I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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partita - libri].
I bambini, fino agli anni Cinquanta, quando nascevano venivano fasciati come
mummie, sistema non certo favorevole alla circolazione del sangue e allo
sviluppo della muscolatura. Bisognava stare attenti a prenderli con delicatezza,
per non causare slogature; mentre oggi si fanno fare loro movimenti di
ginnastica appena dopo qualche giorno dalla nascita. Ed hanno tutte le comodità,
anche più del necessario; una volta non avevano neanche il ciuccetto e,
desiderando mettere qualcosa in bocca, si succhiavano un ditino. L’allattamento
durava fino a due anni, più poveri si era e più durava, perché, non avendo cibo,
la madre continuava a nutrirli col suo latte, ovviamente scarso, dato che
nemmeno per lei c’era tanto da mangiare, ed era normale vedere bambini attaccati
ad un seno asciutto. Le testoline stavano reclinate perché il collo non riusciva
a sostenerle. Ma non sempre piangevano per la fame, non so se abituati o
rassegnati o se non avevano neanche la forza di piangere. Nel caso la madre, per
qualche eventualità, fosse priva di latte o non potesse darlo, si rischiava una
tragedia. Quando non c’era una parente o una buona amica disposta a fare da
balia, si ricorreva al latte animale (buono e digeribile quello di asina). Poi
venivano svezzati col pane bollito. Logicamente si cominciava a camminare un po’
tardi e parecchi crescevano con le gambe storte. Non c’era passeggino, non c’era
lettino, non c’era culla; c’era l’amaca, appesa sopra il letto dei genitori;
quel lettino a dondolo che si vedeva nei libri di scuola lo avevano solo i
ricchi.
Si cresceva senza giocattoli, tranne qualche piccola bambolina di cartapesta e
automobiline o soldatini di latta, composti di due metà unite tramite linguette
di una inserite in asolette dell’altra, ma erano in pochi ad averli. Perciò si
giocava anche con niente: a nascondino, a moscacieca, a ‘mpalari e spalari
(rincorrere e toccare l’avversario, il quale doveva bloccarsi e attendere di
essere liberato dai compagni). I maschi giocavano pure a saltamontone (chiamato
passu, come la parola che si diceva saltando): uno si metteva piegato a
novanta gradi e gli altri lo scavalcavano da lato con un salto, aiutandosi con
l’appoggio delle mani sulla sua schiena; chi falliva il balzo o non ripeteva un
gesto particolare di chi l’aveva preceduto, andava sotto. A volte si faceva una
fila continua, con molti da scavalcare, e quando si era superato l’ultimo, ci si
chinava per farsi scavalcare dagli altri che seguivano. Si giocava “alle
bacchette”: ciascuno aveva la sua con la quale sollevava da terra quella comune,
più piccola, e le dava un colpo per lanciarla il più lontano che poteva. Qualche
volta con le bacchette si tirava di scherma. Una bacchetta poteva servire per
far rotolare un cerchio recuperato chissà dove ma, affinché non sfuggisse e lo
si potesse trattenere meglio in frenatura, era più adatto un fil di ferro
rigido, piegato e ricurvo a un’estremità. Con pietre piatte, chiamate in questo
caso cchièfari, si faceva un gioco simile a quello delle bocce. Dopo la
guerra, al posto delle pietre, si utilizzarono fondi di bossoli di cannone e vi
giocavano anche dei giovanotti. Che a volte facevano pure il gioco del soldato:
dare una manata sulla mano che uno teneva sotto l’ascella, il quale poi doveva
indovinare chi l’aveva colpito fra tanti, e tutti gli facevano ronzare attorno
gli indici con la punta all’insù. Vi era pure il gioco della trottola, ma non
tutti la possedevano. E i monelli avevano li filecci, fionde costruite
con ritagli di gomma elastica legati a una forcella. Le fanciulle giocavano alle
comari. Le bambole erano di pezza: uno straccetto affagottato, con un laccetto
legato a una certa altezza che desse l’idea del collo e due puntini al posto
degli occhi. Se non se ne aveva una a disposizione, bastava prendere un
fazzoletto e mettervi qualcosa al centro, come fanno i prestigiatori, o anche
senza, ma comunque legare il centro in modo da dare l’idea della testa e,
voilà! la bambola era fatta. Con uno straccio arrotolato e legato si faceva
pure la palla, che ovviamente non rimbalzava. Le femminucce preferivano
lanciarla contro un muro e riprenderla nella caduta; i maschietti ci giocavano a
calcio. C’erano giochi comuni ai due sessi, ma femmine e maschi raramente
giocavano insieme. Per il gioco della stacca (altrove detto della
settimana) era sufficiente disegnare otto quadrati (1+1+1+2+1+2) con un gessetto
o tracciarli nella polvere e poi saltare con un piede rispettando certe regole.
