LE PRIME TEORIE SULLA INSOSTENIBILITA' DELLA CRESCITA (IL RAPPORTO DEL CLUB DI ROMA)

Il gruppo originario del Club di Roma nasce intorno al 1968, quando Aurelio Peccei organizzò una riunione informale presso l'Accademia Nazionale dei Lincei, a cui presero parte una trentina di esponenti del mondo della scienza, dell'economia e della sociologia.

 La riunione prendeva vita dalla considerazione del suo promotore, condivisa pienamente da tutti i partecipanti, circa la necessità di cambiare la rotta assunta fino a quel momento dallo sviluppo umano ed economico, ma anche della complessità della problematica perché di carattere globale e caratterizzata da una serie di questioni strettamente interagenti e non affrontabili settorialmente o singolarmente da alcuni Stati.

 La complessità del problema da affrontare era, peraltro, aggravata dalla necessità di sensibilizzare i cittadini sulle questioni globali di carattere strategico, al fine di indurli ad abbandonare l'approccio limitato nel tempo e nello spazio dei problemi di ampio respiro.

 Dal giorno della sua nascita, il Club di Roma ha organizzato diversi convegni e elaborato alcuni rapporti su diverse tematiche: il primo rapporto, intitolato The limits to growth - erroneamente tradotto:I limiti dello sviluppo(in realtà crescita!), pubblicato nel 1972, fu tradotto in trenta lingue e diffuso in tutto il mondo, con un considerevole impatto politico. In esso era stata sviluppata una metodologia dinamica, in collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology, capace di studiare l'evoluzione di parametri complessi, come la popolazione, il consumo di alimenti, l'uso di risorse rinnovabili, l'industrializzazione, l'inquinamento ambientale, ecc.

 Da questo primo rapporto emerse con chiarezza e urgenza che bisognava imprimere alla crescita economica un diverso orientamento, ponendo fine allo sfruttamento incontrollato delle risorse e ristabilendo un rapporto di equilibrio tra l'uomo e il pianeta che lo accoglie.

 In sintesi, le conclusioni cui perveniva il gruppo di lavoro creato in seno al Club di Roma, si basavano sulla constatazione che il pianeta, in quanto sistema chiuso, non è in grado di sopportare una continua crescita esponenziale della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento ambientale e dello sfruttamento delle risorse.

 Si sottolineava l'importanza, quindi, di porre attenzione alla scarsità delle risorse naturali, da un lato, e sull'attività dell'uomo dall'altro che, indiscriminatamente continua a produrre, consumare e inquinare senza tener conto della capacità di carico del pianeta.

 Il messaggio contenuto nel primo rapporto al Club di Roma, dunque, può considerarsi anticipatorio del concetto di sviluppo sostenibile affrontato una ventina di anni dopo: da esso si evince la necessità di tendere ad uno sviluppo economico che sappia conciliare le esigenze della protezione ambientale con quelle della crescita dell'umanità a livello economico e sociale, mediante una pressione non esagerata e controllata sulle risorse naturali, al fine di non pregiudicarne le condizioni globali a favore delle generazioni future.

 La prima considerazione su cui si basa lo sviluppo sostenibile, allora, sarà quella che pone da un lato, attenzione nell'uso delle risorse naturali, soprattutto quelle non rinnovabili, e dall'altro, impone la necessità di contenere e limitare la quantità di rifiuti prodotti.

 Tutte le iniziative promosse dal Club di Roma vogliono tendere a creare una sfida per la scienza e la tecnologia, una sfida possibile e intelligente, che permetta di individuare risorse, processi e soluzioni che siano in grado di limitare l'impatto dell'intervento umano, sino a renderlo compatibile con la capacità dell'ambiente di autoregolarsi e ripristinarsi. La constatazione delle dimensioni finite del pianeta e delle conseguenti limitazioni alla crescita della popolazione e della sua attività economica, concetto peraltro contro corrente in un periodo di piena espansione economica come quello degli anni 60-70, presuppone che la crescita economica non possa continuare all'infinito; ma ciò non significa che ogni tipo di crescita sia da evitare per non arrecare danni alle risorse naturali, quanto piuttosto che bisogna puntare su una crescita qualitativa, su uno sviluppo economico che tenda alla qualità e non più alla quantità delle sue prestazioni, ma anche su un'umanità più giusta e rispettosa del pianeta.

