Storia di Voghera e del suo Duomo

 

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Cenni storici su Voghera e il Duomo

 Quando il console P. Postumio Albino tracciò nel 147 a. C. la via che "da lui prese il nome di Postumia (mentre erroneamente fra il tratto Serravalle - Piacenza si continua a chiamarla Via Emilia)  dovendo  congiungere  i  possedimenti di   Derthona  (Tortona)  con  Clastidium  (Casteggio),  pur   di evitare  di  seguire  l'ansa collinare che con ampio sviluppo   delimita a sud il nostro agro, preferì gettarsi  nella  acquitrinosa   pianura  e  con due segmenti rettilinei rendere più sollecito  il   già  difficile  itinerario.

Si tenga presente che in quella zona montana le popolazioni non erano state ancora del tutto domate dalla violenta penetrazione romana e la toro ostilità avrebbe potuto rendere più   difficile il transito su un tracciato pedemontano. Naluralmente i tecnici militari che a nome del console decisero la scelta di questa  soluzione  tennero   certamente  pre sente la comunità umana di Vicus Iriae  (Voghera)   che  doveva  contare  allora una popolazione non superiore alle duemila unità, ma certamente, non inferiore alle millecinquecento. Che per quei tem pi era già un agglomerato importante, distribuito, come vedremo più  avanti, su sei   isole, territoriali  nettamente  distinte  tra  loro,  ma   collegate  da  comune  interesse economico. Per renderci esatto conto del fenomeno non molto comune di un insediamento in pianura paludosa, anziché sulle pendici  delle vicine colline, dobbiamo  richiamarci  alla   particolare ed eccezionale condizione morfologica del terreno  del   nostro  agro,  che  consentì alle tarde  espansioni,   passate dalla vita nomade a quella stabile,  di scegliere questo luogo quale dimora. Ebbene, tutta la fascia che va dalla parte sud, pressappoco  all'altezza   di  Pontecurone, fino a Genestrello, era costituita da un insieme di ampi mammelloni, di quota variante fra i dieci e i quindici metri, distinti fra loro  da   una vasta  ed intricata rete di vallette nelle quali per lungo  periodo   dell'anno  ristagnavano  le acque, o cadute dal ciclo o rigurgitanti per le facili frequenti alluvioni per la presenza di corsi d'acqua non disciplinati da difese marginali.

Se in un primo momento questa situazione può apparire come un aspetto negativo ai fini di una vita in comune igienicamente  organizzata,  in  quei  tempi costituiva  soprattutto  una  buona  difesa  da pericoli esterni, proprio perché queste  acque  stagnanti  in  un  Inestricabile dedalo  di  piccole  valli,  erano difficilmente superabili da chi venendo dall'esterno non conosceva la topografia del luogo.  Quindi  un   paesaggio  desolante nelle sconfinate depressioni, a cui faceva  da contrasto  la  spontanea  ubertosità  della parte alta di queste dorsali tondeggianti. Se le condizioni d'ambiente in rapporto a quelle morfologiche non erano eccellenti, in compenso c'era un terreno coltivabile la cui feracità è ancor oggi un fatto  concreto:  e  poi  i  corsi  d'acqua a regime torrentizio, defluenti dal monte con  rapida  corsa  travolgente,   spazzavano, tutto ciò une incontravano sul proprio cammino ripulendo cosi le valli e nel tempo stesso operando con la massa  dei  detriti ghiaiosi  colmate ancor oggi  controllabili nella loro  entità. E poi c'erano le selve ampie, intricate e sconosciute,  che anticipavano a nord fra la sponda destra del Po e Vicus Iriae quella fascia silvana  quasi insuperabile oltre la quale, al di là del grande fiume, era  la  Gallia  affascinante  e  misteriosa.

Questa la premessa indispensabile per illustrare al lettore, come in programma, l'ubicazione del nostro Duomo.

 

Il prof. Pietro Falciola redasse  una  carta  topografica  vogherese con quotazione nel 1932. Si è così potuto verificare che la zona del castello - sede del primo «castrum» romano - è limitata dalla via Cavagna, da un tratto di via   Cairoli fino a via  Garibaldi, da via  Garibaldi  fino  a   via  Cavour  e  da piazza del Duomo fino a via Cavagna, si trovava su un'altura di terreno vergine, mentre il palazzo municipale è circondato da uno strato di terreno di riporto dello  spessore  di  circa  dodici  metri. Fu in quel  tempo  compiuto un  assaggio sul fianco nord del Duomo ed un altro sul fianco sud; e si potè constatare che il tempio era invece costruito su terreno vergine.

Allora la considerazione che ne deriva è semplice ed elementare: il Duomo, che sorge   sull'antico  tempio,  era  stato  costruito su zona non franosa, dove potessero essere ottimamente ancorate le fondamenta. La mancanza di una disciplina delle acque consentì nei secoli passati  lo straripamento  dello   Staffora  che per il suo rapido corso a regime torrentizio  rotolò   nelle  vallette  della  nostra pianura materiale argilloso frammisto a calcare,  operando  così  le  colmate  che grosso modo davano alla zona l'aspetto di una pianura a banco originale.

Ma perché proprio lì è sorto il massimo tempio? Perché è ormai risaputo che dove nell'accampamento romano si  incrociavano il cardo e il decumano – le due vie principali dell'insediamento stesso - lì sorgeva il pretorio, che per la sua posizione  centrale  venne  successivamente  sostituito  dal  tempio   cristiano.  Ora, nella forma  urbis  di  Iria il cardo   era rappresentato  dalla  attuale  via  Cavour che, prolungata attraverso la piazza, continua con la via Plana e il decumano dalla via di Postumia (ora via Emilia) che attraversava la città da Porta Rossella a Porto San Pietro cioè pressappoco da ponente a levante. Si tenga presente  che la via  Emilia   allora  non  si snodava serpeggiante come oggi la vediamo, ma diritta rasentava il Duomo e  correva verso la via Ponte Vecchio per guadare lo Staffora. Le testimonianze del ponte romano sono tuttora visibili.

Ecco dunque che l'antica pieve occupò il posto del pretorio romano.

Per avviare il discorso storico sul nostro Tempio, ci è sembrato più facile partire   dalle  notizie  documentate  che con il loro svolgersi hanno intessuto le prime maglie delle vicende esterne del nostro Duomo; cioè la scelta del luogo e  la sua  costruzione. Ma c'è  una parte ben più importante: la storia spirituale del nostro massimo Tempio.

L'Ecclesia è prima della  costruzione, è la condizione necessaria ed indispensabile perché il tempio sorga come testimonianza di fede, come documento di glorificazione e di gioia per la rivelazione della verità avuta dai primi predicatori  evangelici.  Sappiamo che fra questi primi annunciatori della «buona novella» ci fu San Siro, inviato dall'apostolo Pietro a convertire le popolazioni ticinesi  e che fu perciò  il primo protovescovo della  Diocesi  di  Ticinum  (Pavia).  Sulle orme di Siro,  altri vennero da noi e fra questi, Marziano.  Egli fondò la Pieve di Tortona e fu protovescovo della stessa diocesi per oltre quarant'anni.