Si saltava pure con la corda, da soli o con la collaborazione di due compagni
che la facevano girare tenendola per le estremità. Si giocava anche con le
pietre: sassolini grossi come nocciole venivano lanciati in alto e ripresi col
dorso della mano, li si faceva cadere trattenendone uno indicato
dall’avversario, lo si rilanciava e prima di riprenderlo se ne pigliavano altri
da terra. Non c’erano giochi pubblici attrezzati, niente scivolo, né altalena,
che però in campagna poteva essere approntata con una corda legata a due tronchi
d’albero. Ma non tutti avevano questa possibilità. Ovviamente, giocando si
litigava e a volte si faceva a botte. Alcune mamme spiavano da dietro le
finestre, zitte quando i loro figli le davano, pronte a intervenire se le
prendevano. Altre invece preferivano richiamare in casa i propri figli per non
farli azzuffare ed evitare litigi tra mamme.
[Nota 02-1: Per i giochi dei bambini e per
molte altre curiosità
leggere
“Pietraperzia anni ’40” di Giovanni Culmone].
Saltamontone
Io mi dilettavo pure con dei minuscoli giocattolini di pasta secca. Quando mia
madre impastava la pasta, le stavo vicino e, facendo l’indifferente, aspettavo
il momento buono per rubargliene un po’; ma lei se ne accorgeva e fingeva di
rimproverarmi. Poi con le manine modellavo delle pecore che non raggiungevano un
centimetro di altezza, un paio di cani, altri animali e non solo. Feci pure un
camion, alto meno di due centimetri, col suo bravo autista dentro la cabina.
Oggi c’è una grande varietà di giocattoli che imitano tutte le macchine, le armi
e gli oggetti dei grandi. Molti sono studiati per aiutare la mente a ragionare.
I bambini sono molto più intelligenti di una volta, ma non si divertono e
preferiscono giocare con dei “non giocattoli”, che forse non offrono elementi di
curiosità, ma per i piccoli rappresentano qualcosa di diverso e stimolano di più
la loro fantasia. I ragazzi hanno giocattoli elettronici, videogiochi,
telefonino e praticano sport con tutte le attrezzature necessarie.
[Segnalibro: partita]
Ho assistito a una partita di calcetto fra ragazzi di otto-dieci anni, con sette
giocatori per parte. Sul campo, oltre all’arbitro e ai due segnalinee, c’erano
gli allenatori, che continuavano a dare istruzioni durante la partita, e due
giovani, un ragazzo e una ragazza, con la cassetta del pronto soccorso, lui
fungeva pure da fotografo.
Nella piccola tribuna laterale sedevano i parenti che facevano un tifo bestiale,
e i genitori davano ordini ai propri figli più di quanto ne dessero gli
allenatori, sgolandosi e arrabbiandosi. Ma i ragazzi non davano loro retta.
