C.R. incontra ET
La notte era fresca, ma già rilasciava i soffi tiepidi e profumati della neonata primavera; il cielo era terso e stellato: insomma un’atmosfera magica, se sul sedile del passeggero ci fosse stata una persona diversa da C.R.
L’ora tarda e il fisiologico torpore, conseguenza del faticoso allenamento e più ancora, della laboriosa successiva digestione, rallentavano la conversazione a bordo della vettura, dove conducente e passeggero seguivano il percorso isolato e non sempre fluido dei rispettivi pensieri.
Nei momenti di iperattività cerebrale C.R. sintetizzava le conclusioni del suo ultimo ragionamento con un sonoro “Mah!”.
Con un simile compagno di viaggio diventa sempre difficile conservare la vigilanza indispensabile per ritornare, come ogni giovedì notte, al domicilio.
Fu in questo contesto di sonnolenta normalità, vissuto ormai migliaia di volte nel corso degli anni, che si produsse un evento straordinario e sconvolgente da renderne altrettanto incredibile il ricordo.
Ci trovammo all’improvviso di fronte un bagliore verde accecante, che si estinse istantaneamente materializzando un misterioso oggetto sul lato della strada che stavamo percorrendo in aperta campagna.
Data l’ora e il luogo, nessun altro veicolo ci seguiva o precedeva.
D’istinto ed accecato dalla violentissima luce, riuscii ad accostare senza danni.
Quando gli occhi poterono nuovamente mettere a fuoco, la scena che apparve fu l’inverosimile spezzone tratto da una pellicola di fantascienza.
Un veicolo spaziale, un’astronave, era posata sul prato a meno di 10 metri da noi.
C.R., violentemente strappato dalle tenebre delle sue membrane cerebrali, esplose un’esclamazione da far dubitare della sua educazione salesiana.
Che fare?
Ingranare la marcia e fuggire o, per dirla come il sommo poeta “seguir virtute e conoscenza”?
Timorosi e audaci al contempo, scavalcammo il fossato a lato della strada e ci portammo sotto il veicolo, dalla forma di gigantesco cappello metallico.
Ci aspettammo di udire da lontano lo strepito delle sirene delle forze dell’ordine, arrivi di autovetture e assembramenti di persone e invece, tutt’intorno, solo un angoscioso silenzio.
Possibile che nessuno avesse notato quel potentissimo fuoco d’artificio verde?
L’apparizione e il contestuale spegnimento della luminosità furono forse cosi rapidi da non poter essere osservati se non da chi si fosse trovato sul luogo e ciò giustificava come gli avvistamenti ufologici fossero sempre riferiti da pochi spettatori.
Comunque, non ci fu tempo per ulteriori considerazioni perché, come nella più tradizionale letteratura e filmografia fantascientifica, si aprì un portello scorrevole dell’astronave, dalla cui apertura discese una scaletta e apparve l’Estraterrestre!
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Come ve lo immaginate voi un’Extraterrestre? Come ve lo hanno sempre presentato, con la testa grossa e le orecchie a sventola o il naso a trombetta?
Acqua, acqua.
Quello che noi vedemmo, e non potremo più dimenticare, era una figura alta, atletica, ma il volto mostrava le aperture degli occhi, le orecchie e le narici ridottissimi.
C.R. ed io rimanemmo impietriti da quella apparizione, mentre l’individuo discese e si avvicinò senza esitazione, disegnando un impercettibile sorriso con le labbra sottili, dalle quali uscirono alcuni suoni gutturali incomprensibili a noi, come, per lui, le nostre reazioni vocali.
L’essere ritornò rapidamente a bordo del suo veicolo e ne ridiscese con un congegno a tracolla, collegato ad una serie di cavi e questi ad una cuffia e a un microfono.
Si avvicinò a noi e, maneggiando l’attrezzatura, illuminò uno schermo colorato dove apparve dapprima l’immagine della Terra, poi, in sequenza, restringendo i campi, quella dell’Europa e, infine, dell’Italia.
Capimmo che ci chiedeva di indicare dove ci trovavamo e perciò puntammo il dito sul Nord-Ovest e, con successivi aggiustamenti, E.T. focalizzò il Piemonte e quindi l’area corrispondente al luogo di atterraggio.
A questo punto sentimmo gracchiare il microfono e, con sommo sbalordimento, udimmo chiaramente: “Cerea, mi sun an Marsian”.
C.R. fu il primo a riprendersi e a rispondere: “Cerea, nui suma ‘d Vulpian”.
Il Marziano corresse ancora l’immagine sullo schermo dove apparve il dettaglio della nostra zona.
In sostanza l’apparecchio era un raffinatissimo navigatore che, individuato un territorio, convertiva i suoni emessi da E.T. nella lingua del luogo sintonizzato e, analogamente, svolgeva l’operazione contraria.