La   «plebs»  vogherese fece subito parte della Diocesi tortonese, e anzi di questa fu certamente la parte più importante. Nei primi tempi della Chiesa vogherese era protovescovo della Diocesi di  Tortona Marziano,  che  dopo il martirio, venne elevato agli altari. Il canonico Manfredi, nella sua «Storia di  Voghera»,   tenendo valida la testimonianza data dai vogheresi per la  venerazione   dell'evangelista  Luca sostiene, con molte probabilità di essere nel vero, che lo stesso è venuto a predicare fra noi, mentre proprio per  mancanza di documentazione scritta gli storici invece accettano come vera e sicura la presenza di altri annunciatori del Vangelo qui da noi, quali ad esempio San Barnaba, che lo diffuse con una attività che ha del prodigioso, perché in breve tempo evangelizzò tutte le genti liguri stanziate da secoli nella Valle padana; anche  San Calimero, vescovo di Milano, collaborò alla diffusione del Cristianesimo ripercorrendo in gran parte gli itinerari pastorali di San Barnaba

Eppure, fra le molte difficoltà, si   gettarono  le  basi degli ordinamenti ecclesiastici e il Cattolicesimo, sia pure durante i primi feroci secoli barbarici, si sviluppò a tale punto da influire decisamente sulla formazione del Clero e delle gerarchie della nostra Chiesa, prima e dopo che fosse aggregata alla Diocesi di Tortona.

E questo stato di cose contribuì  decisamente anche  alla  formazione morale ed intellettuale dei nostri primitivi credenti. Da piccoli  gruppi  costituiti    nel  nostro  Agro e sparsi nei vici, nei luoghi, nelle terre   collegandosi fra  loro avvertirono la necessità di sostenere la propagazione della fede anche con opere che fornissero i mezzi necessari  per raggiungere l'alto   fine.  Cominciarono  così  le feconde prestazioni e le durature donazioni  di  beni  immobiliari i «fondi ecclesiastici», amministrati    dal   vescovo.  Furono  queste   le fonti,   in  continuo  sviluppo,  della beneficenza e della carità, secondo il concetto cristiano, del tutto sconosciuto alla precedente società pagana. Cominciò proprio da quel momento l'azione socialmente provvidenziale della Chiesa che da mediatrice fra Cielo e terra si fece provvida e idonea nel sanare i mali dello spirito e quelli i del corpo.

La Chiesa  vogherese  entra  ufficialmente  nella storia in un documento del 913  di Berengario I re d'Italia, che  è  un  privilegio, dato alla nostra Chiesa, i cui termini notarili presuppongono una istituzione religiosa non solo in essere, ma largamente operante. Il   periodo   di    Berengario,  dopo le prime reazioni da parte  di bande  di Ungari  che ancora seminavano  terrore nelle  nostre  terre,  fu   una  parentesi  di pace e di tranquillità e lo stesso re si preoccupò di riparare i danni arrecati dalla  guerra,  concedendo  donazioni   alle chiese, che si erano depauperate  di beni per  provvedere  alle   popolazioni  bisognose. La vicina Corana, che allora faceva parte  del Comitato Regio, ospitò Berengario I il quale, accogliendo l'istanza di Beato, vescovo di Tortona, presentata  da  Giovanni  Vescovo  di  Pavia  e da   Luitardo  vescovo  di  Como  che  la sostennero con validi argomenti a dimostrazione  dei  notevolissimi  danni recati alla   pievana  chiesa  matrice  di  S.  Lorenzo dagli Ungari, concesse ai canonici della  Collegiata il  teloneo  o  diritto di imporre e riscuotere gabelle dalla popolazione;  concesse la  delimitazione   territoriale  del  distretto di  giurisdizione  e riconfermò   tutte  quelle  pubbliche  funzioni  di cui era stata investita la pieve di S. Lorenzo;  inoltre - e questa fu cosa importantissima - acconsentì allo stesso capitolo  di costruire  un canale  sul terreno regio per derivare le acque dallo Stafferà per azionare mulini che dovevano essere costruiti su di esso, facendo al capitolo donazione delle acque e proibendo a chiunque di usare di tale privilegio  senza  preventiva  licenza  del vescovo di Tortona e dei suoi successori   si  aggiungeva  infine  anche  il permesso di tagliare con il costruendo canale la pubblica strada.

Venne scavato così quel Cavo Lagozzo che,  derivando  le  acque  dallo   Stafora  all'altezza  di  Rivanazzano,  entra in  città   dalla  parte  di  levante  e  tutta  l’attraversa percorrendo il tratto del Castello,  scorrendo  sotto  la  via   Cavour  e il  vicolo  Toma,  quindi  in  parallelo   a  via Bidone fino alla via Emilia per raggiungere poi Via Cavallotti e immettersi nella  via  Veneto,  volgendo  infine  verso Medassino e guadagnando lo Staffora nei pressi della confluenza con il Po.

Durante questo percorso il Cavo Lagozzo, tuttora esistente ricoperto; faceva funzionare ben cinque mulini: quello di S. Maria (nei pressi dell'ospedale psichiatrico), quello di S. Michele (nei pressi di via Carena), quello di via Castellario (oggi via Gabella), quello detto di Berengario (si noti il valore storico del toponimo) sito di fianco all'ex Palazzo Morosetti di via Emilia, e il mulino Lenti  al  termine  della  via   Cavallotti, mentre un ramo, che si staccava all'altezza di via  Garibaldi all'incrocio con via Mazzini, la percorreva tutta allo scoperto fino a via Emilia; poi, da via Emilia a via Plana era coperto e riafiorava, sempre in via Plana, mettendo in funzione altri otto  mulini o macine  da gualdo, erba  tintoria  largamente   coltivata nel nostro territorio.

Con ciò crebbe l'importanza del capitolo  dei  canonici  nei rapporti   con la città, aumentando anche il prestìgio della Pieve di S. Lorenzo.

La   Chiesa  matrice archipresbiteriale  di Voghera è pieve ossia parrocchia battesimale tra le più antiche della Diocesi di Tortona, sotto l'invocazione di S. Lorenzo Martire .

Pietro Falciola nel compilare la «Cronotassi degli arcipreti  della Insigne Collegiata Parrocchiale di San Lorenzo Martire in Voghera» annota che il primo    di     questi     arcipreti    è  un certo Oberto del quale parla il  canonico  Giuseppe  Manfredi    nella  sua   «Storia  di  Voghera».   La notizia intorno a questo personaggio è breve e laconica, perchè è desunta da un documento indiretto di natura giuridica relativo ad una sentenza di placito straordinario che porta la data del  1105.

Il    Manfredi,  dice  testualmente dello stesso sacerdote (chiamato con altro nome): «Liberto da Voghera era arciprete della  Collegiata  e   dell'ampio distretto pievano  in sul cominciare del sec. XII. Fu valentissimo nella giurisprudenza canonica; a tale carica venne prescelto a difendere le ragioni di Lucia badessa del monastero del senatore di Pavia contro un'altra badessa intrusa, chiamata Otta, la quale venne deposta» nell'anno 1105 per ordine di papa Pasquale II a ratifica della decisione del placito pavese.  Non si tratta di Liberto, ma di Oberto appartenente ai  Malaspina Obertenghi.

Nonostante   l'attività  missionaria  svolta dalla Pieve di  S.  Lorenzo di Voghera, si può dire che intorno ad essa il silenzio si fa sempre più rigoroso e solo casualmente, affiora nella documentazione d'archivio.                         

La tabella 362 dell'Archivio Diplomatico ci fa, conoscere un Diploma dell'imperatore Ottone III del 20 novembre 1001 con il quale riceve sotto il  suo  “mundiburdio”   o  protezione  il Diacono della Pieve di S. Lorenzo di Voghera, Bemardo, con il fratello di  lui Pietro detto Amizzone.