 Tali considerazioni portano anche all'evidenza della difficoltà di affrontare e gestire correttamente i problemi globali a livello nazionale, in quanto i singoli Stati non sono in grado di disporre dei mezzi necessari per trovarvi le soluzioni adeguate. Si tratta, piuttosto, di sviluppare una partecipazione dal basso, mediante l'approccio del "think globally, act locally" che richiede una grande partecipazione e solidarietà a ciascun cittadino del mondo, e fa appello al senso di solidarietà tra generazioni. La solidarietà globale, infatti, nella visione delle strategie sviluppate dal Club di Roma, è lo stimolo in base al quale conseguire il raggiungimento di un duplice obiettivo: quello dello sviluppo economico e quello del mantenimento della qualità dell'ambiente.

 Uno degli ultimi rapporti elaborati dal Club di Roma, il Fattore 4, vuole andare oltre le solite indicazioni teoriche di cosa sarebbe più giusto fare per sviluppare un'economia mondiale equa e controllata; dà, infatti, le indicazioni pratiche da seguire per ridurre l'impatto ambientale senza gravare sul benessere sociale. Gli esempi presentati si fondano su un atteggiamento che vuole correggere il malinteso, troppo spesso radicato nella mentalità dei cittadini, circa il comportamento rispettoso dell'ambiente che induce limitazioni alle attività umane: si punta, infatti, sulla produttività delle risorse e sul loro uso che ne esalti l'efficienza, mentre non si vuole imporre nessuna rinuncia ai consumi.

Le iniziative presentate nel rapporto, alcune delle quali economicamente e tecnicamente già attuabili, sono finalizzate a utilizzare le risorse disponibili in modo "quattro volte" più efficiente della norma, cioè dell'uso che se ne fa attualmente.

Inoltre, si danno indicazioni generali circa l'atteggiamento culturale nei confronti del concetto di sostenibilità che devono assumere non solo i singoli cittadini (i quali, peraltro, sono oggetto delle scelte etiche che si basano su un cambiamento delle abitudini a favore di scelte ecocompatibili), quanto piuttosto i paesi cui gli stessi appartengono, dotati dei processi decisionali e delle risorse finanziarie necessarie a consentire che la crescita economica cambi direzione. Basti pensare, per esempio, alla semplice introduzione di una riforma fiscale ecologica che contribuisce ad aumentare il benessere della collettività e, contemporaneamente, risulta favorevole alla tutela dell'ambiente.

 

LA DEFINIZIONE DI SVILUPPO SOSTENIBILE (IL RAPPORTO BRUNDTLAND)

La Commissione Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo, è stata creata alla fine del 1983 mediante una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con lo scopo primario di formulare un documento - agenda globale per il cambiamento - che definisse i termini in base ai quali fondare uno sviluppo economico rispettoso delle risorse naturali.

 Tale Commissione (composta da 22 paesi rappresentanti dei cinque continenti, di cui sei europei) è stata presieduta per la Norvegia da Miss Brundtland, dalla quale ha preso, appunto, il nome il Rapporto che è stato elaborato dopo anni di lavori e discussioni.

 Il testo è stato pubblicato in diverse lingue internazionali, e in italiano è stato tradotto con il titolo "Il futuro di noi tutti" (1998).

 Nel Rapporto è contenuta anche la "Dichiarazione di Tokyo" (con cui si sono conclusi i lavori della Commissione nel febbraio del 1987) tra i cui contenuti emerge quello dell'art.6 - integrare ambiente ed economia nei processi decisionali - che è quello che maggiormente rappresenta il Rapporto nel suo complesso: enuncia, infatti, che "… coloro che decidono devono…essere resi responsabili delle conseguenze che le decisioni stesse hanno sul capitale di risorse ambientali delle loro nazioni" e sottolinea la necessità che gli stessi pongano "attenzione … sulle cause dei danni ambientali, per prevedere e prevenire i quali è necessario che le dimensioni ecologiche della politica vengano prese in considerazione contemporaneamente a quelle economiche..".

 Il principio fondamentale del Rapporto Brundtland è che l'ambiente e lo sviluppo economico non sono realtà separate, ma strettamente connesse: lo sviluppo dell'economia, infatti, non può sussistere senza lo sfruttamento delle risorse naturali, e al contempo, la protezione dell'ambiente non può realizzarsi senza una crescita che non tenga conto del fattore antieconomico che è la distruzione ambientale.

 La definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel Rapporto è quella che ormai può considerarsi condivisa a livello internazionale:

"lo sviluppo sostenibile è quello che consente di soddisfare i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare i loro".