Così la conversazione proseguì spedita tra C.R. ed E.T.
C.R. “Cume mai a l’è cascà ‘n be le sì?”
E.T. “Sun perdume ‘n t’la spasiu”
C.R. “A nui an capita traversanda Ivrea”
E.T. “Capisu nen”
C.R. “ A venta pruvé. A jé na rutunda ampestà e nen n’indicasiun”
E.T. “ Mi l’ai ravà l’uscita ‘d Saturno e sun surtì da l’orbita”
C.R. Prope cume a la rutunda d’Ivrea”.
I due conversanti parevano sempre più i protagonisti di una celebre barzelletta, pur alzando progressivamente il livello degli scambi informativi.
Apprendemmo in pochi minuti ciò che per generazioni di scienziati era e continuava ad essere oggetto di congetture e fitto mistero.
La scoperta più sensazionale era la prova dell’esistenza della vita su Marte e noi avevamo il privilegio di poterne conoscere anche tutti i dettagli.
Ma l’interesse era reciproco; il marziano voleva sapere tutto della vita sulla Terra e la conversazione assunse ritmi sempre più incalzanti, anche se condotta in modo non sistematico, sia per l’emozione, che per il limite dato dall’utilizzo di una lingua poco adatta ai temi scientifici.
Pensai a questo punto di recuperare in auto carta e penna per prendere note su questa straordinaria testimonianza.
Nel brevissimo tempo occorso per allontanarmi e cercare quanto necessario, dovetti assistere, per la seconda volta, al ripetersi della mirabolante scenografia.
La terra vibrò mentre si irradiava ancora l’intensa luce verde e nello stesso istante in cui questa mi abbagliò riuscii comunque a scorgere il volto di C.R. dietro un oblò dell’astronave con la bocca aperta, prima di ripiombare, tutto solo, nella completa oscurità.
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Assalito dallo sconforto per la sparizione dell’amico, venni anche preso dall’inquietudine per quanto dovevo immediatamente fare.
Ovviamente, dovevo avvertire le Forze dell’Ordine che, a loro volta, avrebbero allertato l’Aeronautica; si, ma si può immaginare l’effetto che produce una persona che, trascorsa la mezzanotte, riferisce al poliziotto o carabiniere di servizio che il suo compagno di viaggio è stato rapito da un marziano e scomparso su di un disco volante?
Per prima cosa mi avrebbero infilato in gola il cannello dell’etilometro.
Ripassai mentalmente le quantità di liquidi assunte durante la cena e realizzai che, magari di poco, non sarei uscito indenne dal test.
Comunque occorreva subito dare un allarme col telefonino, esordendo con “ Le sembrerà strano, ma…”
Curiosamente mi tornò in mente una vecchia canzone di Gipo, ovviamente in piemontese, che recitava: “Rataplan, rataplan, l’ai parlà cui marsian, a ieru tanti, trantetré dischi volanti ca fasiu rataplan, rataplan, rataplan…”
E poi, se C.R. non ricompariva chi era stato l’ultimo a vederlo?
Potevo giustificarmi che, in fondo, tutti avevano sempre considerato C.R. di “un altro pianeta”?
Ormai angosciato e col pollice sul tasto di invio del cellulare, assistetti per la terza volta allo sfolgorante fenomeno dell’abbacinante luce verde e al subitaneo atterraggio dell’astronave al mio fianco.
Si aprì il portello e ne rotolò giù C.R.
Si affacciò anche E.T., senza accennare il sorriso del primo incontro, mentre la voce metallica e forte del suo navigatore scandì: “Mi vuria purtelu da nui per feje spieghé la vita s’la Tera e stu disgrasià l’ha ciamà vint sac a l’ura per mustré ai marsian a gioeghe al balun! Tenivlu vuiauti!”
Poi il portello si richiuse dietro al marsian e col consueto sfavillio verde il disco saettò in cielo, ma questa volta, potei notare alcune deviazioni nella traiettoria prima della scomparsa: era certamente incappato nella maledetta rotonda di Ivrea!
C.R. ed io ci abbracciammo e giurammo di non fare parola con alcuno dell’accaduto, come pure di non bere più il barolo chinato a fine cena!
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P.S. Il racconto presenta indubbiamente alcuni tratti che potrebbero lasciare perplessi i lettori; a me rimarrà sempre la curiosità di sapere come avrebbero potuto giocare i Veteran-Marsian”.
P.S.2 La rotonda di Ivrea è un luogo reale, il Triangolo delle Bermude per C.R. e il suo autista.
E’ misterioso, ma inevitabile, che la coppia in transito venga ogni volta risucchiata nel vortice di quella rotonda nella affannosa ricerca della via del ritorno verso Torino, finendo, immancabilmente “sparata” in una direzione sempre diversa.
L'AVUCAT