Successivamente nel 1045 in un Diploma del Vescovo di Tortona Rambaldo risulta che Viqueria è situata nel contado di Tortona; e in un breve di papa Adriano IV dell'anno 1157 si  conferma che Voghera, Montesegale, S.  Gaudenzio e la corte di Cervesina sono sottoposte alla giurisdizione del Vescovo di Tortona, mentre nel 1161 la bolla di papa Alessandro III riconosce detti luoghi, con la riserva del consenso del Vescovo, sono stati venduti dalla città di Tortona ai pavesi così che l'imperatore Federico Bararossa nel 1164 dichiarò che Voghera faceva parte del Comitato imperiale.

Durante il 1207 perdurava ancora una lite iniziata vent'anni prima fra le  monache del   Senatore  ed  Opizzone vescovo di Tortona per la Chiesa di S. Ilario. Ed essendosi l'arciprete di Voghera irrigidito sui diritti  che  egli   pretendeva  avere  su  detta chiesa,  la causa fu rimessa dapprima al Vescovo di Vercelli, poi all'Arcivescovo di Pisa e infine nel 1209 a Guglielmo   di  Rondinario,  entrambi dell'ordine degli Umiliati; i quali il 1 dicembre dello stesso anno senteniarono, in contumacia del Vescovo di Tortona e dell'Arciprete di S. Lorenzo di Voghera «predictam Ecciesiami S. Ilarii veterem quasi Parochiam sevciniam» e che non dovessero proibire ai parrocchiani di  frequentare   detta chiesa e di eleggervi la sepoltura.

La sentenza fu data a Como «in Cimiate Comana in Claustro S. Mariae Majoris». Intervenne Robaldo arcidiacono di Pavia Delegato Apostolico per porre fine alla controversia fra il Rettore di S. Ilario, il Vescovo di Tortona e l'Arciprete di Voghera; e dopo qualche trattativa nel febbraio 1210 la vertenza ebbe fine.

Ma a darci una visione più eloquente della importanza assunta dalla Collegiata di  S. Lorenzo, ecco  affiorare dalle  carte  dell'Archivio del  Duomo un codice membranaceo datato 27 ottobre 1302 dal quale risultano descritti i beni immobiliari di proprietà della Collegiata di S. Lorenzo. Si tratta di un codice di cm. 32 x 23; fasciato   da  una   copertina   tratta   da una bolla pontificia, con vaste abrasioni sulla scrittura. Il fascicoletto membranaceo è composto da: un quaderno  più un quinterno più un quaderno e contiene la descrizione della proprietà immobiliare della Collegiata di S.  Lorenzo   distribuita  in  tre  porte sulle cinque in cui era divisa Voghera. E precisamente: 77 fondi nel territorio di  Porta  Rossella;  57 in   quello  di Porta Pareto e 9 in quello di Porta S. Pietro. L'imponenza delle cifre dimostra subito quanto fosse già tanto importante in quegli anni la nostra Pieve. Inoltre, per notizie riguardanti l'antico ospedale di S. Enrico, adiacente l'attuale chiesa di S. Rocco, valgono le notizie contenute nello stesso codice e indicate   dalla  seguente  scrittura,  di mano del sec. XVIII, sulla risguarda della copertina: “Consignatio ticinorum immòbilium de quibus dat Ecclesiae aut Sacristiae S. Laurentii Viqueriae fictum,  vel decima etc. Et hic reperiuntur   instrumenta anno 1288  attinentia ad hospitale S. Henricì. Viqueriae”.

 A succedere alla magistratura plurima del consolato, durata da noi fino alle soglie del secolo XIII, viene chiamato a reggere in ufficio unico il Podestà che i documenti talvolta distinguono con il nome di «rector civitatis». A Voghera il Podestà appare nell'anno 1217 nella persona di Alberto di Canevanova, cioè in epoca in cui l'istituto è ormai radicato nella costituzione del comune.

Il podestà non poteva scostarsi dal  disposto  degli  Statuti. Era il supremo organo esecutivo del Comune, lo rappresentava nelle relazioni con altre città, comandava l'esercito cittadino, ma la sua funzione principale fu quella giudiziaria, esercitata direttamente o delegata a giudici di sua fiducia. Allo scadere del mandato, doveva risiedere in città senza scorta di armati e senza le prerogative della sua incolumità. Ciò per consentire al Consiglio di esercitare, attraverso un rappresentante,   l'ufficio di sindacato sull'operato del Podestà.

Voghera, Comune misto perché costituito da una popolazione mista  artigiana e rurale,   cadde sotto l'influenza diretta dei Beccaria i quali, con alterna fortuna spadroneggiarono nell'Oltrepò per oltre un secolo, cioè fino alla sconfitta e alla distruzione totale operata in Casei dal conte di  Carmagnola, nel 1418 per ordine del duca Filippo Maria Visconti.

Voghera però non fu mai teatro di scontri sanguinosi fra i diversi Comuni del suo agro. La condizione di borgo di pianura, munito di un castello e  da una sola cerchia  di   mura, con fossato, non le permisero una scalata importante nella lotta fra i Comuni territorialmente compresi fra il Po e il Tanaro.

La Chiesa vogherese poi, intese sempre di rimanere fedele alle direttive del Vescovo di Tortona il quale potè contare moltissimo nell'appoggio del Capitolo della   Collegiata  di  San  Lorenzo  di  Voghera.  Gli Statuti  del nostro  borgo, le disposizioni fiscali e le deliberazioni del Consiglio di Credenza, dimostrano con evidenza che Voghera profondamente cattolica   intendeva  darsi  delle  norme  che non fossero in contrasto con le direttive del proprio Presule e, quando i pavesi tentarono di penetrare in Voghera attraverso la cittadella dell'economia, offrendo agli stessi artigiani vogheresi il privilegio di entrare a far parte dei loro patronati e  delle  loro   corporazioni, il  clero vogherese  si  oppose  decisamente   ricordando che non si doveva in alcun modo uscire dalle  «grafie  di San Marthiano».

In verità solo verso la metà del secolo XIV, con l'avvento .dei Visconti di Milano e in Pavia, Voghera allaccerà rapporti  economici  che  la   trasformeranno, in breve volger di tempo, in terra ambita  dai  Visconti e privilegiata per la sua posizione di confine contro le mire territoriali del Marchese   di Monferrato.

Apprendiamo dagli istrumenti capitolari del 13 luglio 1283 come il vescovo Melchiorre  Bussetti   era  tenuto  dai Vogheresi in altissima considerazione proprio perché il presule aveva dimostrato in più occasioni di avere a cuore le condizioni generali e particolari del Comune sia nel campo della vita economica che in quello della vita morale, tanto che gli uomini di Voghera quasi presaghi della benignità  del futuro  che   avrebbe consentito ai posteri di apprendere la loro gratitudine, non trascurarono di celebrarlo in atti notarili, che ancor oggi ci narrano di quei lontani tempi.

 L'Arciprete e i Canonici di San Lorenzo, radunatisi nei chiostri canonicali, procedettero alla elezione del rettore di S. Pietro d'Altomasso scelto nella persona del sacerdote Giacomo Negri e di quello di S. Maria di Calvenzana, nel sacerdote Girardo de Castine; con rito solenne l'arciprete e i canonici delegati misero i rettori in possesso formale delle chiese suddette mentre una grande folla di fedeli venuti da ogni parte della parrocchia dava alla cerimonia l'importanza di un grande avvenimento.

