Questo è il primo libro di Massimo Carlotto che mi trovo a leggere e sono arrivato a queste pagine
seguendo le tracce della musica e dell'arte di Patrizia Laquidara, che canta negli spettacoli
musicali ispirati a questo romanzo. Massimo Carlotto, reduce da una controversa vicenda giudiziaria
iniziata negli anni '70, è poi divenuto uno scrittore noir di successo ed anche questo libro,
leggiamo nel sottotitoli, è un noir mediterraneo.
Ed in effetti una storia tormentata di crimini e slanci affettivi c'è, nel libro, ma fa solo
da canovaccio a quella che vuole essere, si suppone, la ricostruzione storica, anche se
liberamente interpretata, di ciò che avveniva ad Algeri nel sedicesimo secolo.
L'ambientazione del racconto non potrebbe in effetti essere più precisa: mercoledì 19
ottobre 1541 ad Algeri, costa dei barbari, allora possedimento dell'impero ottomano.
Giorno non come tutti gli altri, perché segna l'avvicinarsi della flotta di Carlo V, re di Spagna
ed imperatore del Sacro Romano Impero, deciso a conquistare la bianca città nordafricana, già
da tempo fonte di grattacapi per tutte le potenze mediterranee, a causa della massiccia presenza
di navi corsare.
Ed è proprio dei corsari, soprattutto, che parla il libro, perché la Algeri dell'epoca
aveva una struttura sociale davvero singolare. Città islamica e arabizzata da secoli, divenuta
da qualche decennio possedimento dell'impero ottomano, dunque dei turchi, era abitata da una
popolazione eterogenea fatta da arabi, berberi, militari turchi (i famosi giannizzeri), rinnegati
europei e schiavi. I rinnegati erano curiosi personaggi che, per un motivo o per l'altro, avevano
deciso di abbandonare l'Europa e di rifugiarsi ad Algeri, dove per forza di cose si erano convertiti
all'islam ed erano divenuti corsari sui mari.
L'attività principale della città, in effetti, era proprio la pirateria e la razzia. Le navi partivano
da Algeri e assalivano le zone costiere dell'Italia, della Spagna e del Portogallo, spingendosi
talvolta persino fino alle isole britanniche. I villaggi assaliti erano depredati di tutti i loro
beni, le case spesso incendiate, e gli abitanti catturati e portati ad Algeri, dove venivano
venduti come schiavi in un apposito mercato regolamentato. Il bottino veniva diviso in modo
equo tra i corsari ed una parte di esso andava a remunerare i finanziatori della spedizione.
Che questa dura realtà sia durata secoli è testimoniato dalle innumerevoli torri di avvistamento
presenti sulle coste mediterranee, finché nel 1816 una spedizione anglo-olandese guidata da
Lord Exmouth distrusse il porto e tutte le navi corsare ivi ormeggiate.
Tutto chiaro quindi: i cattivi sono i corsari islamici ed i buoni sono le potenze cristiane. E
invece no, perché si scopre che i finanziatori delle spedizioni erano spesso degli europei
residenti ad Algeri, magari anche collegati direttamente alle potenze dell'epoca. E poi
molti corsari, abbiamo visto, non erano altro che veneziani, spagnoli, siciliani, sardi, ecc.,
che avevano deciso di fare questa vita, per scelta o per le circostanze della vita.
Alcuni di loro avevano addirittura raggiunto i vertici del potere locale, come Hassan Agha, di
origine sarda. Quanto alla ferocia, poi, se i corsari non ne risparmiavano, altrettanto si
può dire delle potenze cristiane, pronte a massacrare senza ritegno intere città, anche dopo
aver promesso loro clemenza (Tunisi, 1535).
Inutile quindi cercare i buoni e i cattivi nel racconto, inutile cercare una presa di parte,
perché Carlotto ce la mette davvero tutta, e si vede, nel raccontare gli orrori degli uni
e degli altri, con crudele imparzialità. È un noir, no? E se proprio si vuole
parlare di scontro di civiltà, beh, qui ci si ricorda del fatto che questo scontro, in fondo,
c'è già stato.
La storia è raccontata in prima persona da parte di Redouane, albanese arruolato come
mercenario nei lanzichenecchi, con i quali partecipa al sacco di Roma del 1527 (tre giorni
di sventramenti e stupri "per grazia dell'imperatore e con la benedizione dei preti"), che poi
durante l'assedio di Firenze conosce il mercenario tedesco Othmane, di cui si innamora
perdutamente. Ma poco dopo i due amanti sono scoperti e per evitare il rogo sono costretti
a fuggire lontano e finiscono ad Algeri, con Redouane che diviene capitano di una nave corsara.
