Vinicio Coletti

Diario digitale

febbraio 2003

Treno di panna

Romanzo
di Andrea De Carlo, Italia, 1981
186 pagine nell'edizione Rizzoli Corriere della Sera

Questo è il tipo di libri che non leggo mai subito dopo pubblicato. Se non ricordo male, il primo libro di De Carlo ebbe un successo immediato e durante un breve periodo tutti ne parlavano. Quando questo accade, io evito il libro, forse perché avrei la sensazione, acquistandolo, di discostarmi in qualche modo da quella specie di sentiero di ricerca strettamente personale che suppongo di seguire con le mie letture. Un sentiero che non ammette intrusioni né suggerimenti di percorso anche perché, a dirla tutta, non porta in nessun luogo.
Ma quando un libro ha attraversato indenne l'inesorabile filtro del tempo o comunque mi interessa, per motivi che mi sono spesso ignoti, diventa una tappa del sentiero.
Devo anche dire che in questo caso specifico sono partito un po' prevenuto e che scorrere le prime pagine non ha fatto altro che avvalorare i miei sospetti. Ma ogni libro richiede qualche pagina di assuefazione e una volta catturato dallo schema narrativo, non se sono uscito che all'ultima riga dell'ultima pagina.
In breve, è la storia di Giovanni, giovane italiano, forse fotografo e sicuramente giramondo, che si reca a Los Angeles, ospite di due amici conosciuti in un viaggio precedente. La convivenza con i due non si rivela molto felice e, dopo aver iniziato a fare il cameriere ed impalmato la cassiera del ristorante, si trasferisce a casa di lei. Inizia poi ad insegnare l'italiano, prima in una scalcinata scuola di periferia (termine precisissimo, visto che il centro non c'è), poi in una raffinata scuola frequentata dagli attori di Hollywood. Lascia la cassiera, conosce un'attrice famosa e lo lasciamo in compagnia di lei, in uno stralunato party notturno.
Penso di non far danni raccontando la storia, visto che ciò che conta, e che rende questo romanzo decisamente bello, è il modo con cui vengono descritti i rapporti tra le persone e tra queste e l'ambiente urbano che li circonda. Descrizione che gronda ironia ad ogni frase, che illumina il vuoto, l'ansia, l'afasia teledipendente in cui vivono quasi tutti, sempre tesi ad inseguire una meta che fatalmente non raggiungeranno mai.
Una descrizione dell'America totalmente diversa da quella ricca e sfavillante o altrimenti plebea e creativa, ma sempre epica, cui eravamo forse abituati. E' qui all'inane opera la classe mediobassa (e mediocre) dei camerieri che vogliono fare gli attori, delle cassiere che rimpiangono gli amori passati (perché poi l'abbandonato ha fatto i soldi), degli sceneggiatori della domenica e delle pubblicitarie in pectore.
Ma alla fine il protagonista sembra forse farcela, perché con la complicità dell'attrice famosa riesce ad entrare nel mondo dei ricchi e dei famosi, anche se non sappiamo quanto durerà, vista la precarietà delle relazioni interpersonali. Devo confessare che a me sarebbe piaciuto un finale diverso, che ritengo più in sintonia con lo stile di tutto il resto del romanzo: avrei lasciato Giovanni in una situazione di maggiore incertezza, da solo, a fotografare la nebbia.
Non posso che consigliare la lettura di questo bel romanzo, che per qualche giorno ha illuminato di buonumore i miei percorsi quotidiani in autobus. E forse leggerlo in movimento è anche consono al racconto.


Alcuni estratti:

Anche Ron guardava la televisione, ma non voleva riconoscerlo apertamente. Ogni volta diceva "Stasera devo scrivere". Oscillava la testa larga e biondastra, per rimproverarmi di non essere altrettanto attivo intellettualmente. Andava a sedersi al tavolo a guardare la ibm, e poi si alzava ogni cinque minuti per venire a vedere cos'era successo alla televisione. Dovevamo continuamente aggiornarlo sugli sviluppi. Allo stesso tempo ironizzava sul mio interesse; diceva "Giovanni, sei un video-tossicomane".
 
Ron e Tracy erano come due giovani squali insicuri, rissosi, frenetici attorno al telefono ogni volta che squillava. Erano sempre sul chi vive, attenti a non tradirsi o dimostrarsi troppo ingenui. Vedevano Los Angeles come una pista ad ostacoli, e ogni salto come l'ultimo di una serie; suddividevano il numero sconfinato di salti necessari ad arrivare in generi e sottogeneri. Giravano in circolo alla ricerca di frammenti di successo da divorare subito per crescere a giovani squali di maggiore dimensione. Da ogni minuto episodio si aspettavano conseguenze di qualche importanza per le loro vite.
 
Tutti i camerieri si odiavano, cercavano di mettersi in difficoltà l'un l'altro. Creavano spazi attorno a un errore per farlo risaltare il più possibile, amplificarlo oltre misura. Rimarcavano con grida e gesti ogni rovesciamento di salsa e rottura di piatto; aspettavano di vedere arrivare Enrique per intervenire con facce sdegnate, espressioni di estraneità. Allo stesso tempo di chiamavano tra loro "Amico mio", o "Fratellino"; si lanciavano sorrisi o smorfie. Nelle pause più lunghe affondavano in conversazioni su automobili o donne, prospettive di guadagno e permessi di lavoro.
 
Ho pensato che era vero; che quasi chiunque avevo incontrato nascondeva progetti e ambizioni che coltivava da chissà quanto tempo. Tutti andavano avanti sordamente, appena intaccati e immalinconiti dalla realtà; convinti di avere il sistema giusto per passare attraverso la rete. La città sembrava attirare e stimolare ogni possibile forma di illusione o ambizione stranamente riposta sul proprio conto.


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