 Ma v'é di più. All'arciprete del nostro Duomo era concesso il diritto  di   investitura  per i parroci minori ai quali conferiva la giurisdizione tenendo in dito l'anello e in mano il bastone pastorale: per lignum quod sua manu tenebat praesbiterum Gyrardum in ministrum et rectorem Ecclesiae S. Mariae de Calventiana plebatus Viqueriae et ad honorem S. Laurentii et Episcopi Melchioris Terdonensis.

 Questa facoltà di libera nomina e scelta dei parroci nella giurisdizione della Collegiata di S. Lorenzo conferiva alla Chiesa matrice vogherese un prestigio di alto valore si che, dopo il vescovo, nella Diocesi tortonese di S. Marziano la più alta autorità ecclesiastica era rappresentata dall'arciprete di Voghera che con il Capitolo di cui egli rappresentava la collegiale autorità, amministrava con una certa autonomia l'ampia giurisdizione della Chiesa dell'antico agro  vogherese.

Uno degli istituti più importanti dipendenti dal Collegio dei Canonici di S. Lorenzo, era senza dubbio l'ospedale di S. Enrico, che aveva sede nella via omonima (ora Bellocchio), la cui entrata principale, era sul sagrato della Chiesa di S. Rocco, e che architettonicamente mai conservata è stata abbattuta nel 1936. L'ospedale aveva la capacità di ben sessanta posti letto ed era amministrato, dai Padri Benedettini, ed oltre a possedere funzionante un “Monte di pietà Frumentario”, possedeva dei beni immobili nel territorio del Comune, con un reddito considerevole di circa 800 sacchi di grano di mine cinque, per ogni anno e circa tremila brente di vino comprendendo anche quello di qualità inferiore che veniva distribuito gratuitamente e giornalmente ai poveri.

Tuttavia l'amministrazione di questo importante complesso  ospedaliero,  per quei tempi considerevolissimo, era condotta in modo irrazionale, spesse volte caotica, comunque semplicisticamente, e non sufficientemente controllabile dal punto di vista contabile, per questo il 16 agosto del 1288 l'Arciprete del Duomo chiamò il rettore responsabile dell'ospedale del Salvatore, “cui dicitur Hospitale Sancti Henrici de Viqueria”, che si recò solennemente in Duomo accompagnato dai frati Giovanni Vacca, Lantelmo de Migliavacca e Jacopo de Rè, e vi furono ricevuti da monsignor arciprete Berengario Torti presente tutto il Capitolo dei  canonici, compresi i rettori delle chiese dipendenti i canonici Isopo, Enrico, Facino della Curte e Rainero de Mirabelle. L'arciprete presentò uno schema di statuto relativo alla buona amministrazione dell'ospedale con norme che consentivano un adeguato controllo su tutta l'attività. I frati prima di procedere alla nomina dei Rettori desideravano avere norme scritte e ben definite, così che venne stabilito che ogni nomina di rettore doveva essere convalidata  dall'Arciprete nelle cui mani il nuovo eletto avrebbe prestato  giuramento.  In più dovevano essere elencati con atto pubblico tutti i beni patrimoniali dell'ospedale, i beni immobili e le terre situate fuori le mura, i canoni, le case, e consegnare copia all'Arciprete ed al Capitolo nel termine di un mese; con questo atto notarile si voleva dare all'Arciprete e al Capitolo  la corresponsabilità del patrimonio dell'ospedale e consentire un intervento sul modo di amministrarlo; che il nuovo rettore fosse costretto a descrivere in un libro le rendite presenti e quelle presumibili nell'anno successivo, e a rendere conto ogni mese dell'amministrazione ai confratelli della comunità religiosa, giustificando particolareggiatamente le entrate e le uscite; ed “ita statuerunt concorditer debere attendi per ministrum futurum”.

Fra i testimoni presenti a questo importante atto di potestà giuridica della Chiesa vogherese vi fu anche Frater Mangfredus appartenente  all'Ordine  Benedettino,   “prior sanctae Mariae de Revoxella”, che, per la sua importanza di antichità e di patrimonio immobiliare, dopo la Collegiata di S. Lorenzo, era la chiesa più importante in quel tempo (1288). Il Capitolo, presenti l'anzidetto priore e il notaio Johannes Bubulcus, sanzionava solennemente la sua autorità su tutte le chiese del pievanato vogherese e per dimostrarlo senza alcuna contestazione confermava la nomina di frate Enricus Asenellus a rettore dell'Ospedale del Salvatore, più noto ai Vogheresi sotto la invocazione di S. Enrico e lo investiva anche a nome del Capitolo di tutti i poteri necessari per esercitare la buona amministrazione di detto ospedale, e per dettare regole di disciplina per i frati conversi che, in servizio presso l'Ospedale, sarebbero stati suoi collaboratori.

Dopo la lettura degli Statuti normativi che articolavano tutta la materia   giuridico-amministrativa  dell'istituto ospitaliero, il nuovo eletto prestò subito solenne giuramento nelle mani dell'arciprete e dei Canonici, e si impegnò di riconoscere con obbedienza l'autorità dell'Arciprete e del Capitolo della pieve di San Lorenzo, di non far cosa che potesse ledere gli interessi spirituali e materiali del clero locale e soprattutto  di  adeguare  l'ospitalità degli ammalati in rapporto alla rendita che una onesta e rigorosa amministrazione poteva ricavare dai beni patrimoniali dell'ospedale e inoltre, di prendere tutte quelle iniziative che potessero portare consolazione ai poveri; e di non contrarre debiti “per chartain a solidis centum super Papiae “ senza la preventiva autorizzazione dell'arciprete e del Capitolo; ed infine di osservare in ogni parte le disposizioni previste dallo Statuto. Nel medesimo giorno il Capitolo delegò con speciale procura il canonico Isopo per porre frate Asenellus in possesso dell'Ospedale e dei suoi relativi beni, cosa che avvenne subito dopo.

In ogni atto ufficiale della Pieve vogherese troviamo sempre presenti l'arciprete e il Capitolo dei canonici, i quali alla unanimità deliberavano il loro comportamento nelle varie questioni concernenti la vita ecclesiastica. Ma, dopo qualche tempo, poco meno di un cinquantennio, troviamo arciprete e Capitolo attori e promotori di azioni relative alla vita sociale della comunità: concessione in affitto dei mulini azionati dalle acque del cavo Lagozzo, affitti a lunga scadenza  della proprietà terriera, specialmente di quella irrigua che costituiva l'agro a ponente delle mura cittadine, fondazione di ospedali e di Monti di pietà frumentari; tutto ciò in servizio di Dio e per il bene delle classi povere, spesso indifese e angariate che costituivano il sottofondo umano di una società stagnante entro l'angusto spazio di una città munita, situata in una pianura spesso attraversata da eserciti in guerra che ostacolavano fortemente un insediamento “extra moenia”, riducendo la vita e l'attività della comunità vogherese a semplici espressioni artigianali senza mai che alcuni dei suoi componenti potessero, attraverso la conquista della ricchezza terriera, entrare a far parte di una classe superiore per esercitarvi il potere politico ed economico. I curiali, che  nell'agro vogherese erano proprietari di latifondi, vivevano lontano da Voghera in centri maggiori dove il reddito delle terre « culte » della provincia consentiva loro di accedere, nei luoghi di residenza, alle più alte magistrature cittadine.  

