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Cenni storici su Voghera e il Duomo Si
tenga presente che in quella zona montana le popolazioni non erano state ancora del tutto
domate dalla violenta penetrazione romana e la toro ostilità avrebbe potuto rendere più
difficile il transito su un tracciato pedemontano. Naluralmente i tecnici militari
che a nome del console decisero la scelta di questa soluzione tennero
certamente pre sente la comunità umana di Vicus Iriae (Voghera)
che doveva contare allora una popolazione non superiore alle
duemila unità, ma certamente, non inferiore alle millecinquecento. Che per quei tem pi
era già un agglomerato importante, distribuito, come vedremo più avanti, su sei
isole, territoriali nettamente distinte tra loro, ma
collegate da comune interesse economico. Per renderci esatto
conto del fenomeno non molto comune di un insediamento in pianura paludosa, anziché sulle
pendici delle vicine colline, dobbiamo richiamarci alla
particolare ed eccezionale condizione morfologica del terreno del
nostro agro, che consentì alle tarde espansioni,
passate dalla vita nomade a quella stabile, di scegliere questo luogo quale
dimora. Ebbene, tutta la fascia che va dalla parte sud, pressappoco all'altezza
di Pontecurone, fino a Genestrello, era costituita da un insieme di ampi
mammelloni, di quota variante fra i dieci e i quindici metri, distinti fra loro da
una vasta ed intricata rete di vallette nelle quali per lungo periodo
dell'anno ristagnavano le acque, o cadute dal ciclo o rigurgitanti per
le facili frequenti alluvioni per la presenza di corsi d'acqua non disciplinati da difese
marginali. Se
in un primo momento questa situazione può apparire come un aspetto negativo ai fini di
una vita in comune igienicamente organizzata, in quei tempi
costituiva soprattutto una buona difesa da pericoli esterni,
proprio perché queste acque stagnanti in un Inestricabile
dedalo di piccole valli, erano difficilmente superabili da chi
venendo dall'esterno non conosceva la topografia del luogo. Quindi un
paesaggio desolante nelle sconfinate depressioni, a cui faceva da
contrasto la spontanea ubertosità della parte alta di queste
dorsali tondeggianti. Il
prof. Pietro Falciola redasse una carta topografica vogherese con
quotazione nel 1932. Si è così potuto verificare che la zona del castello - sede del
primo «castrum» romano - è limitata dalla via Cavagna, da un tratto di via
Cairoli fino a via Garibaldi, da via Garibaldi fino a
via Cavour e da piazza del Duomo fino a via Cavagna, si trovava
su un'altura di terreno vergine, mentre il palazzo municipale è circondato da uno strato
di terreno di riporto dello spessore di circa dodici metri. Allora
la considerazione che ne deriva è semplice ed elementare: il Duomo, che sorge
sull'antico tempio, era stato costruito su zona non
franosa, dove potessero essere ottimamente ancorate le fondamenta. La mancanza di una
disciplina delle acque consentì nei secoli passati lo straripamento dello
Staffora che per il suo rapido corso a regime torrentizio rotolò
nelle vallette della nostra pianura materiale argilloso frammisto
a calcare, operando così le colmate che grosso modo davano
alla zona l'aspetto di una pianura a banco originale. Ma
perché proprio lì è sorto il massimo tempio? Perché è ormai risaputo che dove
nell'accampamento romano si incrociavano il cardo e il decumano le due vie
principali dell'insediamento stesso - lì sorgeva il pretorio, che per la sua Ecco
dunque che l'antica pieve occupò il posto del pretorio romano. Per
avviare il discorso storico sul nostro Tempio, ci è sembrato più facile partire
dalle notizie documentate che con il loro svolgersi hanno
intessuto le prime maglie delle vicende esterne del nostro Duomo; cioè la scelta del
luogo e la sua costruzione. Ma c'è una parte ben più importante: la
storia spirituale del nostro massimo Tempio. L'Ecclesia è prima della costruzione, è la condizione necessaria ed indispensabile perché il tempio sorga come testimonianza di fede, come documento di glorificazione e di gioia per la rivelazione della verità avuta dai primi predicatori evangelici. Sappiamo che fra questi primi annunciatori della «buona novella» ci fu San Siro, inviato dall'apostolo Pietro a convertire le popolazioni ticinesi e che fu perciò il primo protovescovo della Diocesi di Ticinum (Pavia). Sulle orme di Siro, altri vennero da noi e fra questi, Marziano. Egli fondò la Pieve di Tortona e fu protovescovo della stessa diocesi per oltre quarant'anni. La
«plebs» vogherese fece subito parte della Diocesi tortonese, e anzi di
questa fu certamente la parte più importante. Nei primi tempi della Chiesa vogherese era
protovescovo della Diocesi di Tortona Marziano, che dopo il martirio,
venne elevato agli altari Eppure,
fra le molte difficoltà, si gettarono le basi degli ordinamenti
ecclesiastici e il Cattolicesimo, sia pure durante i primi feroci secoli barbarici, si
sviluppò a tale punto da influire decisamente sulla formazione del Clero e delle
gerarchie della nostra Chiesa, prima e dopo che fosse aggregata alla Diocesi di Tortona. E questo stato di cose contribuì decisamente anche alla formazione morale ed intellettuale dei nostri primitivi credenti. Da piccoli gruppi costituiti nel nostro Agro e sparsi nei vici, nei luoghi, nelle terre collegandosi fra loro avvertirono la necessità di sostenere la propagazione della fede anche con opere che fornissero i mezzi necessari per raggiungere l'alto fine. Cominciarono così le feconde prestazioni e le durature donazioni di beni immobiliari i «fondi ecclesiastici», amministrati dal vescovo. Furono queste le fonti, in continuo sviluppo, della beneficenza e della carità, secondo il concetto cristiano, del tutto sconosciuto alla precedente società pagana. Cominciò proprio da quel momento l'azione socialmente provvidenziale della Chiesa che da mediatrice fra Cielo e terra si fece provvida e idonea nel sanare i mali dello spirito e quelli i del corpo. La