Un terzino sinistro non marcava l’attaccante avversario, il padre lo redarguiva
e lui continuava a starsene alla larga; un’ala sinistra non manteneva la sua
posizione, come voleva il padre, e andava verso il centro sperando che gli
passassero la palla. Ma quando ciò avveniva, la perdeva prima di raggiungere la
porta avversaria. A centro campo c’erano invece due piccoletti che smarcavano
gli avversari con grinta e coraggio.
Tutti giocavano con impegno e passione e con molta correttezza. Evidentemente
era stato insegnato loro a non farsi male. Ma vidi un giocatorino che nel
rincorrere l’avversario gli diede una spinta e si buttò a rotolare per terra,
nell’intento d’ingannare l’arbitro e guadagnarsi un fallo. Ma giustamente fu
punito per simulazione.
Anche se vi furono numerosi tiri fuori porta, i portieri ebbero molte occasioni
per dimostrare la loro bravura.
I giocatori di una squadra erano più grandicelli degli avversari, più smaliziati
e più bravi, e ovviamente vinsero. Ma i piccoli si difesero bene fino alla fine
e riuscirono a realizzare il gol della bandiera.
Quand’ero ragazzo, i genitori non volevano che giocassimo a palla perché si
consumavano le scarpe. Ma come potevano impedircelo, con l’entusiasmo che si era
creato attorno al portiere della squadra cittadina, un catanese di nome Caruso,
che era quasi un fenomeno: intuiva i tiri degli avversari, per cui si faceva
trovare pronto a pararli, era anche bravo nei tuffi, poi, quando tirava la palla
le faceva attraversare tutto il campo, tanto che una volta il portiere
avversario si fece cogliere impreparato e la palla entrò in rete. Essendo quasi
imbattibile, suscitava rabbia e invidia nelle squadre avversarie, e una volta,
durante una partita in trasferta, dopo essersi tuffato, mentr’era a terra col
pallone nelle mani, lo colpirono di proposito alla testa e lo mandarono
all’ospedale.
Merita d’essere citato un giocatore pietrino, Calogero Zito detto Finestra
che, pur essendo basso e monocolo, a causa di un incidente subito da bambino,
era un bravissimo portiere. Con lui, e gli altri giocatori tutti pietrini, la
Pro Pietrina raggiunse la seconda divisione e fu promossa alla prima.
Trascinati dall’entusiasmo, i ragazzi di età scolastica si erano organizzati
autonomamente
senza l’aiuto o il consiglio
di nessuno ed avevano formato delle squadre di quartiere che giocavano e si
sfidavano in mezzo alla strada, con i muri delle case che facevano da sponda.
Nella nostra classe di quinta elementare formammo un gruppo di cinque elementi e
ci allenavamo all’uscita da scuola, dietro il teatro Comunale. (Nello stesso
angolo vi si teneva saltuariamente il mercato ortofrutticolo all’ingrosso; tutto
lo spiazzo, allora in terra battuta, oggi piazza della Repubblica, era chiamato
Sìrbia, come il quartiere in cui si trova, e avremo occasione di
tornarci). Giocavamo con una palla leggera di circa dodici centimetri di
diametro o poco più, che possedeva uno di noi. Mia madre, nel vedermi tornare
sudato, intuiva il motivo, si arrabbiava perché consumavo le scarpe e, se facevo
troppo tardi, mi dava qualche sberla. Disputammo molte partite e la nostra
squadra non ne perse nessuna.