L'acquisizione di autorità dell'arciprete della Chiesa Collegiata di S. Lorenzo su tutto il clero del pievanato concessagli, non  solo  perdurò  nel tempo, ma andò rafforzandosi a tal punto che l'autorità ecclesiastica locale si era  venuta   concentrando quasi tutta nelle sue mani. Egli poteva fra l'altro esercitare la censura sulle attività dei parroci del nostro agro compreso nel vasto territorio del Comune. Due documenti redatti nella Sede capitolare, il primo del 1296 e il secondo del 1297, confermano la nostra affermazione:

“Anno 1296, 12 settembre: «In claustro Plebis S. Laurentii de Viqueria D. Bellengerius Tortus archipresbiter dictae Plebis... ordina al parroco Giacomo della Chiesa di S. Michele di Albofassio, sotto pena di scomunica, in un primo termine di dieci giorni, e poi di altri sei, di celebrare la S. Messa e attendere ai divini uffici nella suddetta Chiesa, altrimenti procederà contro di lui con sentenza di scomunica secondo quanto stabilito dal diritto canonico. Firmato D. Bellengerius. Testimoni Joannes de Cravenzana e Stefanus de Medaxino sacerdoti ».

“Anno 1297, 22 maggio: « In claustro Ecclesiae E. Laurentii de Viqueria D. Bellengerius Tortus archipresbiter... ammonisce il sacerdote Jacomum de Dulterio rettore e ministro della Chiesa di S. Pietro di Voghera e gli ordina perentoriamente che nel termine di dieci giorni, e poi di altri cinque e almeno entro la Pentecoste prenda residenza presso la Chiesa di S. Pietro e si dedichi al suo servizio e al popolo a lui affidato  sia per le  cure  spirituali che temporali sotto pena di scomunica. Testimoni Joannes Mongilardus e Joannes Fornarius sacerdoti».

Dunque l'arciprete Bellengerio Torti, senza consultare ufficialmente il Capitolo dei Canonici — i documenti non ne fanno cenno — perché il Capitolo non è stato rappresentato dai suoi mèmbri per il grave provvedimento, ordinò al parroco della Chiesa di S. Michele di Albofassio ed al rettore della Chiesa di S. Pietro di Voghera di risiedere in permanenza, abitualmente e giornalmente, nella loro parrocchia sotto pena di scomunica. Però i due sacerdoti non accettarono l'ordine con subitanea ubbidienza, ma in presenza degli stessi testimoni dell'ordinanza dell'Arciprete si appellarono « ab ipso praecepto ad summum Pontificem » giustificando il loro comportamento come una necessità derivante dalle rendite delle parrocchie divenute a quel tempo così irrisorie da non consentire il minimo necessario per la vita; dovevano quindi moltiplicare la loro attività sacerdotale coadiuvando altri parroci  nell'esercizio   del  culto.

Purtroppo anche le vicende politiche del tempo avevano contribuito a rendere più misere le popolazioni, per cui anche la vita ecclesiastica   ne aveva sensibilmente risentito.

Siamo così arrivati alle soglie del secolo XIV, nel periodo in cui in Milano fra i Torriani e i Visconti aveva preso avvio, violenta ed inesorabile,  la  lotta  per   la  contesa del dominio sulla città. Anche nelle nostre terre le lotte non furono meno cruenti ed esse si accesero fra i Langosco ed i Beccaria e Voghera parteggiò ora per l'una ora per l'altra fazione. Intanto i Langosco nell'anno 1302 avevano mandato in Voghera con i poteri di governatore Simone de Sanctonazario de Nazzano non con il titolo di podestà ma con quello più dotato di potere di “capitaneus communis Viquerie”.

 

Ad affiancare l'opera del suddetto capitano fu in quel tempo mandato da Pavia il console di giustizia Bernardo De Serra il quale volle, molto probabilmente ad istanza del capitolo dei Canonici di San Lorenzo — i cui beni collegiali erano esenti da tassazione — un atto ufficiale di consegna dei beni immobili costituenti il patrimonio della Chiesa di San Lorenzo e nel tempo stesso tributare i canoni, in decime e in denaro verso l'arciprete del Duomo. Infatti fino a quel tempo le cose erano state condotte in modo familiare ed ognuno dei beneficiari delle possessioni di proprietà della Chiesa matrice pagava sulla parola il tributo concordato, senza alcuna garanzia reciproca. L'evolversi dei tempi aveva reso necessario un atto pubblico che garantisse alla Collegiata vogherese le entrate finanziarie per le spese di culto, per quelle missionarie e per i benefici della mensa. E il documento fu steso il 27 ottobre 1302 e si trova conservato presso l'Archivio del Capitolo del Duomo. Per mezzo di esso veniamo a conoscere molti  dei  rapporti   di  interesse  di  comunità ecclesiastiche o di privati con il Duomo.

Come s'è detto, il catasto dei beni immobili di proprietà della Collegiata di San Lorenzo, redatto nell'ottobre del 1302, indica con precisione topografica quei beni, descritti uno per uno e individuabili dalle indicazioni delle coerenze.

La compilazione del documento è fatta secondo la divisione amministrativa della « porta » che, come già abbiamo detto, era di per sé un istituto della  organizzazione   della  civitas fin dall'epoca del dominio franco in Italia. Poi un'altra particolarità balza all'occhio: tutte le terre di proprietà della chiesa, salvo qualche eccezione, sono situate nella fascia  di terreno che al di là del fossato che proteggeva le mura, recingeva con ampio anello tutta la città. Non solo, ma nella indicazione catastale rappezzamento di terreno veniva commisurato, per quanto riguarda la superficie, in “sors“ cioè la sorte che fin dal periodo longobardo costituiva il terreno demaniale adiacente la città diviso in superfici che variavano da 500 a 1000 metri quadrati e veniva chiamato « sors » perché il conte, funzionario dell'imperatore oppure rappresentante di un gastaldo, per creare un valido interesse economico dei concittadini sul terreno immediatamente extra  moenia della città, quasi a costituire l'antemurale, sorteggiava, soprattutto in un primo tempo a beneficio degli uomini d'arme, questi appezzamenti di terreno che essi non lavoravano direttamente, perché non era nella tradizione germanica in genere legare la propria attività alla produzione agricola. E per questo giudizio non dobbiamo dimenticare che tutti i popoli germanici erano costituiti da tribù nomadi che soltanto dopo la loro calata in Italia (568), sull'esempio della civitas romana, divennero sedentarie.

Dopo la morte dell'arcipre de Bastardis avvenuta fra il 1303 e il 1304, la sede rimase vacante. Non essendo floride le condizioni economiche della Collegiata, per gli impegni assunti e soltanto in parte adempiuti, — era stata eretta da poco la  cappella corale — vi fu molta esitazione nell'accettare il gravoso incarico. In questa situazione parve conveniente al Capitolo far cadere la sua scelta su un uomo non soltanto pio e dotto qual era il canonico Pietro Isimbardi, ma che per essere membro di una delle più nobili ed antiche casate dell'Oltrepò potesse ottenere anche dall'esterno appoggi e provvidenza per l'amministrazione della sua parrocchia. L'Isimbardi  potè  migliorare   le condizioni dei mulini di proprietà del Capitolo, riparare i manufatti idraulici del Cavo Lagozzo e favorire con il suo intervento l'inizio dei lavori progettati dal Comune per la difesa  contro  le  alluvioni  della sponda sinistra dello Stafferà. La sua nomina — ci informa il Manfredi — avvenne con una particolare solennità. L'elezione si svolse, il 21 agosto 1304, nel coro di San Lorenzo. Oltre i canonici, vi erano i due rappresentanti delle parrocchie dipendenti dalla Pieve: i canonici avevano ciascuno il diritto alla voce cioè il diritto di un voto che poteva essere espresso a voce alta oppure per scheda segreta, mentre i rappresentanti delle parrocchie dipendenti ne avevano soltanto due cumulativamente. I delegati scelti dai parroci per esprimere i due voti  di  loro  spettanza  furono  « presbiter Stetanus de Medassino Rector ipsius Ecclesiae  et  presbiter Thebaldus Rector Ecclesiae de Calvenzana ».

