I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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etna].
Finalmente nel cielo della Sicilia, la mia cara amata terra,
madre patria… o madre snaturata. L’Etna era sotto di me, fumante e maestoso,
superbo e in fondo buono.
Un viaggio in aereo era il sogno della mia fanciullezza, anzi
avrei voluto addirittura fare il pilota, ma ero destinato a fare il contadino.
Poi, con l’emigrazione, divenni operaio. Si lavorava tutto l’anno e nel mese di
agosto si tornava al paese per fare quattro settimane di ferie. Si viaggiava in
treni superaffollati e c’era chi occupava persino i gabinetti con valigie e
grossi pacchi. Nei corridoi si stava come sardine e una volta sentii un giovane
lamentarsi con una persona che gli stava sui piedi nel vano tentativo di
passare. Si viaggiava così per più di venti ore, ma si era felici di tornare a
casa. Sul treno mangiavamo cibi elaborati (carne, melanzane alla parmigiana,
peperoni fritti, eccetera) perché si doveva fare bella figura coi compagni di
viaggio; poi ci saremmo abituati a prepararci i panini imbottiti. Arrivati a
Catania c’era d’attendere la coincidenza per Caltanissetta. Secondo l’ora di
arrivo, poteva essere comodo il diretto per Palermo, facendo coincidenza a
Caltanissetta Xirbi. Più spesso però si prendeva l’accelerato, così lo
chiamavano, che fermava a tutte le stazioni e in qualcuna attendeva per oltre
mezz’ora l’arrivo di un convoglio incrociante. Siccome allora il Treno
dell’Etna partiva da Torino verso le dieci di sera e spesso faceva ritardo
anche di ore, si perdevano le coincidenze e a volte capitava di dovere aspettare
la corsa della notte intorno alle tre, ma eravamo premuniti di provviste per la
cena. Da Catania a Caltanissetta si viaggiava per quattro-cinque ore e poi
mezz’ora da Caltanissetta a Pietraperzia con un’auto a noleggio, perché allora
non c’erano parenti che avessero la macchina. Si giungeva a casa stanchissimi,
dopo un viaggio che durava dalle ventiquattro alle trenta ore. Gli emigrati
all’estero ovviamente ci mettevano ancora di più. Nei giorni di inizio e fine
vacanze c’erano pure treni straordinari, meno affollati ma più lenti, e treni
speciali delle organizzazioni sindacali, dove si poteva accedere solo con posti
prenotati e nessuno restava in piedi.
Il problema del superaffollamento era dovuto al fatto che le
fabbriche chiudevano tutte nello stesso periodo e i primi tempi nessuno aveva
l’automobile. Poi questa divenne di uso comune (oggi ci sono famiglie di due
persone con tre auto, una ciascuna per andare a lavorare e una terza per gli
altri usi), le ferie vennero un po’ scaglionate e ci fu un alleggerimento sui
treni. I quali ora sono più comodi e arrivano in orario. Il viaggio comunque
rimane molto lungo e tanti preferiscono prendere l’aereo, scegliendo, se
possono, il periodo con le offerte speciali. Chi lo avrebbe mai detto? si
dicono, una volta era roba da ricchi.
Quand’ero ragazzo le strade erano disagiate, i mezzi scarsi, e
per andare nella città etnea si usava la ferrovia. C’erano alcuni carrettieri
che vi andavano per commercio e impiegavano tre giorni, con sosta a San Michele
di Ganzarìa e a Palagonìa, passando per Caltagirone. Poi furono migliorate altre
strade e cambiarono itinerario, facendo una sola sosta ad Aidone. Alloggiavano
nei fondaci, che avevano la sola funzione di locande a pianterreno per uomini e
bestie, specie di piccoli caravanserragli coperti, dove tutti gli ospiti
dormivano insieme con gli animali. Offrivano solo quattro mura e un tetto e
bisognava portarsi dietro anche la biada per gli animali; solo qualche
fondachiere poteva fornirne un po’. A Pietraperzia ce n’erano tre, tutti nei
pressi della Santa Croce, e vi alloggiavano anche carretti di pietrini,
quand’erano carichi di merce e non potevano essere lasciati in mezzo alla
strada.
[Nota
01-1:
Queste notizie, e qualcun’altra, le
ho avute dal fratello di mia suocera, Giacomo La Rocca, che faceva il
carrettiere].
Poi si diffusero le automobili e costruirono l’autostrada
Catania-Palermo. Le vie di comunicazione favoriscono il progresso, ma molti
settentrionali, stoltamente critici, ironizzavano domandandosi se ci dovessero
passare i somari. Vi transitano abbastanza automobili e mezzi pesanti. E gli
autobus in un’ora e mezza ci portano al paese.
[Segnalibro: etna]
Ero
insieme a mia moglie e venne a prenderci mio cognato con la sua Ford. Usciti
dall’aeroporto, dopo un po’ c’immettemmo nel groviglio di raccordi sopraelevati
a sud-ovest della città, per imboccare poi l’autostrada. Che è molto bella, con
gli oleandri bianchi, rossi e rosa fra le carreggiate, e ai lati gli eucalipti
verde-cromo con trasparenze di marroncino amaranto tra le foglie. Questi alberi
ornamentali resistenti alla siccità, che attecchiscono su qualsiasi terreno,
sono stati pure scelti dall’ente forestale per rimboschire le terre argillose,
troppo povere per seminarvici.