E' quindi una definizione che interpreta lo sviluppo economico in un orizzonte temporale non limitato, al fine di consentire lo sfruttamento delle risorse naturali in modo equo, razionale e oculato. Questo per consentire una duplice finalità: da un lato che i paesi in via di sviluppo abbiano la possibilità di utilizzare le risorse naturali (che nella maggior parte dei casi si trovano sui loro territori) per soddisfare i loro bisogni di crescita economica, e dall'altro di consentire anche alle generazioni future di godere dei vantaggi derivanti dall'utilizzo delle risorse naturali, e che non debbano essere penalizzate solo perché sono "venute dopo" rispetto a quelle attuali.

 In entrambi i casi, è fondamentale l'impegno dei paesi che attualmente detengono i mezzi per guidare lo sviluppo economico generale: questo, infatti, deve subire un cambiamento di rotta rispetto a quella adottata fino ai giorni nostri e che ha causato il depauperamento dell'ecosistema mondiale. L'impegno deve tendere ad uno sviluppo che consideri il rispetto dell'ambiente, tra le sue variabili strategiche, al fine di gestirlo correttamente e in modo razionale perché consapevoli della sua scarsità e delle conseguenze negative, che ricadono sull'ambiente stesso, derivanti dall'inquinamento prodotto dalle attività umane.

 E' bene sottolineare che lo sviluppo sostenibile non vuole essere un ostacolo alla crescita economica, ma fondandosi sul riconoscimento che la povertà ed il sottosviluppo sono causati da una crescita di cui hanno beneficiato solo i paesi ricchi, punta sulla ripartizione delle risorse naturali da cui trarre ricchezza economica e sulla divisione dei benefici economici che ne derivano.

 A tal fine, è anche importante che i paesi industrializzati, dotati delle tecnologie e dei mezzi necessari, trovino soluzioni allo sviluppo economico che lo rendano rispettoso dell'ambiente, e si impegnino nella ricerca e nell'applicazione di tecniche che permettano da un lato, di contenere l'impiego delle risorse naturali come in-put delle proprie attività economiche, e dall'altro, di limitare e ridurre il più possibile l'inquinamento che deriva da quelle affinché non si aggiunga al deterioramento dell'ecosistema già in atto.

 Ciò implica soprattutto un impegno comune alla salvaguardia ambientale, che si traduce nel superamento del problema a livello nazionale: è uno sforzo, quello dello sviluppo sostenibile, che può acquistare consistenza e applicazione pratica solo se si riesce ad affrontare nella sua globalità.

 Si parla, infatti, di beni comuni globali, cioè quelle zone del pianeta che travalicano i confini nazionali e sono fuori la giurisdizione di un singolo paese: in questo caso, mancando norme specifiche che prescrivono diritti e doveri su tali "beni", è necessaria una politica di sviluppo comune, concordata a livello internazionale che eviti la pressione indiscriminata sulle risorse naturali "di nessuno" e permetta la conservazione dell'integrità ecologica per le generazioni attuali e per quelle che verranno.

 

LA CONFERENZA DI RIO E LA CARTA DELLE IMPRESE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE

Prima della Conferenza di Rio, un approccio di valenza internazionale per lo sviluppo di strategie efficaci alla tutela ambientale, può considerarsi la Conferenza mondiale dell'industria sulla gestione dell'ambiente, del 1991, durante la quale la CCI ha presentato la Carta delle imprese per uno sviluppo sostenibile.

Tale documento rappresenta un insieme di principi di base per la gestione dell'ambiente in linea con il perseguimento dello sviluppo sostenibile. E', infatti, diffusa da qualche anno la consapevolezza che, per garantire uno sviluppo economico che tenga conto della limitatezza delle risorse naturali, è necessario il coinvolgimento di tutti gli attori sociali e gli operatori economici a livello internazionale. Così, nonostante le imprese non siano gli unici "enti" ad incidere sulla scarsità delle risorse naturali e, quindi, a dovere cambiare il loro modello si sviluppo, la Carta delle imprese in questa sede accennata vuole essere un punto di riferimento per le imprese di tutto il mondo circa i principi da cui trarre spunto per garantire un approccio corretto alle problematiche ambientali.

 La prima convinzione su cui le imprese possono fondare il miglioramento delle strategie con cui affrontare la sfida ambientale, è che lo sviluppo economico e la protezione dell'ambiente non sono in conflitto tra loro, ma perfettamente compatibili e interconnessi.

 Sulla base di questa considerazione la Camera di Commercio Internazionale ha elaborato dei principi che orientano le imprese nell'adozione di atteggiamenti a favore della gestione razionale e corretta della variabile ambientale.