Dopo
questa immodestia, mi si consenta di citare i nomi degli altri componenti: da
terzino giocava Vincenzo Messina, emigrato in Belgio, che aveva un sinistro
micidiale e segnava parecchi gol; più avanti c’era il bravissimo Gianni
Salvaggio Vancheri, rimasto al paese e scomparso prematuramente a
quarantaquattro anni, lasciando tre figli in tenera età; poi Nino Vinci, andato
a Roma e mai più tornato; infine Salvatore Di Gloria, bravissimo nei tiri di
testa, emigrato a Torino; io difendevo la porta, delimitata da due sassi. Il
futuro accennato di questi ragazzi rispecchia il destino della nostra
generazione. Potrebbe essere interessante aggiungere i nomi di altri compagni di
classe: Vincenzo Cucchiaro, futuro sindaco di Pietraperzia (saremmo stati
insieme reclute alla caserma Scianna di Palermo, ma in compagnie diverse);
Pasquale Nicoletti, anche lui attivo nella politica cittadina; Pino Di Prima,
diplomatosi, fu assunto al Petrolchimico di Gela; Totò Candolfo, sarto, oggi ha
un negozio di alimentari; Filippo Cutaia,
rappresentante di commercio in Piemonte; i gemelli Filippo e Giuseppe Di Romana,
il primo autoferrotranviere a Torino e il secondo impiegato a Enna. Non ho più
rivisto: Filippo Aiesi, arruolatosi in polizia (nascemmo nello stesso giorno ma
con sorte diversa; avrei conosciuto un altro che aveva la stessa data di nascita
ma diverso il carattere); Pasqualino Maienza, vigile urbano in una cittadina del
Nord; Gaspare Fortunato, orfano di guerra, emigrato in Argentina; un certo Semilia, ragazzo povero molto intelligente e volenteroso; Pino
Satariano, figlio di contadini proprietari, che ricordo per la bravura
nell’imparare e ripetere le lezioni a memoria. Forse era il più bravo della
classe ma non ne aveva la fama, probabilmente per il carattere riservato e non
dominante. Eppure è diventato ufficiale dell’esercito.
Allora si andava a scuola in plessi separati. I maschietti nell’ex convento di
Santa Maria e le femminucce in quello del Carmine. Sui banchi erano incassati i
calamai, col pennino intinto d’inchiostro ci si sporcava le mani e a volte i
miseri vestitini, perché non avevamo i grembiulini. Si studiava in italiano ma
si parlava in dialetto. Gli insegnanti tenevano ancora la bacchetta in mano e
picchiavano sulle spalle o sui palmi delle mani. Ce n’era uno che aveva una
piccola verga ma la usava con metodo selvaggio: faceva congiungere le punte
delle dita e vi batteva forte. Ne presi anch’io, pur essendo un bambino attento,
ubbidiente e di appena cinque anni. Ero voluto andare a scuola, qualche mese
dopo l’apertura, perché c’era mio zio Calogero che ha due anni e due mesi più di
me e fui accolto senza iscrizione. Ma quel maestro, che tra l’altro urlava,
m’incuteva terrore. A casa, la sera, mi veniva il mal di pancia ed altri
disturbi, per cui i miei genitori decisero che interrompessi. Saltai poi un anno
e andai a sei anni compiuti. Alla prima elementare ebbi come insegnante uno dei
fratelli Farinelli, Michele, che giudicava l’intelligenza degli alunni in
proporzione all’altezza della fronte e all’inizio dell’anno scolastico ce la
misurò con le dita della sua mano. Devo ammettere che grosso modo ci azzeccava,
almeno per quanto riguarda l’impegno nello studio. Essendo anziano e forse
malato, in seconda fu sostituito da un bravo giovane forestiero che si chiamava
Giammusso. In terza l’insegnante sarebbe dovuto essere il maestro Sillitto, ma
egli ebbe l’incarico da direttore e fui assegnato nella classe di un altro, che
era professore ma insegnava alle elementari per non andare via dal paese. Di lui
ricordo che ci fece disegnare un tavolo e quasi tutti disegnarono solo la parte
frontale, mentre io lo feci in aspetto tridimensionale. Ebbene, mi disse che
avrei dovuto farlo come gli altri e sulla pagella mi qualificò con un misero
sei. In quarta ebbi un nuovo insegnante che aveva il titolo d’avvocato ma non
esercitava. Egli non ci fece mai disegnare e per il voto si basò sul precedente,
copiandolo. Era molto severo e, diversamente dagli altri che sul banco facevano
stare appoggiati con le braccia conserte, egli, per non farci cedere alla
sonnolenza, imponeva di stare seduti con le mani unite dietro la schiena eretta.