Chiesa vogherese entra ufficialmente nella storia in un documento
del 913 di Berengario I re d'Italia, che è un privilegio, dato
alla nostra Chiesa, i cui termini notarili presuppongono una istituzione religiosa non
solo in essere, ma largamente operante. Venne
scavato così quel Cavo Lagozzo che, derivando le acque dallo
Stafora all'altezza di Rivanazzano, entra in città
dalla parte di levante e tutta lattraversa
percorrendo il tratto del Castello, scorrendo sotto la via
Cavour e il vicolo Toma, quindi in parallelo
a via Bidone fino alla via Emilia per raggiungere poi Via Cavallotti e
immettersi nella via Veneto, volgendo infine verso Medassino
e guadagnando lo Staffora nei pressi della confluenza con il Po. Durante
questo percorso il Cavo Lagozzo, tuttora esistente ricoperto; faceva funzionare ben cinque
mulini: quello di S. Maria (nei pressi dell'ospedale psichiatrico), quello di S. Michele
(nei pressi di via Carena), quello di via Castellario (oggi via Gabella), quello detto di
Berengario (si noti il valore storico del toponimo) sito di fianco all'ex Palazzo
Morosetti di via Emilia, e il mulino Lenti al termine della via
Cavallotti, mentre un ramo, che si staccava all'altezza di via Garibaldi
all'incrocio con via Mazzini, la percorreva tutta allo scoperto fino a via Emilia; poi, da
via Emilia a via Plana era coperto e riafiorava, sempre in via Plana, mettendo in funzione
altri otto mulini o macine da gualdo, erba tintoria largamente
coltivata nel nostro territorio. Con
ciò crebbe l'importanza del capitolo dei canonici nei rapporti
con la città, aumentando anche il prestìgio della Pieve di S. Lorenzo. La
Chiesa matrice archipresbiteriale di Voghera è pieve ossia parrocchia
battesimale tra le più antiche della Diocesi di Tortona, sotto l'invocazione di S.
Lorenzo Martire . Pietro
Falciola nel compilare la «Cronotassi degli arcipreti della Insigne Collegiata
Parrocchiale di San Lorenzo Martire in Voghera» annota che il primo di
questi arcipreti è un
certo Oberto del quale parla il canonico Giuseppe Manfredi
nella sua «Storia di Voghera». La
notizia intorno a questo personaggio è breve e laconica, perchè è desunta da un
documento indiretto di natura giuridica relativo ad una sentenza di placito straordinario
che porta la data del 1105. Il
Manfredi, dice testualmente dello stesso sacerdote (chiamato con
altro nome): «Liberto da Voghera era arciprete della Collegiata e
dell'ampio distretto pievano in sul cominciare del sec. XII. Fu valentissimo
nella giurisprudenza canonica; a tale carica venne prescelto a difendere le ragioni di
Lucia badessa del monastero del senatore di Pavia contro un'altra badessa intrusa,
chiamata Otta, la quale venne deposta» nell'anno 1105 per ordine di papa Pasquale II a
ratifica della decisione del placito pavese. Non si tratta di Liberto, ma di Oberto
appartenente ai Malaspina Obertenghi. Nonostante
l'attività missionaria svolta dalla Pieve di S. Lorenzo di
Voghera, si può dire che intorno ad essa il silenzio si fa sempre più rigoroso e solo
casualmente, affiora nella documentazione d'archivio.
La
tabella 362 dell'Archivio Diplomatico ci fa, conoscere un Diploma dell'imperatore Ottone
III del 20 novembre 1001 con il quale riceve sotto il suo mundiburdio
o protezione il Diacono della Pieve di S. Lorenzo di Voghera, Bemardo,
con il fratello di lui Pietro detto Amizzone. Successivamente
nel 1045 in un Diploma del Vescovo di Tortona Rambaldo risulta che Viqueria è situata nel
contado di Tortona; e in un breve di papa Adriano IV dell'anno 1157 si conferma che
Voghera, Montesegale, S. Gaudenzio e la corte di Cervesina sono sottoposte alla
giurisdizione del Vescovo di Tortona, mentre nel 1161 la bolla di papa Alessandro III
riconosce detti luoghi, con la riserva del consenso del Vescovo, sono stati venduti dalla
città di Tortona ai pavesi così che l'imperatore Federico Bararossa nel 1164 dichiarò
che Voghera faceva parte del Comitato imperiale. Durante
il 1207 perdurava ancora una lite iniziata vent'anni prima fra le monache del
Senatore ed Opizzone vescovo di Tortona per la Chiesa di S. Ilario. Ed
essendosi l'arciprete di Voghera irrigidito sui diritti che egli
pretendeva avere su detta chiesa, la causa fu rimessa
dapprima al Vescovo di Vercelli, poi all'Arcivescovo di Pisa e infine nel 1209 a Guglielmo
di Rondinario, entrambi dell'ordine degli Umiliati; i quali il 1
dicembre dello stesso anno senteniarono, in contumacia del Vescovo di Tortona e
dell'Arciprete di S. Lorenzo di Voghera «predictam Ecciesiami S. Ilarii veterem quasi
Parochiam sevciniam» e che non dovessero proibire ai parrocchiani di frequentare
detta chiesa e di eleggervi la sepoltura. La
sentenza fu data a Como «in Cimiate Comana in Claustro S. Mariae Majoris». Intervenne
Robaldo arcidiacono di Pavia Delegato Apostolico per porre fine alla controversia fra il
Rettore di S. Ilario, il Vescovo di Tortona e l'Arciprete di Voghera; e dopo qualche
trattativa nel febbraio 1210 la vertenza ebbe fine. Ma
a darci una visione più eloquente della importanza assunta dalla Collegiata di S.