Nel 1364 Papa Urbano V, tenendo presente il disagio in cui venivano a trovarsi le popolazioni soggette ai Marchese di Monterrato e quelle della Bassa Lombardia soggette ai Visconti, incaricò il cardinale Androino, dell'ordine Cluniacense, di comporre il dissidio fra il Marchese di Monferrato e Galeazze II Visconti.  Dopo  una  non  facile   trattativa,  la pace venne firmata il 22 gennaio 1365 e Voghera venne assegnata ai Visconti.

Nel 1370 gli uomini di Voghera chiesero al signore di Milano la revisione e il riordinamento degli Statuti civili e  criminali. Il Visconti  commise a Contino de Bonamico e a Manfredino de Alexandria di rivedere e di aggiornare, alla luce delle   interpretazioni  tradizionali  del diritto, le norme degli Statuti dando la precedenza a quelli criminali.

Ed è in questo periodo che Galeazzo progetta ed attua la costruzione di un più ampio castello in Voghera e nel 1373 ordina a Maffiolo Castiglioni podestà di dar inizio ai lavori per l'erezione del castello secondo i disegni di Ottarello  de  Meda e di Andrea de Mutina, obbligando però tutti i vogheresi a contribuire alle spese, tutti indistintamente, gli ecclesiastici compresi: « mandamus tibi quatenus ut tortalitia ipsa velocius fiant, omnes ad  contribuendum laborerio ipsius fortalitii compellas, rejectis cavillationibus ». E Galeazzo intendeva che si realizzasse sollecitamente   la costruzione « ad tantum  fortalitium Viqueriae tali modo quod possit se defendere a toto mundo ».

Dal volume I dei Liber Litterarum, conservati nell'Archivio storico presso la Biblioteca Comunale, risulta che Castellino Beccarla venne deputato a ricevere le imposizioni fiscali del clero di Voghera e di Tortona. Fra i più colpiti furono « presbiter Sinengus et socii cum canonicis plebis Sancii Laurentii de Viqueria »; i rettori o priori delle minori parrocchie di S. Pietro, di S. Ilario e di S. Maria di Porta Revoxella, per la quale è indicato frater Bonifacius de Opizzonibus prior; gli ospedali, i monasteri e le chiese suburbane e perfino i frati Gerosolimitani, frater  Marcus  Lanzavecchia praeceptor sancti Joannis domus Viqueriae.

Nell'anno 1375, troviamo che le tasse e le imposte comunali sono  quasi raddoppiate pro capite si che si elevarono dai parafici alcune proteste. Il Comune però giustificò l'eccezionalità una tantum del provvedimento per le necessità di completare la restaurazione delle mura di cinta della città e di alcune torri di guardia elevantesì sopra di esse; anche i fossati e gli spalti dovevano essere riattivati. Alcune torri poi, oltre che ad un restauro, necessitavano di essere rialzate.   In   quell'anno  l'Arciprete  della Collegiata del  Duomo,   monsignor Giuliano Grassi, coadiuvato dal Capitolo dei Canonici, creò un Monte di Pietà frumentario, il cui rapporto con il beneficiante  era basato soltanto, senza cauzione, su solenne promessa di restituzione entro due anni, così che anche i più indigenti potevano usufruire immediatamente di questa provvidenza, fatta venire espressamente dalle terre di Sannazzaro; essa si concretava in mine quattro per ogni componente il gruppo familiare.

 Dal libro originale dell'anno 1380 ricaviamo gli  estimi di  ciascuna chiesa aperta al culto in territorio del Comune di Voghera e degli ospedali funzionanti: Ospedale di S. Bovo fiorini 6.000, per altra partita 898; Chiesa e Monastero di S. Bovo Chiesa di S. Maria della Rossella (Priorato  di  S.  Benedetto)  478; Chiesa di S. Vittore 52; Chiesa di S. Giovanni in Tempio  (Ospedalieri)  487;  Chiesa di   S. Maria di Panigazio 230;  Chiesa di S.  Andrea (ministrato e chiericato) 104; Chiesa di S. Olivetto (cappella) 20; Monastero di S. Maria Maddalena (Benedettine) 1138; Chiesa di S. Michele  (ministrato  e  chiericato)    158; Chiesa di S. Zeno 3; Monastero di S.  Agata  (Monache   domenicane) 376; Chiesa di S. Maria in Villa 98; Chiesa di S. Vincenzo (ministrato e chiericato) 394; Chiesa di S. Ilario  (ministrato  e  chiericato)   108; Chiesa di S. Stefano (ministrato e chiericato) 108; Chiesa e Ospedale di S. Enrico de Viqueria 466 (questo ospedale era esente da tassa per privilegio imperiale); Chiesa di S. Alessandria 382;  Chiesa di San Pietro in Borgo (rettorato e chiericato) 318; Monastero di S. Catterina (Agostiniane) 317; Domus Sancti Antonii de Viqueria 3.235;   Chiesa matrice di S. Lorenzo 4.757; Chiesa di S. Gaudenzio (in Comune di Cervesina ma dipendente da Voghera) 30; Cappella e Casa del Monastero di S. Marziano tortonese 92; Chiese e stabilimenti di Pavia che avevano  possessioni  nel  Vogherese: Monastero del Senatore 7.102; Monastero di S. Teodata o Posterla 1.092. Perciò la somma totale dell'estimo ecclesiastico nell'anno 1380 sommava in Voghera a fiorini d'oro 30.421.

Intanto il podestà rendendosi conto delle ancor pessime condizioni di alcuni tratti di mura di cinta e di quelle di alcune torri di guardia propose ai credendari del comune di ricostruire le tre torrette dette della « Zicognie » situate sul perimetro delle mura a» nord-est della Porta di S. Stefano. Il che fu fatto anche con il concorso finanziario del principe, del clero oltre a quello della popolazione che per maggior sicurezza volle ricostruire i bastioni sul tratto che andava dalla torre di « S. Catterina » a quella di « S. Francesco vecchio », corrispondente oggi al tratto della circonvallazione interna che va dalla via Ricotti al lato nord della piazza San Bovo sul prolungamento della via Calvi. Dal conto consuntivo esistente presso la Biblioteca risulta che furono impiegati 2.000.037  mattoni nuovi senza contare quelli recuperati dalla demolizione e reimpiegati.

Fu in quella circostanza che i vogheresi per debito di riconoscenza e spontaneamente, avendo ospite il pittore cremonese Lorenzo de' Ponzoni, che sembra stesse affrescando una sala del castello della quale si è perduta traccia, fecero dipingere sulla Porta S. Pietro e su quella  S.  Stefano,  sulle  facciate prospicienti la campagna, lo stemma di Voghera sormontato dalle insegne di Gian Galeazze Visconti.

Il Comune di Voghera, con la completa adesione del Capitolo del Duomo, nel maggio del 1382 mandò ambasciatore presso il principe Gian Galeazzo Visconti, che si trovava in quei giorni a Pavia, il capitano Lorenzo Boccardi, per perorare la richiesta dei Vogheresi intesa ad ottenere il riconoscimento del principe e la regolamentazione di una Fiera o grande Mercato Generale.