Finalmente in quinta ebbi un insegnante che mi ha sempre fatto giudicare gli
appartenenti alla professione come dei secondi genitori. Era il maestro Calogero
Pace, bravo come insegnante e come persona. A fine anno, nella commissione
d’esame ci fu l’ex insegnante di terza il quale, per due soli errori nel tema
(il primo dovuto a un apostrofo, avevo scritto l’elezioni anziché le
elezioni, e l’altro all’accento sulla e, che non ricordo se era verbo
o congiunzione), mi diede ancora un sei. Non influiva sulla promozione, ma al
mio bravo insegnante dispiaceva forse più che a me. Per esprimere elegantemente
la sua disapprovazione e dimostrare alla commissione che valevo di più, egli mi
chiamò alla lavagna e, dopo un preambolo elogiativo, mi fece disegnare un
rettangolo e mi chiese quale figura geometrica avrebbe sviluppato girando
sull’asse in un lato. Era un problema che non avevamo mai fatto e si rischiava
che io non riuscissi, ma andò bene e nella pagella quel “sei” non apparve.
Anche oggi vedo che nella scuola molti insegnanti a volte si comportano in modo
scorretto, con favoritismi da corruzione e antipatie immotivate, oltre a
brogliare concorsi, da quelli per bambini ai più importanti e seri
dell’Università. In questo modo, sul comportamento nella vita insegnano a essere
furbi sì, ma ruffiani, sleali e disonesti.
[Segnalibro: libri]
I libri scolastici di allora, anni Quaranta, quasi sempre intonsi, brutti dopo
aver tagliato i fogli, poco illustrati, sembravano fatti per alunni dell’Italia
centro-settentrionale, in quanto mettevano in rilievo tutto quanto riguardava
quelle regioni, trascurando il Meridione. I libri di lettura avevano tutti
illustrazioni di paesaggi settentrionali ed anche gli autori credo che fossero
in prevalenza nordici. Ma in quello di quinta c’era un brano sui contadini
scritto da Vincenzo Guarnaccia. L’insegnante Pace ci disse che l’Autore era un
nostro concittadino emigrato a Milano.
In quegli anni c’era l’obbligo solo per frequentare la scuola elementare e quasi
tutti arrivavamo alla quinta. Gli scolari della generazione precedente invece,
specialmente se non avevano voglia di studiare, e in questo caso ripetevano
degli anni, arrivavano alla seconda o terza e poi andavano a lavorare. Ora, con
l’obbligo esteso fino alle superiori e il divieto d’iniziare a lavorare prima di
una certa età, ufficialmente i ragazzi sedicenni non conoscono il lavoro. Ma
ancora nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale, l’età media per
cominciare a lavorare era di otto anni. Parlo di lavoro continuato e non
saltuario, il quale poteva avvenire prima. E non solo nelle campagne; non si
dimentichi che l’industria divenne grande sfruttando anche il lavoro dei
bambini; in casa e in campagna i fanciulli hanno sempre lavorato.