Lorenzo, ecco affiorare Il
podestà non poteva scostarsi dal disposto degli Statuti. Era il supremo
organo esecutivo del Comune, lo rappresentava nelle relazioni con altre città, comandava
l'esercito cittadino, ma la sua funzione principale fu quella giudiziaria, esercitata
direttamente o delegata a giudici di sua fiducia. Allo scadere del mandato, doveva
risiedere in città senza scorta di armati e senza le prerogative della sua incolumità.
Ciò per consentire al Consiglio di esercitare, attraverso un rappresentante,
l'ufficio di sindacato sull'operato del Podestà. Voghera,
Comune misto perché costituito da una popolazione mista artigiana e rurale,
cadde sotto l'influenza diretta dei Beccaria i quali, con alterna fortuna
spadroneggiarono nell'Oltrepò per oltre un secolo, cioè fino alla sconfitta e alla
distruzione totale operata in Casei dal conte di Carmagnola, nel 1418 per ordine del
duca Filippo Maria Visconti. Voghera
però non fu mai teatro di scontri sanguinosi fra i diversi Comuni del suo agro. La
condizione di borgo di pianura, munito di un castello e da una sola cerchia di
mura, con fossato, non le permisero una scalata importante nella lotta fra i Comuni
territorialmente compresi fra il Po e il Tanaro. La
Chiesa vogherese poi, intese sempre di rimanere fedele alle direttive del Vescovo di
Tortona il quale potè contare moltissimo nell'appoggio del Capitolo della
Collegiata di San Lorenzo di Voghera. Gli
Statuti del nostro borgo, le disposizioni fiscali e le deliberazioni del
Consiglio di Credenza, dimostrano con evidenza che Voghera profondamente cattolica
intendeva darsi delle norme che non fossero in contrasto
con le direttive del proprio Presule e, quando i pavesi tentarono di penetrare in Voghera
attraverso la cittadella dell'economia, offrendo agli stessi artigiani vogheresi il
privilegio di entrare a far parte dei loro patronati e delle loro
corporazioni, il clero vogherese si oppose decisamente
ricordando che non si doveva in alcun modo uscire dalle «grafie di San
Marthiano». In
verità solo verso la metà del secolo XIV, con l'avvento .dei Visconti di Milano e in
Pavia, Voghera allaccerà rapporti economici che la
trasformeranno, in breve volger di tempo, in terra ambita dai Visconti
e privilegiata per la Apprendiamo
dagli istrumenti capitolari del 13 luglio 1283 come il vescovo Melchiorre Bussetti
era tenuto dai Vogheresi in altissima considerazione proprio perché il
presule aveva dimostrato in più occasioni di avere a cuore le condizioni generali e
particolari del Comune sia nel campo della vita economica che in quello della vita morale,
tanto che gli uomini di Voghera quasi presaghi della benignità del futuro che
avrebbe consentito ai posteri di apprendere la loro gratitudine, non trascurarono
di celebrarlo in atti notarili, che ancor oggi ci narrano di quei lontani tempi. Uno
degli istituti più importanti dipendenti dal Collegio dei Canonici di S. Lorenzo, era
senza dubbio l'ospedale di S. Enrico, che aveva sede nella via omonima (ora Bellocchio),
la cui entrata principale, era sul sagrato della Chiesa di S. Rocco, e che
architettonicamente mai conservata è stata abbattuta nel 1936. L'ospedale aveva la
capacità di ben sessanta posti letto ed era amministrato, dai Padri Benedettini, ed oltre
a possedere funzionante un Monte di pietà Frumentario, possedeva dei beni
immobili nel territorio del Comune, con un reddito considerevole di circa 800 sacchi di
grano di mine cinque, per ogni anno e circa tremila brente di vino comprendendo anche
quello di qualità inferiore che veniva distribuito gratuitamente e giornalmente ai
poveri. Tuttavia
l'amministrazione di questo importante complesso ospedaliero, per quei tempi
considerevolissimo, era condotta in modo irrazionale, spesse volte caotica, comunque
semplicisticamente, e non sufficientemente controllabile dal punto di vista contabile, per
questo il 16 agosto del 1288 l'Arciprete del Duomo chiamò il rettore responsabile
dell'ospedale del Salvatore, cui dicitur Hospitale Sancti Henrici de Viqueria,
che si recò solennemente in Duomo accompagnato dai frati Giovanni Vacca, Lantelmo de
Migliavacca e Jacopo de Rè, e vi furono ricevuti da monsignor arciprete Berengario Torti
presente tutto il Capitolo dei canonici, compresi i rettori delle chiese dipendenti
i canonici Isopo, Enrico, Facino della Curte e Rainero de Mirabelle. L'arciprete presentò
uno schema di statuto relativo alla buona amministrazione dell'ospedale con norme che
consentivano un adeguato controllo su tutta l'attività. I frati prima di procedere alla
nomina dei Rettori desideravano avere norme scritte e ben definite, così che venne
stabilito che ogni nomina di rettore doveva essere convalidata dall'Arciprete nelle
cui mani il nuovo eletto avrebbe prestato giuramento. In più dovevano essere
elencati con atto pubblico tutti i beni patrimoniali dell'ospedale, i beni immobili e le
terre situate fuori le mura, i canoni, le case, e consegnare copia all'Arciprete ed al
