Vinicio Coletti

Diario digitale

Stabat Mater

Romanzo
Tiziano Scarpa, Italia, 2008


Questo è uno di queli libri che non avrei letto, se non me lo avessero regalato lo scorso agosto per il mio compleanno. Entrando in libreria e notando una pila di libri con la fascetta di "Vincitore del Premio Strega 2009", avrei tirato dritto. Che ci volete fare, sono fatto così, non è snobismo, è solo che odio intrupparmi con qualsiasi truppa e comprare tutto quello che comprano gli altri.
Invece questa volta devo ringraziare del regalo, perché ho scoperto un romanzo bellissimo.
Per capirci, è la stessa operazione fatta da Marguerite Yourcenar con le sue Memorie di Adriano, che consiste nell'entrare nel corpo e nell'anima di una persona lontana nel tempo e nello spazio, diversa come genere, aliena quanto più non si potrebbe, e farla poi parlare.
Così il nerboruto Tiziano Scarpa, veneto del XXI secolo, diventa una esile fanciulla del XVI secolo, ospite di un orfanotrofio e che scrive lettere immaginarie alla madre sconosciuta, a colei che la abbandonò appena nata davanti alla porta dell'Ospedale della Pietà di Venezia.
Certo, con ciò non voglio dire che l'autore sia allo stesso livello della Yourcenar, però promette bene.
Il libro è tutto in prima persona, una vista in soggettivo, come direbbero al cinema, per cui il lettore impiega un po' a scoprire tutti i dettagli. Anzi, la soggettività è tale che è come svegliarsi nel corpo di un altro e vedere ciò che vedono i suoi occhi, come capitò un bel mattino al sig. Gregor Samsa, anche se qui siamo più fortunati...
Così pian piano capiamo che il protagonista è una donna, anzi una ragazza molto giovane, che vive in un luogo pieno di lunghi corridoi e vaste sale, gestito da suore, che intorno c'è acqua, anzi dei canali, che non c'è traccia di nessun aggeggio moderno, e così via.
Diventa così chiaro che siamo nella Venezia di alcuni secoli fa, nel ben noto Ospedale della Pietà, dove lei, Cecilia, immagina di scrivere alla madre sconosciuta e parla con la morte, trascorre le sue giornate in modo sempre diverso, ma sempre in fondo uguale, è piena di fantasie ed angosce.
Le suore insegnano alle ragazze tutte le materie e fanno anche studiare loro la musica. Scopriamo così che Cecilia ha iniziato fin da piccola a suonare il violino e che fa ora parte della rinomata orchestra della Pietà. Ha talento, come scopre don Antonio, il nuovo compositore e violinista arrivato da poco a dirigere l'orchestra.
Strano personaggio, questo don Antonio, vitale, esuberante, rosso di capelli, ma non sarà mica... Eh sì, è proprio lui! Compone tra lo stupore generale quattro concerti che imitano i suoni della natura nelle diverse stagioni dell'anno. E' Antonio Vivaldi.
Il quale, come dicono le biografie, passò oltre trent'anni della sua vita proprio all'Ospedale della Pietà di Venezia, componendo molte delle sue celebri musiche, ad eccezione però delle Quattro Stagioni, che risalgono ad un'epoca successiva. Ma questa è una semplice libertà narrativa di cui l'autore stesso ci informa in una nota a fine libro.
Ed è proprio alla fine del libro, quando la musica entra da protagonista nella storia, che ci si rende conto che fin dall'inizio il romanzo ha seguito un ritmo musicale, con i ritornelli degli eventi, mai del tutto identici, la melodia dei sentimenti, l'armonia dei paesaggi e delle atmosfere.
Pensavi di leggere un libro e stai invece scorrendo uno spartito.
Ho avuto un'altra fortuna nel leggere questo romanzo, oltre a farmelo regalare: ho saltato a pie' pari ogni nota di copertina, dove si spiega che siamo in un orfanotrofio e che tra i protagnosti c'è Vivaldi, così da scoprire man mano da solo ogni dettaglio.
E' così che andrebbe letto questo libro, per cui se volete regalarlo ad una persona cara, seguite questi semplici consigli: togliete la fascetta del Premio Strega e la copertina di carta, conservandole con cura, e date il libro nudo, nel suo bel cartoncino verdastro. Poi, quando sarà stato letto, consegnerete anche la copertina e la fascetta del meritatissimo premio.


Alcuni brani:
 
Striscio fuori dalla camera, percorro un corridoio lunghissimo, mi infilo in un passaggio quasi invisibile che solo io conosco e salgo sulla piccola scala che porta a un pianerottolo, sotto una porticina chiusa. È una delle tante scale dell'edificio. Mi siedo su quei gradini, in alto. D'inverno mi addosso al muro, dove passa la canna fumaria di una stufa, i mattoni sono caldi. Rimango seduta per un po' sulla sommità della rampa, finché l'angoscia non mi passa. Sotto di me sento le scale che sprofondano fino al centro della terra. Mi aggrappo alla ringhiera, per non precipitare anch'io.
 
Signora Madre, se vi scrivo anche dentro il pentagramma è perché non trovo altri fogli per voi, ma forse anche perché queste parole sono la melodia del mio pensiero che vi canta. Vanno avanti dritte sempre sullo stesso rigo ma non sono una nota monotona. Quando riesco a scrivervi nella riga occupata dal testo del Kyrie, dell'Alleluja, allora le mie frasi le potreste cantare in coro, come un salmo, o da sola, come il recitativo di un mottetto, accompagnata dal clavicembalo.
 
Signora Madre, vi chiedo perdono, non ho il diritto di chiamarvi così. Io non so nulla di voi. Non so perché mi avete abbandonata così, sedici anni fa. Forse siete morta mentre nascevo, siete morta di parto e qualcuno mi ha portata qui invece di lasciarmi morire accanto a voi, o invece di affidarmi a qualche altra famiglia dove sarei stata considerata una figlia di seconda categoria, mi avrebbero trattato come una serva, una schiava. Forse vostro marito è morto in battaglia, in nave, come il padre di Antonia, durante la vostra gravidanza, voi avete tanti altri figli e non sareste riuscita a farci crescere tutti con le vostre forze, da sola, sapevate che se mi aveste tenuta con voi io sarei morta di fame. Forse, forse, forse.
 
Ha scritto un pasticcio di suoni che imitano i rumori delle stagioni. Ha copiato l'idea che avevo avuto in classe con le bambine.
Le due piccole frasi musicali all'inizio del concerto primaverile si chiudono con una nota più lunga, una rondine che stride. Il suo verso incide l'aria, incide il cielo per versare fiotti di aria nuova da quel taglio.
- Non siate così aggraziate, fate gridare la rondine alla fine della frase! - ci ha detto don Antonio alle prove.
Nelle prime note si sentono arrivare le rondini. Poi il calore si irradia nell'aria, l'acqua si libera dal ghiaccio e corre via, di colpo un temporale fa tacere gli uccelli, ma dura poco, il pastore russa dopo il pranzo, il cane abbaia, si danza prima del tramonto, uomini e donne fanno festa...


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Pubblicato il 18 settembre 2009