 Gian Galeazzo  accolse benevolmente la richiesta e il 14 maggio concesse un diploma di istituzione della Fiera mercato in onore di S.Bovo compatrono della nostra città. Il diploma, pubblicato dal Manfredi, contempla tutte le norme per la disciplina di detto mercato, riconosce ai Vogheresi il diritto di tenerlo ogni anno e, quel che più conta, rende immuni, anche durante il viaggio, le merci che vi confluiscono o che da esso dipartono, così che chiunque fosse stato sorpreso a rubare o a recare nocumento ai convogli per o da Voghera, nel periodo di apertura ufficiale della Fiera, poteva essere   giustiziato  all'istante, senza alcun procedimento giudiziario. Il Capitolo dei Canonici a sua volta aveva ottenuto dal Vescovo  la  scomunica  « ope   legis »  contro chiunque avesse recato danno o molestia a detto mercato. E la Fiera di San Bovo istituita nel 1382, sebbene in modi e con espressioni diverse da allora, vive ancora oggi.

Bisogna arrivare verso la fine del 1388 per registrare un avvenimento che dimostra chiaramente con quanto rispetto il Principe considerasse la sua terra di Voghera nella organizzazione di tutta la Signoria. Nel 1400 qui da noi si concluse anche la lotta dei Visconti contro i Malaspina, costringendo questi a risalire la Valle dello Stafferà per stanziarsi nei tradizionali feudi al di là di Godiasco. Intanto la Lombardia era stata colpita da una grave pestilenza che operava una vera strage fra le popolazioni. A Voghera l'Arciprete « venerabile », come è detto in documenti, Fiorello de Balduini, organizzò un triduo di preghiere, senza processioni pubbliche e accogliendo nelle chiese solo pochi fedeli in rappresentanza della contrada o della Porta, allo  scopo di evitare assembramenti di persone che avrebbero potuto favorire il manifestarsi e il diffondersi  del contagio, ma nel tempo stesso organizzò presso l'Ospedale di S. Enrico e presso quello di S. Maria del Carmine due refettori che avevano il compito di distribuire ogni giorno gratuitamente o dietro compenso di libera offerta un pane, una minestra ed una porzione di carne, allo scopo di combattere la denutrizione delle classi più misere. E Voghera fu salva dal terribile flagello. Il Capitolo del Duomo si allineò subito con la politica dei credendari vogheresi, anche perché era stato consigliato tempestivamente    dall'arcivescovo   di Milano. In quel tempo, fra il 1403 e il 1404, iniziarono i lavori di    restauro   dell'antica    pieve,   che   doveva essere    in     condizioni    deplorevoli    se  fin    d'allora   il   Capitolo   dei    canonici considerò     questo      intervento     come    e un    semplice    lavoro    di     manutenzione, decidendo però che si sarebbe  dovuto edificare un nuovo tempio per     le     nuove  esigenze dei fedeli.

Durante l'officiatura della Messa solenne (1406) al momento della Elevazione, si staccò dal catino dell'abside un grosso calcnaccio che cadde nel coro provocando fortunatamente solo panico fa i presenti; ma noi questo fatto dice molto di più: dice che i restauri del tempio iniziatisi nel 1404 non erano ancora stati ultimati, e che le condizioni architettoniche del nostro Duomo erano dunque molto precarie già in quegli anni.

Un altro periodo di pace ha inizio nel 1414, consentendo agli uomini di Voghera di trovare con il Duca Filippo Visconti quel giusto modus vivendi che permise alla città una favorevole ripresa economica, specialmente nel campo dell'agricoltura e dell'artigianato.

Era venuta così a costituirsi a Vogherà una scuola di mastri da muro e di mastri da legname ai quali il Duca, tramite il podestà Antoniolo di Pietrasanta, aveva affidato la manutenzione del castello, delle porte, delle mura e — cosa importantissima — dei mulini, compresi quelli di proprietà della Collegiata di San Lorenzo, oltre che la manutenzione dei muri e dei tetti di tutte le chiese di Voghera. Non sarebbe fuori luogo e tanto meno eccessivo considerare queste associazioni artigiane libere, non vincolate da statuti, come veri e propri paratie regolati soprattutto da norme consuetudinarie basate essenzialmente dalla perizia di tutti gli aderenti. E questo corpo di artigiani crebbe in tanta fama e bravura che i suoi mèmbri venivano richiesti anche dalle terre vicine tanto che il Duca impose loro l'obbligo di richiedere alla camera ducale il permesso preventivo per abbandonare anche  temporaneamente Voghera per andare a portare il contributo della loro  opera fuori  della terra. Ebbe così inizio quella tradizione,   specialmente  per  i  mastri  da muro (muratori) che se non raggiunse la fama di quella dei Maestri Comacini del secolo X, tuttavia è certamente durata più a lungo, cioè fino ai giorni nostri, perché ancor oggi sono considerati muratori provetti quelli che si [o  sono  formati  nella  tradizione   vogherese. Avevano  l'assistenza  di  un  canonico del   Duomo,  festeggiavano  in  chiesa  i   loro   santi  protettori,  facevano  celebrare messe di suffragio per le anime dei compagni  defunti e, nel primo altare del Duomo, a cornu Evangeli, era perennemente accesa una lampada votiva. Anche dopo la costruzione del nuovo Duomo nel   1620, che è l'attuale, queste associazioni artigiane continuarono le antiche consuetudine, offrendosi verso  la  fine  del  secolo  XVII   come  mano d'opera  quasi  gratuita,  pur  di  vedere il   loro   duomo   ultimato   anche    nella maestosa facciata.  Bisognerà  arrivare fino al 1875 per vedere realizzata questa  importante  opera  architettonica.

In   quello  stesso  anno  per  iniziativa del Comune, dell'Arciprete e di tutto il Capitolo venne acquistato dall'Ingegnerio Filippino de Organis » di Milano un grande orologio che venne collocato sopra il campanile del Duomo. Questo orologio, che richiamò in Voghera tutto il contado che veniva a vederlo,   iniziò  il  battito  delle  ore  sulla campana alle   12 del giorno  dei  Santi del 1416, davanti ad una folla eccezionale che gremiva la piazza. E le cronache del tempo ci dicono che fu un avvenimento di grande suggestività quando   al   « Gloria »   suonarono    solenni   i dodici rintocchi. Celebrò la Santa Messa sulla piazza l'arciprete Fiorello Balduini,  assistito  da  tutto  il   Capitolo  e dai monaci dei conventi cittadini.

 

STORIA DELLE RELIQUIE DI SAN BOVO

 

Le reliquie rappresentano per eccellenza la continuità di un culto. Esse sopravvivono ai loro contenitori (arche, teche) sostituibili senza pregiudizio e il loro potere di animazione, oltre a sostenere il quotidiano rituale, contribuisce ad un’altra manifestazione della continuità e della memoria, quella formata da episodi straordinari innervanti la tradizione, come traslazioni, ricognizioni, dediche di edifici sacri, cerimonie speciali e altro” così Antonio Ivan Pini definisce le reliquie, testimonianza vera o simbolica della vita di un Santo.

I resti  mortali di San Bovo sono stati oggetto di venerazione e come in casi analoghi la traslazione delle reliquie ha seguito i percorsi più impensati essendo nel corso dei secoli più volte traslate a causa di guerre o per la rovina dei luoghi di custodia.