L’apprendistato cominciava durante la frequenza della scuola elementare. Io
frequentai prima il salone dei barbieri fratelli Tragno, dopo andai dal
falegname Saro Meo e gli ultimi due anni dal maniscalco (firraru) Cesare
Falzone, di Santa Caterina. Ma mio padre mi ci mandava per non lasciarmi tempo
di andare a giocare sulla strada, dopo aver svolto i compiti, non per apprendere
il mestiere. Lo apprese invece Salvatore Corvo, figlio di contadino anche lui,
mio compagno di scuola e di frequentazione della falegnameria. I ragazzi apprendisti non erano compensati e svolgevano anche
commissioni non inerenti il lavoro. In quanto a questo, per insegnarlo
seriamente, i maestri di bottega erano autorizzati dai genitori degli allievi a
picchiarli quando non ubbidivano o non prestavano attenzione. Altri bambini
erano costretti a lavorare andando lontano per badare alle greggi e,
specialmente se orfani di padre, erano l’unico sostegno della famiglia. Perciò
l’analfabetismo era molto diffuso. Tra l’altro non era capita l’utilità della
scuola, dell’istruzione, i genitori vi mandavano i figli perché obbligati dalla
legge ma avrebbero preferito farli lavorare. Alcuni di quelli che ne capivano
l’importanza temevano che i figli, istruendosi, prendessero il volo.
Generalmente si reputava più importante l’esperienza sul luogo di lavoro e la
scuola della strada, fondata sulla furbizia. Dicevano i contadini ai figli: “Lo
studio non ti darà il pane, lavora”. Per fortuna molti ragazzi che amavano
studiare hanno potuto dimostrare il contrario in quanto la scuola ha dato loro
molto di più. Con lo studio o con l’emigrazione, molti poveri di allora, se
ambiziosi e intelligenti, hanno superato quelli che stavano meglio di loro ma
che non si sono impegnati per progredire.
Io, a undici anni, finite le elementari, fui avviato ai lavori dei campi. Ma
qualche esperienza l’avevo fatta in passato. A nove anni e mezzo, durante la
raccolta, non potendo lasciare l’aia incustodita quando il grano era pulito, mio
padre preferiva rimanervi lui, continuando a lavorare, e mi faceva fare il
trasportatore con la mula, una graziosa bestia rotondetta, col pelo d’uno strano
colore tra il fulvo e il baio, non alta, molto mansueta e molto intelligente.
Sul basto le metteva la scaletta, un attrezzo con quattro ganci che si
usava per caricare i covoni, vi legava quattro sacchi per avere dei colli meno
pesanti e facili da scaricare e mi mandava al paese. La muletta, Fiuridda
si chiamava, quando vedeva che volevo cavalcarla, abbassava la testa per
agevolarmi, io mettevo il piede sinistro sulla cuddana (redine), mi
aggrappavo alla criniera (tagliata a circa otto centimetri), essa alzava la
testa e mi aiutava a salirle sopra. A casa c’era mia madre, che scaricava i
sacchi, li svuotava e mi rimandava indietro. L’ultimo viaggio spesso avveniva di
sera, ma non avevo paura. Solo quando passavo fra gli alberi provavo un senso
d’insicurezza per via dei tronchi che davano l’impressione di nascondere o
mascherare malintenzionati, però andavo sempre avanti. Una volta, ma ero già più
grandicello, mi capitò di addormentarmi e cadere dalla cavalcatura, senza
conseguenze.
Ero forse più piccolo invece quando ebbi un caso di sonnambulismo. Una sera mio
padre, come altre volte, mi lasciò solo nell’aia e se ne andò al paese per fare
provviste e forse per il desiderio di vedere mia madre. Io mi addormentai e… mi
svegliai mentre stavo dirigendomi verso le rocce che si ergevano sulla cima
della collina, abitate da corvi e cornacchie, con alberi scuri che vi si
arrampicavano dal basso. Presi a piangere e mi guardai attorno. Era una notte
senza luna, ma dove mi trovavo non c’erano alberi e riuscii a individuare in
basso una macchia chiara. Pensai che fosse l’aia e, tranquillizzato, mi avviai
in quella direzione. Non era l’aia, però la vidi lì vicino, andai e mi coricai.
Mio padre tornò e mi trovò scosso. Comunque era passata e in fondo non avevo
avuto molta paura.
L’ho raccontato qui, ma non vuole esserci nessuna recriminazione verso mio
padre: i tempi erano quelli.
Saltacavallo
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