Eh già perché, altro apparente paradosso, se l'omosessualità all'epoca era bandita e punita
con la morte in tutto l'occidente cristiano, nella costa dei barbari era tollerata, non per
motivi religiosi (l'islam è altrettanto rigoroso su questo tema), ma per il melting pot
di culture, religioni, lingue ed etnie, che invitava alla tolleranza. Scherzando un po', potremmo dire che
la Algeri dell'epoca era globalizzata.
Abbiamo così a che fare con un vero romanzo storico, dove seguendo le vicissitudini dei
protagonisti percorriamo allo stesso tempo anche gli eventi di quell'epoca lontana. C'è
naturalmente da chiedersi, come per ogni romanzo storico, quanto sia accurata ed affidabile
la ricostruzione di Carlotto, perché è evidente che i gradi di libertà sono molteplici.
Non sono in grado di dare un giudizio in questo senso, non essendo uno storico, ma la
sensazione è quella dell'esperimento riuscito, anche perché i tratti principali del
disegno sembrano esserci tutti: i corsari, i rinnegati, le autorità religiose, l'assedio
di Carlo V, la lingua franca utilizzata come mezzo di comunicazione, i turchi con
i loro giannizzeri, corpo militare dalle caratteristiche davvero peculiari, e poi gli
schiavi europei che cercano in qualche modo di cavarsela.
Ed è proprio la figura di una schiava, verso la fine del racconto, che esce prepotentemente
alla ribalta in quello che poteva sembrare un racconto declinato tutto al maschile, una
cantante veneziana dallo sguardo penetrante e dalla voce dolce e suadente, una voce magica
capace di guarire ogni ferita dell'anima.
Massimo Carlotto ha presentato il suo libro in molte città italiane, attraverso
uno spettacolo teatrale tratto dal suo romanzo.
Nello spettacolo Carlotto recita alcuni brani del suo racconto,
mentre dei musicisti eseguono dei pezzi ispirati alla tradizione mediterranea.
Mauro Palmas al liuto cantabile, Maurizio Camardi ai fiati, Rachele
Colombo alle percussioni e la bravissima Patrizia Laquidara, alla meravigliosa voce capace
di ogni virtuosismo, danno corpo ed anima ad un'opera già di per sé interessante.
Allegato al libro, c'è un CD con le musiche dello spettacolo, ma consiglio, se capita,
di seguirlo dal vivo, perché è un'esperienza musicale davvero interessante.
La musica, come si sa, è un' arte che rifugge dai conflitti. Mentre persino
la poesia può parlare di odio e può essere usata come un'arma, quando i musicisti si incontrano,
finiscono sempre per unire i loro talenti, creando spesso nuovi stili e nuove emozioni. In un mondo
pieno di conflitti, e che sempre lo è stato, c'è da essere felici quando si realizzano
incontri musicali e culturali come questo.
Alcuni brani:
"Credo di non dispensare un cattivo consiglio nel ricordarvi che ritornare all'unica vera fede
potrebbe contribuire a salvare non dico le vostre vite, ma certamente le vostre anime" sbottò
padre Jacobo a voce alta. "Pentitevi e consegnate la città, in nome del Salvatore!".
Il beylerbey liquidò la faccenda con un gesto annoiato della mano. "Vi prego, priore, abbiamo
fatto tanti buoni affari insieme, non costringetemi a perdere la pazienza" lo ammonì bonariamente.
"Era mio dovere mettervi in guardia" chiarì il prelato in tono più conciliante.
"Dovresti essere preoccupato quanto noi, maledetto prete" sibilò Rachid Rais, un corso che comandava
una grossa galea. "Se il tuo cattolicissimo imperatore conquista Algeri, perderai le tue percentuali
sui riscatti".
"Non sono mie, ma dell'ordine" sottolineò stizzito padre Jacobo.
Scoppiammo a ridere. "E il danaro di tutte le commissioni che sbrighi per noi? Anche quello finisce
nelle casse dei trinitari?" chiese Mami Giudeca, un rinnegato veneziano basso e tozzo come il fusto
di una bombarda. "Pensate che il mese scorso ha preteso un compenso di quarantotto scudi d'oro spagnoli
per recapitare alla mia famiglia un carico di pelli e lana".
"E a me" intervenne Karim, un corsaro originario di Messina, "ha chiesto la decima di un prestito
che dovevo riscuotere a Malta".