L’Etna, che noi chiamavamo Mongibello (dall’arabo El Gibel, Il
Monte), per un lungo tratto ci tenne compagnia con la sua cima in parte innevata
e in parte scura di cenere e di lava solidificata vicino alla calda bocca di cui
si vedeva il fumo schiacciato dal vento. Ce lo lasciammo alle spalle sulla
destra, attraversando la pianura verdeggiante di agrumeti, e passammo fra le
colline arse del centro della Sicilia, il cui panorama caratteristico piace agli
stranieri ma non a noi che ci ricorda il lavoro duro sotto il sole scottante,
sebbene ci faccia sentire tanto la stupida nostalgia della terra in cui siamo
nati ma che non ha saputo darci benessere. Ora le cose stanno cambiando ma molto
lentamente, come se ci fosse un freno al processo di sviluppo.
Lasciammo l’autostrada nei pressi di Enna e imboccammo la statale
per raggiungere il “nostro” paese. Riconoscevo le terre brulle e quelle
coltivate, alcune col grano ancora da mietere, altre in cui erano rimaste le
stoppie, e poi mandorli, ulivi e altri alberi meno comuni. Luoghi a me più o
meno noti, di alcuni conoscevo i coltivatori, molti dei quali erano anche
proprietari, ma non sapevo se quei fondi appartenessero ancora agli stessi.
Qualcuna di quelle ’nchiusi
[appezzamenti di terreno]
l’avevo coltivata anch’io e mi prendeva un po’ di commozione, anche se quando ci
travagliavu non vedevo l’ora di lasciarle per andare a lavorare in città,
al Nord.
Il castello diroccato in cima alla collina rocciosa a strapiombo
ci comunicò che stavamo arrivando. Oltre una curva apparvero le prime case
sovrastate dalla cupola della chiesa Madre. Passammo dal Canale, la grande
fontana con quindici cannelle (sette per due lati contrapposti, che versano
l’acqua in due vasche bislunghe, e l’ultima da un terzo lato stretto, che la
versa in una vaschetta piccola). Da questa, c’è il travaso in una grande vasca
ottogonale dai bordi alti per abbeverare gli equini, mentre dalla parte opposta
le vasche bislunghe alimentano un diverso abbeveratoio, rettangolare, lungo e un
po’ basso, per gli ovini. Quindi l’acqua passa in un tubo lungo pochi metri che
attraversa un varco transitabile e affluisce in due vasche basse e profonde che
una volta venivano usate dalle lavandaie. Vi affiorava dello sporco ributtante,
eppure c’erano ragazzi che vi si tuffavano a nuotarci. Ora queste sono
circondate a distanza da oleandri.
Una volta da tutte le cannelle scorreva molta acqua, sufficiente
a soddisfare le poche esigenze dei pietrini. Anche la fonte del Canalicchio dava
il suo contributo. Per chi non aveva la possibilità di rifornirvisi
direttamente, c’era l’acquaiolo (saccaru, così nominato per la sacca,
un contenitore di vimini o di spesse reggette di ferro per quattro brocche, da
mettere due per parte sul basto) che girava col suo somarello a vendere l’acqua
per le vie del paese.
Poi, nel 1937 fu costruito un acquedotto alimentato dalla
sorgente di Sciortabino. Ma le maggiori esigenze resero anche questo
insufficiente e il sindaco Cucchiaro fece scavare dei pozzi in contrada Cava e
Runzi. Infine fu creato un collegamento dalla diga dell’Ancipa e ora l’acqua
viene fornita tutti i giorni per alcune ore. La sorgente di San Giovanni, che
alimentava il Canale, protetta da un muro di cinta ma non più controllata
periodicamente da un guardiano, fu invasa dalle greggi che la inquinarono, per
cui l’alimentazione fu interrotta e la fontana venne collegata all’acquedotto
comunale, ma dalle cannelle scorrono lacrime d’acqua.
Fontana del Canale
-
1999, acquerello 31x23
Transitammo per via Verdi, un tempo trazzera percorsa dai
contadini, che dalla Santa Croce passavano dal Canale per abbeverare le bestie,
quando andavano in campagna e viceversa. Nel secondo dopoguerra, il sindaco
Barrile, figlio di contadini e contadino pure lui mentre studiava per diventare
insegnante, fece mettere dei pali con lampadine per illuminare la strada ai
viddani che andavano a lavorare il mattino presto e tornavano la sera tardi.
Ebbene, qualche cretino le ruppe per il piacere di esprimere la sua bravura
nella mira a tirare sassi.
Provai grande emozione e gioia nel rivedere la mia gente, persone
che conoscevo e giovani mai visti o non riconosciuti, perché crescendo si erano
trasformati. Non si vedevano bambini giocare per le strade, come ai tempi della
mia fanciullezza, poiché con le auto sono divenute pericolose; quei pochi che
vidi camminavano stando vicino ai grandi.
Ricordo che una volta mio fratello, di solo due anni e mezzo
(aveva ancora la piccola veste da femminuccia, come si usava allora, perché i
bambini potessero fare la pipì accovacciandosi) andò da San Francesco alla
Terruccia, sfuggendo al controllo della nonna materna, e raggiunse incolume
nostra madre andata dall’altra nonna per fare un lavoro di cucitura a macchina.
Ora, col traffico, sarebbe molto pericoloso.
Rina, la sorella di mia moglie, ci accolse come al solito
sorridente, con molto affetto. Scaricammo le valigie e intanto ci scambiammo i
soliti convenevoli di primo incontro che prima ci eravamo scambiati col marito
(Come state? Avete fatto buon viaggio? Come stanno altri parenti? Eccetera,
eccetera), fummo messi a nostro agio e invitati a darci una rinfrescata.
Mia cognata, che è un’ottima cuoca ed anche buona pasticcera, ci
preparò un bel pranzo leggero, in considerazione che avevamo viaggiato, ma
sostanzioso, e concludemmo con un’ottima e bella torta.
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