Capitolo nel termine di un mese; con questo atto notarile si voleva dare all'Arciprete e
al Capitolo la corresponsabilità del patrimonio dell'ospedale e consentire un
intervento sul modo di amministrarlo; che il nuovo rettore fosse costretto a descrivere in
un libro le rendite presenti e quelle presumibili nell'anno successivo, e a rendere conto
ogni mese dell'amministrazione ai confratelli della comunità religiosa, giustificando
particolareggiatamente le entrate e le uscite; ed ita statuerunt concorditer debere
attendi per ministrum futurum. Fra
i testimoni presenti a questo importante atto di potestà giuridica della Chiesa vogherese
vi fu anche Frater Mangfredus appartenente all'Ordine Benedettino,
prior sanctae Mariae de Revoxella, che, per la sua importanza di
antichità e di patrimonio immobiliare, dopo la Collegiata di S. Lorenzo, era la chiesa
più importante in quel tempo (1288). Il Capitolo, presenti l'anzidetto priore e il notaio
Johannes Bubulcus, sanzionava solennemente la sua autorità su tutte le chiese del
pievanato vogherese e per dimostrarlo senza alcuna contestazione confermava la nomina di
frate Enricus Asenellus a rettore dell'Ospedale del Salvatore, più noto ai Vogheresi
sotto la invocazione di S. Enrico e lo investiva anche a nome del Capitolo di tutti i
poteri necessari per esercitare la buona amministrazione di detto ospedale, Dopo
la lettura degli Statuti normativi che articolavano tutta la materia
giuridico-amministrativa dell'istituto ospitaliero, il nuovo eletto prestò
subito solenne giuramento nelle mani dell'arciprete e dei Canonici, e si impegnò di
riconoscere con obbedienza l'autorità dell'Arciprete e del Capitolo della pieve di San
Lorenzo, di non far cosa che potesse ledere gli interessi spirituali e materiali del clero
locale e soprattutto di adeguare l'ospitalità degli ammalati in
rapporto alla rendita che una onesta e rigorosa amministrazione poteva ricavare dai beni
patrimoniali dell'ospedale e inoltre, di prendere tutte quelle iniziative che potessero
portare consolazione ai poveri; e di non contrarre debiti per chartain a solidis
centum super Papiae senza la preventiva autorizzazione dell'arciprete e del
Capitolo; ed infine di osservare in ogni parte le disposizioni previste dallo Statuto. Nel
medesimo giorno il Capitolo delegò con speciale procura il canonico Isopo per porre frate
Asenellus in possesso dell'Ospedale e dei suoi relativi beni, cosa che avvenne subito
dopo. In ogni atto ufficiale della Pieve vogherese troviamo sempre presenti l'arciprete e il Capitolo dei canonici, i quali alla unanimità deliberavano il loro comportamento nelle varie questioni concernenti la vita ecclesiastica. Ma, dopo qualche tempo, poco meno di un cinquantennio, troviamo arciprete e Capitolo attori e promotori di azioni relative alla vita sociale della comunità: concessione in affitto dei mulini azionati dalle acque del cavo Lagozzo, affitti a lunga scadenza della proprietà terriera, specialmente di quella irrigua che costituiva l'agro a ponente delle mura cittadine, fondazione di ospedali e di Monti di pietà frumentari; tutto ciò in servizio di Dio e per il bene delle classi povere, spesso indifese e angariate che costituivano il sottofondo umano di una società stagnante entro l'angusto spazio di una città munita, situata in una pianura spesso attraversata da eserciti in guerra che ostacolavano fortemente un insediamento extra moenia, riducendo la vita e l'attività della comunità vogherese a semplici espressioni artigianali senza mai che alcuni dei suoi componenti potessero, attraverso la conquista della ricchezza terriera, entrare a far parte di una classe superiore per esercitarvi il potere politico ed economico. I curiali, che nell'agro vogherese erano proprietari di latifondi, vivevano lontano da Voghera in centri maggiori dove il reddito delle terre « culte » della provincia consentiva loro di accedere, nei luoghi di residenza, alle più alte magistrature cittadine. L'acquisizione
di autorità dell'arciprete della Chiesa Collegiata di S. Lorenzo su tutto il clero del
pievanato concessagli, non solo perdurò nel tempo, ma andò
rafforzandosi a tal punto che l'autorità ecclesiastica locale si era venuta
concentrando quasi tutta nelle sue mani. Egli poteva fra l'altro esercitare la
censura sulle attività dei parroci del nostro agro compreso nel vasto territorio del
Comune. Due documenti redatti nella Sede capitolare, il primo del 1296 e il secondo del
1297, confermano la nostra affermazione: Anno 1296, 12 settembre: «In claustro Plebis S. Laurentii de
Viqueria D. Bellengerius Tortus archipresbiter dictae Plebis... ordina al parroco Giacomo
della Chiesa di S. Michele di Albofassio, sotto pena di scomunica, in un primo termine di
dieci giorni, e poi di altri sei, di celebrare la S. Messa e attendere ai divini uffici
nella suddetta Chiesa, altrimenti procederà contro di lui con sentenza di scomunica