Ovunque due mercenari sodomiti erano destinati alla morte. Mi ero ricordato però che Kheir ed-Dine
veniva dal mio paese e che forse gli avrebbe fatto comodo avere due spade in più al suo servizio.
E così avevamo raggiunto Algeri alla fine di un lunghissimo viaggio ed eravamo diventati corsari
e rinnegati. Avevamo affrontato il rasoio del barbitonsore che ci aveva mozzato il prepuzio e
rasato il capo, eccetto un ciuffo sulla parte anteriore chiamato zerro, il segno distintivo dei
convertiti. Di fronte al muftì avevamo dichiarato che "Non v'è altro Dio che Dio e Maometto è
il profeta di Dio". Eravamo stati rivestiti di abiti sontuosi e portati in giro nella città in sella
a cavalli di grande bellezza perché tutti sapessero che altri due cristiani avevano trovato la
vera fede. E così il nostro amore era diventato finalmente libero e pubblico. Il Corano ci
condannava, ma le autorità religiose musulmane, che non esercitavano alcuna pressione per le abiure,
erano tolleranti e sapevano bene che la nostra era una conversione di comodo. Così come sapevano bene
che Algeri era ricca e prospera solo grazie al gran numero e al valore dei rinnegati, dai quali
esigevano in pubblico il rispetto della zakat e del guadoc, le prosternazioni che accompagnavano
le preghiere e le abluzioni rituali che le precedevano.
Il corpo d'armata italiano non si aspettava una controffensiva. Violava ogni regola di guerra
d'assedio, ma Hassan Agha era corsaro, rinnegato e castrato. La peggiore feccia di nemico che
un nobile potesse affrontare. Mentre mauri e berberi attaccavano i trinceramenti cristiani a
Ras Tafoural, i giannizzeri travolsero e sbaragliarono gli italiani, mettendoli in fuga. La
massa di soldati in preda al panico fendette e divise come una lama il resto dell'esercito
costringendo l'imperatore a chiedere ai cavalieri di Malta di arginare l'avanzata del nemico.
I giovanniti attesero il nemico immobili come statue e ressero l'urto senza cedere un solo
metro di terra. Ben presto più di duecento turchi rimasero sul terreno e gli ufficiali diedero
l'ordine della ritirata. I cavalieri cristiani li inseguirono fino alla porta di Bab Azzoun
dove Ponce de Balaguer, cavaliere di Savignac, postastendardo dell'ordine, conficcò la spada
nel legno gridando: "Ritorneremo".
Le navi corsare erano scomode e inospitali, ma per fortuna le crociere normalmente non
oltrepassavano i due mesi e le razzie ci permettevano di scendere a terra e procurarci acqua
fresca e pulita, frutta e carne. Nessuno di noi si preoccupava tuttavia dei tanti disagi:
il nostro unico obiettivo erano i bottini. Nelle annate buone si usciva in mare due volte e il
resto dell'anno lo si trascorreva a oziare e a godersi il guadagno. In quale altro paese del
mondo un uomo nato povero, senza stemmi e senza istruzione avrebbe potuto ambire a una vita
tanto privilegiata?
Non ricordo per quanto tempo rimasi in balìa di quei pensieri che si attorcigliavano come le onde
nella risacca di scirocco. A un certo momento aprii gli occhi e vidi accanto al letto Lucia, la
cantante veneziana. Mi fissava in silenzio, i suoi occhi non erano pieni di odio come quella
volta al mercato degli schiavi, ma erano anche privi di ogni traccia di benevolenza o pietà.
Sul volto aveva i segni delle carezze di Mami Giudeca.
"Cosa vuoi?" domandai con un filo di voce.
Si fece avanti il vecchio Ahmed. "I musici dicono che la sua voce è miracolosa e potrebbe
guarirvi".
"Mandala via".
Il servo non ubbidì e fece segno a Miali e Soghomon di darsi da fare. Le note invasero la stanza
e poco dopo lei iniziò a cantare. Cantò ancora e ancora. La sua voce mi entrò dentro e come
un unguento calmò il dolore e allontanò la follia che si stava impadronendo della mia mente.
All'improvviso calò il silenzio. "Canta ancora, ti prego" la supplicai.
"Promettimi di restituirmi la libertà che mi hai tolto e canterò ancora per te" disse in un
sabir approssimativo.
"Appartieni a Mami Giudeca" le ricordai.
"Mami Giudeca mi sta uccidendo".
"D'accordo, te lo prometto".