanza.
[Poi, in un giardino]
al
centro c’è la statua di Pandora
con
un bel vaso chiuso e fa richiamo.
Io mi avvicino e lei mi
chiede: «Allora…?».
«Oddìo,
la statua parla?!» io esclamo.
Magari questa è donna
mascherata
e
prendermi vorrà da pesce all’amo.
Le dico
allor con voce desolata:
«Mi scusi, sa,
passavo qui per caso…
Un bel giardino… Bella la
giornata.
Le posso domandar che c’è nel
vaso?».
«Ci sono
tante cose, guarda quali».
«Posso guardar? Si può ficcare
il naso?».
«Certo. Questi peccati
son veniali».
Apro timidamente ma… sorpresa!
Fuoriescono
di scatto tutti i mali.
Indietreggio, mettendomi in
difesa.
Lei dice: «Non temere,
vieni, avanza,
ancora
puoi riuscire nell’impresa,
in
fondo resta ancora la Speranza».
[Nel canto II c’è
l’incontro con Hitler]
vedo
con gran sorpresa un grosso drago.
Niente päura,
è addomesticato,
un
uomo lo cavalca, forse è un mago.
Il tizio,
molto poco illuminato,
mi
dice:«Vieni qui, ti sto aspettando».
Che
non ci sia un trucco preparato?
Forse lui mi conosce, mi
domando:
che
lì foss’ito come l’ha saputo?
Man mano che mi
vado avvicinando,
il
suo mi pare un viso conosciuto.
Ma
sì che lo conosco, è assai famoso!
Il suo
visone tutti l’han
veduto.
I suoi
baffetti, il ciuffo dispettoso,
lo
sguardo che a vederlo fa spavento…
E’ lui,
Hitler, il Führer tenebroso!
[Si va insieme a
cavallo del drago attraverso l’inferno.
Nel canto XXXII s’incontrano altri draghi in una
immensa grotta dove]
Sfrecciano, come tanti
meteoriti,
säette,
razzi e pietre incandescenti,
colpendo
con violenza i monoliti,
che
qui sono in gran numero presenti.
Questi si
scheggian, mandano scintille,
e
i colpi si ripeton persistenti.
Si frantumano e ancor restano
arzille
le
parti del proiettile che cozza,
cadono
al suolo e lanciano faville.
C’è chi grida,
ch’implora, chi singhiozza.
E
in tutto questo strepido vediamo
che
tranquilla una mantide s’ingozza.
Mantide religiosa la
chiamiamo,
ma
divora colui che la feconda
e
ha fatto appena in tempo a dirle “t’amo”.
Per non rischiare molto
andiamo sponda.
Lasciamo indietro un drago e
non commenta,
ma
poi, con una mossa furibonda,
al
famigliar la lunga coda addenta.
Questi vuol liberarsi, sfugge,
scrolla
e
contro l’aggressore poi s’avventa.
Morde la coda fino
alle midolla.
Così addentati
giran sempre attorno
e
nessuno dei due la presa molla.
Dall’alto
cadon massi tutt’intorno,
i
draghi si distaccan per päura.
Quello si ferma, avendo qui
il soggiorno;
mentre
noi proseguiam lungo le mura.
Continuano a cader massi
infuocati
che
la strada ci rendono insicura.
Siamo continuamente
minacciati,
qua
dentro dal pericol non si fugge.
E
come in altri luoghi attraversati,
mentre
di più qui l’animo si adugge,
noto
che in quest’inferno veramente
nulla
si crea e nulla si distrugge,
ma
ritorna allo stato precedente,
così
la roccia appena frantumata,
come
così lo stesso il suolo ardente.
Ed
ecco urlare un’anima dannata:
«Iddio Padre,
chiedo a Te perdono,
io
padre indegno nella vita andata,
perché
tradii quei figli ch’ebbi in dono
dalla
Tua grazia, Dio Onnipotente.