secondo quanto stabilito dal diritto canonico. Firmato D. Bellengerius. Testimoni Joannes
de Cravenzana e Stefanus de Medaxino sacerdoti ». Anno 1297, 22 maggio: « In claustro Ecclesiae E. Laurentii de Viqueria D. Bellengerius Tortus archipresbiter... ammonisce il sacerdote Jacomum de Dulterio rettore e ministro della Chiesa di S. Pietro di Voghera e gli ordina perentoriamente che nel termine di dieci giorni, e poi di altri cinque e almeno entro la Pentecoste prenda residenza presso la Chiesa di S. Pietro e si dedichi al suo servizio e al popolo a lui affidato sia per le cure spirituali che temporali sotto pena di scomunica. Testimoni Joannes Mongilardus e Joannes Fornarius sacerdoti». Dunque l'arciprete Bellengerio Torti, senza consultare ufficialmente
il Capitolo dei Canonici i documenti non ne fanno cenno perché il Capitolo
non è stato rappresentato dai suoi mèmbri per il grave provvedimento, ordinò al parroco
della Chiesa di S. Michele di Albofassio ed al rettore della Chiesa di S. Pietro di
Voghera di risiedere in permanenza, abitualmente e giornalmente, nella loro parrocchia
sotto pena di scomunica. Però i due sacerdoti non accettarono l'ordine con subitanea
ubbidienza, ma in presenza degli stessi testimoni dell'ordinanza dell'Arciprete si
appellarono « ab ipso praecepto ad summum Pontificem » giustificando il loro
comportamento come una necessità derivante dalle rendite delle parrocchie divenute a quel
tempo così irrisorie da non consentire il minimo necessario per la vita; dovevano quindi
moltiplicare la loro attività sacerdotale coadiuvando altri parroci nell'esercizio
del culto. Purtroppo
anche le vicende politiche del tempo avevano contribuito a rendere più misere le
popolazioni, per cui anche la vita ecclesiastica ne aveva sensibilmente
risentito. Siamo
così arrivati alle soglie del secolo XIV, nel periodo in cui in Milano fra i Torriani e i
Visconti aveva preso avvio, violenta ed inesorabile, la lotta per
la contesa del dominio sulla città. Anche nelle nostre terre le lotte Ad
affiancare l'opera del suddetto capitano fu in quel tempo mandato da Pavia il console di
giustizia Bernardo De Serra il quale volle, molto probabilmente ad istanza del capitolo
dei Canonici di San Lorenzo i cui beni collegiali erano esenti da tassazione
un atto ufficiale di consegna dei beni immobili costituenti il patrimonio della Chiesa di
San Lorenzo e nel tempo stesso tributare i canoni, in decime e in denaro verso l'arciprete
del Duomo. Infatti fino a quel tempo le cose erano state condotte in modo familiare ed
ognuno dei beneficiari delle possessioni di proprietà della Chiesa matrice pagava sulla
parola il tributo concordato, senza alcuna garanzia reciproca. L'evolversi dei tempi aveva
reso necessario un atto pubblico che garantisse alla Collegiata vogherese le entrate
finanziarie per le spese di culto, per quelle missionarie e per i benefici della mensa. E
il documento fu steso il 27 ottobre 1302 e si trova conservato presso l'Archivio del
Capitolo del Duomo. Per mezzo di esso veniamo a conoscere molti dei rapporti
di interesse di comunità ecclesiastiche o di privati con il
Duomo. Come
s'è detto, il catasto dei beni immobili di proprietà della Collegiata di San Lorenzo,
redatto nell'ottobre del 1302, indica con precisione topografica quei beni, descritti uno
per uno e individuabili dalle indicazioni delle coerenze. La
compilazione del documento è fatta secondo la divisione amministrativa della « porta »
che, come già abbiamo detto, era di per sé un istituto della organizzazione
della civitas fin dall'epoca del dominio franco in Italia. Poi un'altra
particolarità balza all'occhio: tutte le terre di proprietà della chiesa, salvo qualche
eccezione, sono situate nella fascia di terreno che al di là del fossato che
proteggeva le mura, recingeva con ampio anello tutta la città. Non solo, ma nella
indicazione catastale rappezzamento di terreno veniva commisurato, per quanto riguarda la
superficie, in sors cioè la sorte che fin dal periodo longobardo costituiva
il terreno demaniale adiacente la città diviso in superfici che variavano da 500 a 1000
metri quadrati e veniva chiamato « sors » perché il conte, funzionario dell'imperatore
oppure rappresentante di un gastaldo, per creare un valido interesse economico dei
concittadini sul terreno immediatamente extra moenia della città, quasi a
costituire l'antemurale, sorteggiava, soprattutto in un primo tempo a beneficio degli
uomini d'arme, questi appezzamenti di terreno che essi non lavoravano direttamente,
perché non era nella tradizione germanica in genere legare la propria attività alla
produzione agricola. E per questo giudizio non dobbiamo dimenticare che tutti i popoli
germanici erano costituiti da tribù nomadi che soltanto dopo la loro calata in Italia
(568), sull'esempio della civitas romana, divennero sedentarie. Dopo
la morte dell'arcipre de Bastardis avvenuta fra il 1303 e il 1304, la sede rimase vacante.
