"NOI, FORZATI DELLA NORMALITA'"

di Alberto Antonini

Va sempre controcorrente. Non nasconde le verità scomode. Villeneuve ci racconta perché a Monza si è messo contro tutti.

Come tutti, è rimasto attaccato al video, al web, a tutto quello che potesse aiutarlo a orientarsi nell'uragano omicida che ha colpito Manhattan e il Pentagono. Come chiunque di noi si è posto le sue domande e avrà faticato, da uomo normale, a darsi certe risposte. Poi, come tutti - o almeno come tanti - ha continuato a fare il suo lavoro. Anche se questo significa scontrarsi con i suoi colleghi, beccarsi la nomea di rompicoglioni a oltranza, di meschino, persona scomoda a caccia solo di pubblicità.

Tutte cose alle quali Jacques Villeneuve si è abituato. "E' dura, in questo mestiere, comportarsi da professionista senza passare da stupido". Lui non ha mai avuto bisogno di status symbol, di atteggiamenti, per dimostrare quello che è. Può andarsene in giro per il paddock in ciabatte; guardare la tv nella zona
hospitality abbracciato alla sua nuova ragazza, sicuro di potersi comunque ritagliare il suo spazio privato. Di vita e di opinioni. "Se c'è un vero pericolo, a Indianapolis non si deve andare. Anche per me correre a Monza è stato un peso. Ma allora noi smettiamo di fare i piloti, voi giornalisti smettete di fare domande, ciascuno non fa più il suo mestiere...La vita deve andare avanti, e noi dobbiamo fare finta che sia tutto normale, o quasi. Altrimenti il mondo si ferma".

Non è banalità, è il frutto di una precisa impostazione di vita. In Svizzera, dove è cresciuto, Jacques ha imparato a non fare trapelare i sentimenti. A sorridere anche dopo un incidente pauroso, a non perdere la calma quando gli altri piloti gli urlano contro. Se c'è qualcuno davvero glaciale, in F.1, è proprio lui, altro che Schumacher.
Ma essere freddi non significa per forza non avere sentimenti, preoccupazioni.
"Ho un amico che lavorava al World Trade Center di New York. Si è salvato dall'attacco terrorista, ma per un giorno non sono riuscito ad avere sue notizie. E' chiaro che non ero tranquillo. Il fatto è che finora queste cose succedevano sempre in posti lontani, da dove non ci arrivavano tante notizie. Questo mondo doveva essere un bel mondo libero e felice, con tanti colori. Quello che è successo ci colpisce, invece, da vicino. E il difficile è capire che cosa passava nella testa di chi ha compiuto un atto del genere.

Hai approvato la decisione della Ferrari, appoggiata poi da altre squadre, di correre con le macchine listate a lutto? 
"
La Ferrari avrebbe potuto anche dircelo prima. In certi momenti bisognerebbe che tutti fossero uniti nelle iniziative".

Parliamo di cose più allegre: nei riguardi di Maranello la pensi sempre alla stessa maniera?
"
E' un team costruito attorno a Schumacher". 

Guideresti mai per loro?
"Per loro sì, per Michael no".

La Ferrari, come organizzazione, si è data da fare parecchio per vendere i propri motori...
"...E ci sono team come Sauber e Prost che ricevono aiuti che non potrebbero avere, stano al regolamento. Poi vediamo che la Sauber è così forte".

Che cosa pensi del caso Hakkinen?
"Che è molto strano. Quando Mika, quest'anno, si è trovato davanti, era ancora in
grado di spingere. Altrimenti spariva del tutto".


La McLaren lo ha sostituito con Raikkonen. Tu eri fra quelli che si opponevano al rilascio della superlicenza per Kimi...
"Sì, ero contrario. Perché poi non si può sapere come si comporterà una persona con così poca esperienza. In una F.1 dominata dai costruttori, si cercano dei "quadri", dei piloti che facciano quello che vogliono i capi dei team. Servono i ragazzini che corrono in kart da quando avevano 5 anni".

E questo a te non va bene?
"Va bene per le squadre, ma professionalmente è sbagliato. Oggi i costruttori non vogliono i personaggi. Vogliono macchine che guidino altre macchine. Ma nelle situazioni di rischio, quando c'è un pericolo o semplicemente si mettono a repentaglio punti mondiali, a volte c'è bisogno di decisioni rapide dettate dall'esperienza; e non si può sapere come reagirà chi questa esperienza non ce l'ha. Guardate Jenson Button: un anno fa era un campione per tutti, adesso è stato dimenticato".

Tu però hai vinto da subito in una F.1 che non conoscevi; i tuoi precedenti in America erano sufficienti per trovarti a tuo agio in questo ambiente?
"E' chiaro che l'ambiente è diverso, ma la Cart non è una F.3. Quando sei abituato a correre a Indy davanti a mezzo milione di persone, hai la struttura mentale per girare veloce e anche per reagire alle situazioni di emergenza".

Quindi la McLaren...
"Mah, chissà. Quest'anno sono andati giù. può darsi che l'anno prossimo continuino a scendere".

Anche la Bar, forse, non è il massimo della vita. Tu da quattro anni non vinci un Gran Premio. Come fai a tirare avanti?
"Diciamo che con la Bar non mi sento come se ogni domenica potessi vincere la corsa; ma non per questo guido peggio. Se non conservi una mentalità vincente, non vale la pena di fare questo mestiere. Certo che quest'anno non vado ai week-end di gara con lo stesso spirito del '97; e anche pilotare non è altrettanto piacevole come quando sapevi che, facendo un buon lavoro, saresti stato davanti a tutti. Ma ho preso una decisione e devo continuare così. Mi fido delle persone con cui lavoro".

Non ti senti mai frustrato? Non ti pesa questa situazione?
"Mi pesa quando non si va avanti. So che per me sarà dura fino alla fine di questa stagione. Per questo spero nella vettura 2002".

Che cosa rispondi a chi ti dice che certe tue decisioni, come quella di restare alla Bar, sono state prese solo per soldi?
"Rispondo che i soldi non sono mai stati un problema. Perché quando ho confermato l'accordo con la Bar - ed è stato l'anno scorso, non quest'anno - c'era già pronto un contratto simile con un altro team".

La Benetton-Renault?
"Un altro team. Io non ho mai guidato per i soldi. Se fai un accordo di due anni solo per quello che puoi guadagnare, e poi ti trovi anno potere vincere più, a lungo termine non è una decisione intelligente".


Tratto da "Autosprint" n° 39 2001

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