Ti prego, mio Signor,
parzial condono!
Fui
gabbato,
sconvolta la mia mente,
da
persona malvagia ma venusta,
che
approfittò di me perfidamente».
L’apostrofa una voce assai
robusta:
«E’ inutile che adesso tu ti
penti,
il
male è fatto ormai e non si aggiusta.
Siam tutti traditori di
parenti,
perciò
paghiamo qui la giusta pena
per
i nostri perversi tradimenti».
«Chi è costui che parla a voce
piena?
Chi sei?
Mi puoi rispondere?» domando.
«Sono
Giugurta» quel risponde in vena
«e
per il tradimento mio nefando
qui
sono trasformato in monolito,
come
i simili miei che stanno espiando,
perché
ciascun di noi venga colpito
senza
potersi muovere, in misura
del
grado parental con chi ha tradito.
Ed
io tradii con gran disinvoltura
i
miei cugini e il loro genitore.
Pertanto la mia pena è meno
dura
rispetto
a quella inflitta al traditore
di
fratelli e sorelle; così, dunque,
per
genitori o figli è ancor peggiore.
In tutti i ceti
trovasi, quantunque
abbondi
maggiormente fra i regnanti,
tal
peccato da non commetter unque.
Qui, non li puoi veder perché
distanti,
ci
sono là i fratelli di Giuseppe,
che
per invidia, avidi e ignoranti,
tradirono
colui che odiar non seppe
e
il padre lor maestro di valori.
Per difendersi mettono le
zeppe,
ma
scuse non ci son pei traditori,
specialmente se
figli, e sono tanti.
Qui vi presento, prima d’uscir
fuori,
una
madre fra tante altre urlanti,
fu
imperatrice, il nome aveva Irene,
ora
è una cosa come gli altri astanti.
In una corte simbolo di mene,
fece
accecare il figlio e poi morire,
ritenendo
il potere primo bene».
«E’ falso! Questo no, non lo
puoi dire!»
urla
una pietra, donna in apparenza.
«Perché dolore
aggiungi al mio soffrire?»
«Povera donna, neghi
l’evidenza:
tu
non saresti qui senza il peccato».
«Ïo
dovetti agir per esigenza,
dopo
che lui aveva divorziato.
E’ vero che con sé mi volle al
trono,
ma
prima aveva contro cospirato».
Riesco a sentire ciò pur nel
frastuono.
Pietre roventi
cadon quasi addosso
a
noi e quindi a uscire il drago sprono.
Ma
qui c’è l’altro drago e si fa rosso,
ruggisce,
sputa fuoco e ci minaccia,
per
spaventarci meglio si fa grosso.
Il nostro drago fuoco gli
ricaccia,
si
gonfia pure lui, s’arrossa, rugge
e
gli dà una zampata sulla faccia.
L’avversario indietreggia ma
non fugge,
guaisce
e dopo tenta d’aggirarci.
Al tentativo il nostro bene
sfugge,
senza
temer che può disarcionarci,
intrepido
aggredisce l’aggressore,
lo
morde al collo e infligge grandi squarci.
L’altro si sgancia e, urlando
di dolore,
rabbiosamente
sventola alla cieca
il
testone con forza e con furore.
Così facendo, molti colpi
spreca,
perciò
quelli che arrivano riduce
ed
ogni tanto qualche graffio arreca.
Rischiam
d’esser colpiti io e il duce.
Egli mi dice: «Non ti
spaventare».
Intanto trema e fa lo sguardo
truce.
Per fortuna riusciamo ad
evitare
i
colpi, ma non siam presi di mira;
ci
basta a cavalcioni saldi stare.
Alla fine il nemico si ritira
con
lo sguardo dimesso e un po’ fraterno:
vuol
dimostrare al nostro che l’ammira.
E vincitori
usciam da questo
averno.
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Immagine d'appendice
Casinò di Sanremo
-
1996, olio su tela 50x70
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