Non essendo floride le condizioni economiche della Collegiata, per gli impegni assunti e
soltanto in parte adempiuti, era stata eretta da poco la cappella corale
vi fu molta esitazione nell'accettare il gravoso incarico. Nel
1364 Papa Urbano V, tenendo presente il disagio in cui venivano a trovarsi le popolazioni
soggette ai Nel
1370 gli uomini di Voghera chiesero al signore di Milano la revisione e il riordinamento
degli Statuti civili e criminali. Il Visconti commise a Contino de Bonamico e
a Manfredino de Alexandria di rivedere e di aggiornare, alla luce delle
interpretazioni tradizionali del diritto, le norme degli Statuti dando
la precedenza a quelli criminali. Ed
è in questo periodo che Galeazzo progetta ed attua la costruzione di un più ampio
castello in Voghera e nel 1373 ordina a Maffiolo Castiglioni podestà di dar inizio ai
lavori per l'erezione del castello secondo i disegni di Ottarello de Meda e di
Andrea de Mutina, obbligando però tutti i vogheresi a contribuire alle spese, tutti
indistintamente, gli ecclesiastici compresi: « mandamus tibi quatenus ut tortalitia ipsa
velocius fiant, omnes ad contribuendum laborerio ipsius fortalitii compellas,
rejectis cavillationibus ». E Galeazzo intendeva che si realizzasse sollecitamente
la costruzione « ad tantum fortalitium Viqueriae tali modo quod possit se
defendere a toto mundo ». Dal
volume I dei Liber Litterarum, conservati nell'Archivio storico presso la Biblioteca
Comunale, risulta che Castellino Beccarla venne deputato a ricevere le imposizioni fiscali
del clero di Voghera e di Tortona. Fra i più colpiti furono « presbiter Sinengus et
socii cum canonicis plebis Sancii Laurentii de Viqueria »; i rettori o priori delle
minori parrocchie di S. Pietro, di S. Ilario e di S. Maria di Porta Revoxella, per la
quale è indicato frater Bonifacius de Opizzonibus prior; gli ospedali, i monasteri e le
chiese suburbane e perfino i frati Gerosolimitani, frater Marcus Lanzavecchia
praeceptor sancti Joannis domus Viqueriae. Nell'anno
1375, troviamo che le tasse e le imposte comunali sono quasi raddoppiate pro capite
si che si elevarono dai parafici alcune proteste. Il Comune però giustificò
l'eccezionalità una tantum del provvedimento per le necessità di completare la
restaurazione delle mura di cinta della città e di alcune torri di guardia elevantesì
sopra di esse; anche i fossati e gli spalti dovevano essere riattivati. Alcune torri poi,
oltre che ad un restauro, necessitavano di essere rialzate. In
quell'anno l'Arciprete della Collegiata del Duomo,
monsignor Giuliano Grassi, coadiuvato dal Capitolo dei Canonici, creò un Monte di
Pietà frumentario, il cui rapporto con il beneficiante era basato soltanto, senza
cauzione, su solenne promessa di restituzione entro due anni, così che anche i più
indigenti potevano usufruire immediatamente di questa provvidenza, fatta venire
espressamente dalle terre di Sannazzaro; essa si concretava in mine quattro per ogni
componente il gruppo familiare. Dal
libro originale dell'anno 1380 ricaviamo gli estimi di ciascuna chiesa aperta
al culto in territorio del Comune di Voghera e degli ospedali funzionanti: Ospedale di S.
Bovo fiorini 6.000, per altra partita 898; Chiesa e Monastero di S. Bovo Chiesa di S.
Maria della Rossella (Priorato di S. Benedetto) 478; Chiesa di S.
Vittore 52; Chiesa di S. Giovanni in Tempio (Ospedalieri) 487; Chiesa di
S. Maria di Panigazio 230; Chiesa di S. Andrea (ministrato e
chiericato) 104; Chiesa di S. Olivetto (cappella) 20; Monastero di S. Maria Maddalena
(Benedettine) 1138; Chiesa di S. Michele (ministrato e chiericato)
158; Chiesa di S. Zeno 3; Monastero di S. Agata (Monache
domenicane) 376; Chiesa di S. Maria in Villa 98; Chiesa di S. Vincenzo (ministrato
e chiericato) 394; Chiesa di S. Ilario (ministrato e chiericato)
108; Chiesa di S. Stefano (ministrato e chiericato) 108; Chiesa e Ospedale di S.
Enrico de Viqueria 466 (questo ospedale era esente da tassa per privilegio imperiale);
Chiesa di S. Alessandria 382; Chiesa di San Intanto
il podestà rendendosi conto delle ancor pessime condizioni di alcuni tratti di mura di
cinta e di quelle di alcune torri di guardia propose ai credendari del comune di
ricostruire le tre torrette dette della « Zicognie » situate sul perimetro delle mura
a» nord-est della Porta di S. Stefano. Il che fu fatto anche con il concorso finanziario
del principe, del clero oltre a quello della popolazione che per maggior sicurezza volle
ricostruire i bastioni sul tratto che andava dalla torre di « S. Catterina » a quella di
« S. Francesco vecchio », corrispondente oggi al tratto della circonvallazione interna
che va dalla via Ricotti al lato nord della piazza San Bovo sul prolungamento della via
Calvi. Dal conto consuntivo esistente presso la Biblioteca risulta che furono impiegati
2.000.037 mattoni nuovi senza contare quelli recuperati dalla demolizione e
reimpiegati. Fu
in quella circostanza che i vogheresi per debito di riconoscenza e spontaneamente, avendo
ospite il pittore cremonese Lorenzo de' Ponzoni, che sembra stesse affrescando una sala
del castello della quale si è perduta traccia, fecero dipingere sulla Porta S. Pietro e
su quella S. Stefano, sulle facciate prospicienti la campagna, lo
stemma di Voghera sormontato dalle insegne di Gian Galeazze Visconti Il
Comune di Voghera, con la completa adesione del Capitolo del Duomo, nel maggio del 1382
mandò ambasciatore presso il principe Gian Galeazzo Visconti, che si trovava in quei
giorni a Pavia, il capitano Lorenzo Boccardi, per perorare la richiesta dei Vogheresi