 Tra i principi fondamentali della Carta non poteva mancare quello che ormai, nella terminologia della gestione ambientale prevista dagli standard internazionali a noi noti, può considerarsi il fulcro dell'approccio all'aspetto, e cioè il principio del miglioramento continuo della politica aziendale a favore dell'ambiente, che parte dal rispetto della normativa in vigore e tiene conto del progresso tecnico, delle conoscenze scientifiche e delle aspettative della collettività.

 Ovviamente, nell'aderire alla presente Carta le imprese riconoscono nella gestione ambientale una priorità, un fattore determinante per il loro sviluppo sostenibile e per contribuire allo sforzo comune della collettività verso l'uso corretto e razionale delle risorse naturali.

Un paio di anni dopo, nel giugno del 1992 si è tenuta a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) alla quale hanno partecipato 183 paesi, oltre a innumerevoli organizzazioni non governative (ONG) e agenzie internazionali come la FAO, la ILO, ecc..

I lavori tenuti durante la Conferenza hanno condotto all'elaborazione di diversi documenti, non cogenti per i paesi che li hanno ratificati, ma comunque importanti per orientare la politica economica degli stessi verso quelle azioni necessarie per garantire uno sviluppo sostenibile a livello mondiale.

Prima fra tutti è la Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e lo Sviluppo, un documento programmatico, giuridicamente non vincolante, che nei contenuti affronta i principi già enunciati nella Dichiarazione di Stoccolma del 1972, la "culla" della politica internazionale orientata ad uno sviluppo sostenibile, con l'intento di continuare la "costruzione" di quanto con essa iniziato.

 I 27 principi che contiene vogliono sottolineare l'importanza per ciascun paese di garantire ai propri cittadini delle buone condizioni economiche e sociali, nonché lo sviluppo delle stesse in armonia con l'ambiente in cui vivono. Enuncia, infatti, il primo dei principi che "gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura".

Tutti gli altri principi enunciati nella Dichiarazione di Rio, si può dire che fanno da corollario a quello suesposto, in quanto inducono gli Stati ad assumere una serie di obblighi nei confronti delle loro popolazioni e delle risorse presenti sui rispettivi territori.

In particolare, il principio di non causare danni ambientali transfrontalieri, quello di cooperare per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l'integrità dell'ecosistema terrestre, quello di promuovere un sistema economico internazionale idoneo a generare una crescita economica e uno sviluppo sostenibile in tutti i paesi e che consenta anche una lotta efficace ai problemi del degrado ambientale, quello di valutare preventivamente l'impatto ambientale causato dalle principali attività umane realizzate all'interno dei propri confini, ecc..

Un altro documento portante della Conferenza di Rio è l'Agenda 21, un programma d'azione per tutti i paesi partecipanti, tendente all'impegno politico e alla cooperazione internazionale in materia di ambiente e sviluppo. L'Agenda 21, infatti, indica i programmi che in concreto permettono di tradurre il principio di integrazione tra l'ambiente e lo sviluppo, attraverso l'individuazione di un centinaio di aree d'azione.

 E' stato stimato il costo complessivo che l'insieme delle azioni programmate dall'Agenda 21 potrebbero comportare se effettivamente attuate: è stato proposto in seno alla Conferenza, che di tale costo i paesi ricchi dell'area OCSE si facciano carico del 20% almeno, il che equivale ad una percentuale piuttosto modesta del prodotto lordo complessivo di ciascun paese, ovvero una quota senz'altro irrilevante per i bilanci dei paesi ricchi e quindi assolutamente praticabile.

 Per la soluzione dei problemi individuati a livello globale (come i cambiamenti climatici, la protezione della fascia dell'ozono, la conservazione delle biodiversità, ecc.), è stata creata una struttura, la Global Environmental Facility, che si occuperà di affrontare la gestione delle risorse a favore dei paesi in via di sviluppo.

 Sempre non vincolante è la Dichiarazione sulle Foreste, contenente i principi fondamentali per la gestione, la conservazione e lo sviluppo sostenibile di questo patrimonio inestimabile che ogni anno subisce una distruzione sfrenata. Al momento, è l'unico accordo esistente tra i paesi del nord del mondo e alcuni paesi in via di sviluppo che intendono le foreste come una risorsa nazionale e non di valenza mondiale, e che temono nella violazione del loro diritto sovrano di gestire liberamente di tale fonte di ricchezza.

 Altri documenti elaborati in occasione della Conferenza di Rio sono la Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione quadro sulle modificazioni climatiche; sono state, inoltre, poste le basi per la realizzazione di una Commissione per lo Sviluppo Sostenibile e per l'organizzazione di altre conferenze che sottopongano all'attenzione mondiale problemi comuni relativi a vari aspetti direttamente o indirettamente connessi all'equilibrio dell'ecosistema terrestre.