La prima sepoltura del corpo, avvenne nel 986 sul margine meridionale della strada romea, nel sobborgo fuori porta San Pietro, dove in seguito sorse una chiesa (1) a lui dedicata. Non più tardi del principio del 1200 il suo corpo venne spostato a Pavia e come si legge nei documenti del tempo (2) all’interno del monastero di Sant’ Apollinare fuori Porta Palazzo, dove vi era un convento di monaci benedettini. L’ipotesi più accreditata è che la traslazione sia avvenuta nel 1212 durante la guerra tra l’imperatore Ottone IV e Federico II, e che i monaci benedettini di Voghera abbiano deciso di trasportare il corpo a Pavia, perché fortificata e sicura e per la presenza di un monastero del loro stesso ordine religioso, che dopo la fine delle ostilità avrebbe restituito il corpo senza problemi. Ma il destino volle che la guerra non finisse in breve tempo e che la città di Voghera non fosse più pronta ad accogliere il corpo, per via delle pestilenze della metà del 1300.

Voghera si risollevò solo verso il 1436 durante il protettorato di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, che assieme alla sua illuminata moglie Luchina di Carmagnola creò una splendida e famosa corte e fece costruire chiese ed opere pie. La restituzione del corpo  avvenne per l’interessamento dell’arciprete di San Lorenzo, Guglielmo de Mangiarinis, che resse la parrocchia dal 1447 al 1469. Notizie documentarie affermano che il 22 febbraio 1469 le sacre reliquie furono tolte dalla cassa che le conteneva e poste in un’urna alla presenza del clero e delle autorità civili. Un anno dopo, nel 1470, l’urna fu richiusa in un sarcofago   sull’altare della chiesa a lui dedicata nel borgo di Porta San Pietro, come attesta un atto notarile del tempo. Di questa traslazione rimane una testimonianza epigrafica (3) ora affissa nel pronao del Duomo  assieme ai resti dell’arca che conteneva il corpo. Durante la deposizione venne staccato dallo scheletro un frammento del braccio, e posto in un reliquiario di pregiata fattura (4). In seguito, il 7 novembre del 1522, le reliquie furono trasportate dalla chiesa di San Bovo alla sacrestia del Duomo di San Lorenzo, probabilmente a causa della guerra tra Francia e Spagna, conflitto sorto per il predominio in Italia e che durò per oltre 50 anni.  Nel 1523 con l’assedio dei francesi alle porte le reliquie furono trasportate per la seconda volta a Pavia nella chiesa di Sant’ Apollinare passata nel frattempo all’ordine dei Domenicani. Il corpo di San Bovo vi rimase solo tre anni perché assediata anche questa città la chiesa fu rasa al suolo. Furono allora trasportate, sempre in Pavia,   in altra chiesa dell’ordine domenicano, San Tomaso. Il peregrinare delle spoglie non ebbe però ancora fine, poco tempo dopo furono trasferite a causa di lavori urgenti di restauro nella chiesa di Santa Caterina da Siena, altro monastero di suore domenicane (5), dove rimasero fino a quando il monastero non fu chiuso nel 1798. Come attesta un atto della Cancelleria Vescovile di Pavia del 22 maggio 1799 le reliquie passarono alla chiesa di San Giovanni in Borgo. Nel 1802 fu tolta una vertebra dal corpo custodito in quel luogo ed inviata a Lodi che ne aveva fatta richiesta. Il 20 agosto 1805 si assistette ad un ulteriore cambio di sede, questa volta nella chiesa di San Luca, sempre a Pavia. Il corpo di San Bovo è ritornato a Voghera solo il 14 novembre 1954.

NOTE:

(1) La chiesa di S. Bovo di Borgo San Pietro è documentata dal 1119, ricostruita nel  1593 dai cappuccini e nuovamente riedificata tra il 1715 e il 1717. In questa chiesa era posta l’arca di S. Bovo fatta costruire nel 1470, arca che scomposta nel 1593 fu collocata   dal 1810 nel muro di cinta, in quell’anno infatti fu distrutto il convento e trasformato in una casa privata, i resti dell’arca furono poi trasportati nel 1921 nel pronao del Duomo di Voghera.

 

(2) Testimonianze letterarie della presenza del corpo di Bovo a Pavia si trova in G.Boni-R.Maiocchi, Il catalogo Rodobaldino dei corpi santi di Pavia, Pavia, 1901 e in Anonimo ticinese, Libellus de descriptione Papie, 1330.

 

(3) L’iscrizione: HIC IACVIT CORPUS ET MEMBRA SANCTI BOBONIS DE VIQUERIA POXITA IN PRESENTI ARCHA NOVA 1470 DIE ULTIMO APRILIS INVENTIO MEMBROR.DICTI SANCTI BOBONIS VIQUERIE IN PRESENTIECLEXIA 1469 DIEXXII FEBRAUARI DON BERNARDUS BALDIZZNUS IN PRESENTI MONASTERIO PRIMUS ABBAS HOC OPUS FIERI FECIT ANNO

 

(4) La ricognizione di questa reliquia avvenne il 21 maggio 1703, sulla cassetta che contiene la particella dello scheletro vi è la seguente iscrizione: INVENTIO S.BOBONIS VIQUERIAE 1469. 22 FEBRUARII  HOC EST BRCHIUM EIUSDEM SANCTI BOBONIS ANNO SUPRASCRIPTO.

 

(5) Nel 1640 nacque anche una lite per il possesso delle reliquie di S. Bovo tra i due monasteri delle domenicane e i PP. domenicani che volevano riaverle indietro, ma questi non riuscirono nel loro intento.

 

CENNI SUL DUOMO

 

L'attuale Duomo di San Lorenzo sorge sul sito dell'antica chiesa pievana, ma fu ricostruito a partire dal 1605 su progetto di Antonio Maria Corbetta.
La facciata, ultimata nel 1881 secondo il disegno dell'architetto Maciacchini di Milano, reca, sul frontone, le statue di San. Lorenzo, San Bovo, patrono della città, e San Rocco. Nell'adito di destra alcune effigi lapidee murate tra cui S. Bovo, provenienti dalla distrutta chiesa di Santa Maria delle Grazie- Il maestoso interno a tre navate, ospita, fra le opere di maggior rilievo, l'affresco della Madonna del Soccorso attribuito ad Andrino di Edesia (1496) e un dipinto raffigurante la Visitazione di Scipione Crespi (1599) conservato nell'altare del Collegio Notarile. Il coro, l'altare maggiore  e la cupola furono affrescati nel '900 ad opera dei pittori Gambini e Morgari. Nel tesoro del Duomo sono conservati, oltre ad un prezioso ternario in broccato d'oro, dono della contessa Luchina Dal Verme, arredi sacri di antica fattura e antifonari miniati.

L'organo da concerto venne realizzato dai Serassi nel 1833, ampliato a ben duemila canne, e restaurato nel 1902 e ancora nel 1968. Il tesoro del Duomo conserva arredi e libri con miniature di pregio del XV secolo, mentre il reliquiario d'argento dorato del 1406, chiamato ostensorio Gotico, sarà venduto nel 1915 ai musei del castello di Milano, per pagare le le decorazioni interne. La parte inferiore del campanile appartenne alla chiesa più antica; numerosi interventi di restauro e solidamente delle strutture sono stati realizzati a partire dal 1820. Nel 1954, provenienti dalla chiesa pavese di Sant'Apollinare dove si trovavano dal 1523, vennero deposte sotto l'altare maggiore, raccolte in un'urna di bronzo, le reliquie di San Bovo.

 

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Ultimo aggiornamento: 19 ottobre 2005
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