intesa ad ottenere il riconoscimento del principe e la regolamentazione di una Fiera o
grande Mercato Generale. Gian
Galeazzo accolse benevolmente la richiesta e il 14 maggio concesse un diploma di
istituzione della Fiera mercato in onore di S.Bovo compatrono della nostra città. Il
diploma, pubblicato dal Manfredi, contempla tutte le norme per la disciplina di detto
mercato, riconosce ai Vogheresi il diritto di tenerlo ogni anno e, quel che più conta,
rende immuni, anche durante il viaggio, le merci che vi confluiscono o che da esso
dipartono, così che chiunque fosse stato sorpreso a rubare o a recare nocumento ai
convogli per o da Voghera, nel periodo di apertura ufficiale della Fiera, poteva essere
giustiziato all'istante, senza alcun procedimento giudiziario. Il Capitolo
dei Canonici a sua volta aveva ottenuto dal Vescovo la scomunica « ope
legis » contro chiunque avesse recato danno o molestia a detto mercato. E la
Fiera di San Bovo istituita nel 1382, sebbene in modi e con espressioni diverse da allora,
vive ancora oggi. Bisogna
arrivare verso la fine del 1388 per registrare un avvenimento che dimostra chiaramente con
quanto rispetto il Principe considerasse la sua terra di Voghera nella organizzazione di
tutta la Signoria. Durante
l'officiatura della Messa solenne (1406) al momento della Elevazione, si staccò dal
catino dell'abside un grosso calcnaccio che cadde nel coro provocando fortunatamente solo
panico fa i presenti; ma noi questo fatto dice molto di più: dice che i restauri del
tempio iniziatisi nel 1404 non erano ancora stati ultimati, e che le condizioni
architettoniche del nostro Duomo erano dunque molto precarie già in quegli anni. Un
altro periodo di pace ha inizio nel 1414, consentendo agli uomini di Voghera di trovare
con il Duca Filippo Era venuta così a costituirsi a Vogherà una scuola di mastri da muro e di mastri da legname ai quali il Duca, tramite il podestà Antoniolo di Pietrasanta, aveva affidato la manutenzione del castello, delle porte, delle mura e cosa importantissima dei mulini, compresi quelli di proprietà della Collegiata di San Lorenzo, oltre che la manutenzione dei muri e dei tetti di tutte le chiese di Voghera. Non sarebbe fuori luogo e tanto meno eccessivo considerare queste associazioni artigiane libere, non vincolate da statuti, come veri e propri paratie regolati soprattutto da norme consuetudinarie basate essenzialmente dalla perizia di tutti gli aderenti. E questo corpo di artigiani crebbe in tanta fama e bravura che i suoi mèmbri venivano richiesti anche dalle terre vicine tanto che il Duca impose loro l'obbligo di richiedere alla camera ducale il permesso preventivo per abbandonare anche temporaneamente Voghera per andare a portare il contributo della loro opera fuori della terra. Ebbe così inizio quella tradizione, specialmente per i mastri da muro (muratori) che se non raggiunse la fama di quella dei Maestri Comacini del secolo X, tuttavia è certamente durata più a lungo, cioè fino ai giorni nostri, perché ancor oggi sono considerati muratori provetti quelli che si [o sono formati nella tradizione vogherese. Avevano l'assistenza di un canonico del Duomo, festeggiavano in chiesa i loro santi protettori, facevano celebrare messe di suffragio per le anime dei compagni defunti e, nel primo altare del Duomo, a cornu Evangeli, era perennemente accesa una lampada votiva. Anche dopo la costruzione del nuovo Duomo nel 1620, che è l'attuale, queste associazioni artigiane continuarono le antiche consuetudine, offrendosi verso la fine del secolo XVII come mano d'opera quasi gratuita, pur di vedere il loro duomo ultimato anche nella maestosa facciata. Bisognerà arrivare fino al 1875 per vedere realizzata questa importante opera architettonica. In
quello stesso anno per iniziativa del Comune,
dell'Arciprete e di tutto il Capitolo venne acquistato dall'Ingegnerio Filippino de
Organis » di Milano un grande orologio che venne collocato sopra il campanile del Duomo.
Questo orologio, che richiamò in Voghera tutto il contado che veniva a vederlo,
iniziò il battito delle ore sulla campana alle
12 del giorno dei Santi del 1416, davanti ad una folla eccezionale che
gremiva la piazza. E le cronache del tempo ci dicono che fu un avvenimento di grande
suggestività quando al « Gloria » suonarono
solenni i dodici rintocchi. Celebrò la Santa Messa sulla piazza
l'arciprete Fiorello Balduini, assistito da tutto il
Capitolo e dai monaci dei conventi cittadini. STORIA DELLE RELIQUIE DI SAN BOVO Le reliquie rappresentano
per eccellenza la continuità di un culto. Esse sopravvivono ai loro contenitori (arche,
teche) sostituibili senza pregiudizio e il loro potere di animazione, oltre a sostenere il
quotidiano rituale, contribuisce ad unaltra manifestazione della continuità e della
memoria, quella formata da episodi straordinari innervanti la tradizione, come
traslazioni, ricognizioni, dediche di edifici sacri, cerimonie speciali e altro
così Antonio Ivan Pini definisce le reliquie, testimonianza vera o simbolica della vita
di un Santo. I resti mortali di
San Bovo sono stati oggetto di venerazione e come in casi analoghi la traslazione delle
reliquie ha seguito i percorsi più impensati essendo nel corso dei secoli più volte
traslate a causa di guerre o per la rovina dei luoghi di custodia. La prima sepoltura del
corpo, avvenne nel 986 sul margine meridionale della strada romea, nel sobborgo fuori
porta San Pietro, dove in seguito sorse una chiesa (1) a lui dedicata. Non
