Questa è una delle rare volte che mi è capitato di leggere un cosiddetto libro di viaggio, ovvero
il racconto di chi viaggia in luoghi distanti e molto diversi da quelli a cui siamo abituati.
In questo caso Lisa Ginzburg si è recata nella città di Salvador da Bahia, capitale dello stato omonimo facente
parte della repubblica federale del Brasile.
Salvador è notissima nel mondo, per vari aspetti. Tanto per cominciare, è la patria di musicisti brasiliani tra
i più famosi, tra i quali possiamo ricordare Dorival Caymmi, Daniela Mercury, Ivete Sangalo ed anche Caetano Veloso,
che è nato in una cittadina poco lontana.
Poi è la patria della cultura afrobrasiliana, visto che oltre il 90% della popolazione è di colore, discendenti
degli schiavi africani che furono portati dai portoghesi a lavorare nelle piantagioni dell'immenso paese.
E la cultura africana, mescolata a quella dei colonizzatori europei dalle origini più varie, ha dato origine
ad un ambiente umano e culturale dalle caratteristiche originali che, a quanto pare, affascina chiunque si
avvicini per conoscerlo o studiarlo.
Sull'originalità c'è poco da discutere, basti pensare al sincretismo di fatto della religione popolare, che
mescola tranquillamente gli dèi della natura di orgine africana (gli oxalà del candomblé) con i santi della religione
cristiana, così che una processione in onore di un santo è, allo stesso tempo, un tributo ad uno degli
oxalà.
Più che un pedante resoconto di viaggio, l'autrice svela immagini e sensazioni derivanti dalla visita ai
vari quartieri e luoghi di questa incredibile città, dai borghi che sono più poveri delle città africane, secondo
seri studi sociologici, fino ai ricchi quartieri della poco numerosa borghesia, per lo più di orgine europea,
dalle spiagge assolate alle piazze spazzate da una pioggia interminabile, dagli infiniti discorsi che la
gente si scambia nei bar alla follia del carnevale.
Libro senz'altro interessante, se appena si è interessati al Brasile o a Salvador, davvero godibile.
Alcuni brani:
Dal mare, in lontananza, grattacieli bianchi a grappoli. Oltre al bianco: tutti i colori delle spiagge, il
grigio e il marrone delle case dei bairros, i quartieri più poveri, l'azzurro, il rosa e il giallo
ocra delle case del centro storico, il Peolurinho. Colori distribuiti come un di più su una consistenza
che non ha bisogno di toni. La limpidezza entusiasmante dell'atmosfera. La cappa umida di quando fa
caldo. Il cielo che si scatena senza pause quando piove. L'oceano, le onde lunghe al largo della baia.
Qui i sensi avvertono qualcosa che è nell'aria, e in esso trovano risposta.
Sembrerebbero esserci due tempi. Uno corrisponde al fato, l'altro alla contingenza della vita quotidiana.
Il tempo del fato è lentissimo. Quello quotidiano, molto veloce. "Dio scrive dritto, ma su righe storte",
dice un proverbio brasiliano.
Città doppia. Doppia identità sociale, con conseguente oscillazione, dolorosa, tra ricchezza e povertà.
Doppi stati d'animo, per cui dalla incontenibile allegria ci si trova catapultati in tristezze senza scampo.
Questa e altre due ladeiras, la Ladeira da Misericordia e la Ladeira da Montanha, vennero riprese
da Orson Welles in una sua breve visita alla città, nel 1942. Welles rimase molto colpito. Definì
Salvador "un luogo fuori dal comune".
È una chiesa cattolica evangelica, un binomio che solo in questo universo sincretistico può
assumere un suo senso compiuto. La Igreja de São Lázaro. Lazzaro: quella icona di martirio
(le gambe devastate dai morsi dei cani) che il sincretismo baiano associa all'orixà Omolú,
curatore di anime e di corpi, vecchio appestato dal vaiolo per quanti sono i dolori dei quali si fa carico.
A tenere messa nella Igreja de São Lázaro, il lunedì mattina, è una donna. La carnagione
mulatta ai limiti del chiaro, i capelli lunghi raccolti in una grossa treccia, la montatura nera degli
occhiali che accentua lo sguardo fermo, segno del carattere forte.
[...] alzando in alto gli occhi si può vedere un gigantesco crocifisso. Sta incastonato nel declivio
della collina. È coloratissimo: verde rosso giallo (i colori dell'axé). Ai piedi del
Cristo, a caratteri cubitali (tanto da poter essere letti a grande distanza), sta scritto "Vida".
Più che un crocifisso, pare un totem. Così allegro, impertinente, fragoroso. Simbolo, anch'esso, di
questo mondo solo all'apparenza sregolato.
Tra un gruppo musicale e l'altro, il presentatore espone uno dei concetti fondamentali qui, quello di
curtir (a mezzo tra "godere" e "approfittare"). È una versione edonistica della presenza
mentale predicata in Oriente. Godere di ogni istante, senza pause, e senza troppo distinguere i momenti
buoni dai cattivi. Semplicemente approfittare e gustare, vivere ogni momento come fosse l'ultimo.
"Morissi stasera", senti il presentatore declamare nel microfono, "dovrei poter dire di aver approfittato
davvero di tutto...".
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