più tardi del principio del 1200 il suo corpo venne spostato a Pavia e come si legge nei documenti del tempo (2) allinterno del
monastero di Sant Apollinare fuori Porta Palazzo, dove vi era un convento di monaci
benedettini. Lipotesi più accreditata è che la traslazione sia avvenuta nel 1212
durante la guerra tra limperatore Ottone IV e Federico II, e che i monaci
benedettini di Voghera abbiano deciso di trasportare il corpo a Pavia, perché fortificata
e sicura e per la presenza di un monastero del loro stesso ordine religioso, che dopo la
fine delle ostilità avrebbe restituito il corpo senza problemi. Ma il destino volle che
la guerra non finisse in breve tempo e che la città di Voghera non fosse più pronta ad
accogliere il corpo, per via delle pestilenze della metà del 1300. Voghera si risollevò solo
verso il 1436 durante il protettorato di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, che
assieme alla sua illuminata moglie Luchina di Carmagnola creò una splendida e famosa
corte e fece costruire chiese ed opere pie. La restituzione del corpo avvenne per linteressamento
dellarciprete di San Lorenzo, Guglielmo de Mangiarinis, che resse la parrocchia dal
1447 al 1469. Notizie documentarie affermano che il 22 febbraio 1469 le sacre reliquie
furono tolte dalla cassa che le conteneva e poste in unurna alla presenza del clero
e delle autorità civili. Un anno dopo, nel 1470, lurna fu richiusa in un sarcofago
sullaltare della chiesa a lui dedicata nel borgo di Porta San Pietro, come
attesta un atto notarile del tempo. Di questa traslazione rimane una testimonianza epigrafica (3) ora affissa nel
pronao del Duomo assieme ai resti dellarca che conteneva il corpo. Durante la
deposizione venne staccato dallo scheletro un frammento del braccio, e posto in un reliquiario di pregiata fattura (4). In seguito, il 7
novembre del 1522, le reliquie furono trasportate dalla chiesa di San Bovo alla sacrestia
del Duomo di San Lorenzo, probabilmente a causa della guerra tra Francia e Spagna,
conflitto sorto per il predominio in Italia e che durò per oltre 50 anni. Nel 1523
con lassedio dei francesi alle porte le reliquie furono trasportate per la seconda
volta a Pavia nella chiesa di Sant Apollinare passata nel frattempo allordine
dei Domenicani. Il corpo di San Bovo vi rimase solo tre anni perché assediata anche
questa città la chiesa fu rasa al suolo. Furono allora trasportate, sempre in Pavia,
in altra chiesa dellordine domenicano, San Tomaso. Il peregrinare delle
spoglie non ebbe però ancora fine, poco tempo dopo furono trasferite a causa di lavori
urgenti di restauro nella chiesa di Santa Caterina da Siena, altro monastero di suore domenicane (5), dove rimasero fino a
quando il monastero non fu chiuso nel 1798. Come attesta un atto della Cancelleria
Vescovile di Pavia del 22 maggio 1799 le reliquie passarono alla chiesa di San Giovanni in
Borgo. Nel 1802 fu tolta una vertebra dal corpo custodito in quel luogo ed inviata a Lodi
che ne aveva fatta richiesta. Il 20 agosto 1805 si assistette ad un ulteriore cambio di
sede, questa volta nella chiesa di San Luca, sempre a Pavia. Il corpo di San Bovo è
ritornato a Voghera solo il 14 novembre 1954. NOTE: (1) La
chiesa di S. Bovo di Borgo San Pietro è documentata dal 1119, ricostruita nel 1593
dai cappuccini e nuovamente riedificata tra il 1715 e il 1717. In questa chiesa era posta
larca di S. Bovo fatta costruire nel 1470, arca che scomposta nel 1593 fu collocata
dal 1810 nel muro di cinta, in quellanno infatti fu distrutto il convento e
trasformato in una casa privata, i resti dellarca furono poi trasportati nel 1921
nel pronao del Duomo di Voghera. (2)
Testimonianze letterarie della presenza del corpo di Bovo a Pavia si trova in
G.Boni-R.Maiocchi, Il catalogo Rodobaldino dei corpi santi di Pavia, Pavia, 1901 e in
Anonimo ticinese, Libellus de descriptione Papie, 1330. (3) Liscrizione:
HIC IACVIT CORPUS ET MEMBRA SANCTI BOBONIS DE VIQUERIA POXITA IN PRESENTI ARCHA NOVA 1470
DIE ULTIMO APRILIS INVENTIO MEMBROR.DICTI SANCTI BOBONIS VIQUERIE IN PRESENTIECLEXIA 1469
DIEXXII FEBRAUARI DON BERNARDUS BALDIZZNUS IN PRESENTI MONASTERIO PRIMUS ABBAS HOC OPUS
FIERI FECIT ANNO (4) La
ricognizione di questa reliquia avvenne il 21 maggio 1703, sulla cassetta che contiene la
particella dello scheletro vi è la seguente iscrizione: INVENTIO S.BOBONIS VIQUERIAE
1469. 22 FEBRUARII HOC EST BRCHIUM EIUSDEM SANCTI BOBONIS ANNO SUPRASCRIPTO. (5) Nel
1640 nacque anche una lite per il possesso delle reliquie di S. Bovo tra i due monasteri
delle domenicane e i PP. domenicani che volevano riaverle indietro, ma questi non
riuscirono nel loro intento. CENNI SUL DUOMO L'attuale Duomo di San
Lorenzo sorge sul sito dell'antica chiesa pievana, ma fu ricostruito a partire dal 1605 su
progetto di Antonio Maria Corbetta. L'organo da concerto venne
realizzato dai Serassi nel 1833, ampliato a ben duemila canne, e restaurato nel 1902 e
ancora nel 1968. Il tesoro del Duomo conserva arredi e libri con miniature di pregio del
XV secolo, mentre il reliquiario d'argento dorato del 1406, chiamato ostensorio Gotico,
sarà venduto nel 1915 ai musei del castello di Milano, per pagare le le decorazioni
interne. La parte inferiore del campanile appartenne alla chiesa più antica; numerosi
interventi di restauro e solidamente delle strutture sono stati realizzati a partire dal
1820. Nel 1954, provenienti dalla chiesa pavese di Sant'Apollinare dove si trovavano dal
1523, vennero deposte sotto l'altare maggiore, raccolte in un'urna di bronzo, le reliquie
di San Bovo. |
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