Vinicio Coletti

Diario digitale

11 febbraio 2002

Il cielo degli ultimi

Articoli
di Maria Grazia Cutuli, Italia, 2001
144 pagine, editore Corriere della Sera

Come è noto, il 19 novembre 2001, sulla strada che va da Jalalabad a Kabul sono stati uccisi due giornalisti: Julio Fuentes, del Mundo, e Maria Grazia Cutuli, del Corriere della Sera, che ha deciso di pubblicare questa raccolta di articoli della giornalista italiana.
Ciò che colpisce, in questo libro, è innanzitutto la molteplicità di luoghi visitati e la loro tipologia. D'accordo, il mestiere dell'inviato è proprio questo, ma si può dire che non ci sia posto pericoloso e marginale del mondo che non sia stato toccato dallo sguardo curioso di Maria Grazia, empatico e indagatore al tempo stesso.
Il titolo della raccolta ne descrive molto bene il contenuto, perché i protagonisti sono, sempre, i poveri, gli emarginati, bambini e donne colpiti dalla guerra o da qualche altra delle tante tragedie contemporanee. Persone, esseri umani, la cui dignità emerge con forza dalle righe, sotto ogni cielo, ad ogni latitudine.


a pag. 93-94, da Con i nomadi ad inseguire le nuvole, 20 maggio 2000
 
Se la maggior parte dei Peul ha ceduto alle lusinghe della vita sedentaria, i Bororo hanno conservato l'antica attitudine alla libertà. Da nomadi sanno che il deserto crea nemici e impone alleanze stagionali. Si trovano spesso a dover fronteggiare in scontri e battaglie gli altri signori della regione, come i Tuareg. La siccità li porta ad avvicinarsi ai contadini e ai loro campi. I patti prescrivono che i nomadi forniscano latte ai coltivatorie questi li ripaghino con miglio e sorgo. La convivenza sfocia spesso nell'odio. L'anno scorso i giornali locali parlavano di ronde, armate di bastoni e coltelli, istituite dai contadini per difendere le terre dalle scorribande dei Bororo. Le pesudomilizie normalmente completano l'opera con razzie di vacche, prese in ostaggio in cambio di riscatti sempre più onerosi. Dalla loro parte hanno i regimi degli Stati del Sahel, ostili ai nomadi, in quanto individui poco controllabili con i loro spostamenti di frontiera in frontiera. Il risultato è che i Bororo vivono in un perenne sentimento di minaccia, al punto da dare ai figli nomi fittizi per sottrarli a vendette o maledizioni. Temono gli uomini e allo stesso modo gli spiriti maligni e le loro infauste influenze. La loro vita si svolge nel wuro, nuclei di famiglie regolate da un ferreo codice sociale. Attorno c'è la savana "con il suo valore simbolico", scrive Marco Aime: spazio di libertà, di amori clandestini, di incontri notturni segreti.
Anche i matrimoni vengono celebrati dopo, al chiarore della luna, come tutto ciò che riguarda il congiungimento trai due sessi. Pure il gerewol, la festa annuale che ha luogo subito dopo la stagione delle piogge, si apre al mattino, ma si conclude nelle tenebre. E' una corte d'amore, un preludio d'unione, uno sfoggio di acconciature, abiti, gioielli, una passerella di vanità. I Bororo coltivano la bellezza come bene supremo. I maschi si imbellettano il viso con polvere ocra e grasso. Aprono le danze roteando le spade. Ammiccano, sorridono, strabuzzano gli occhi, mettendo alla prova le proprie capacità di seduzione. Sono le donne che con un gesto furtivo della mano indicano l'eletto. Appena le coppie si formano, il ballo riprende, incessante fino all'alba. Per stordirsi. Per dimenticare che la stagione secca tornerà presto a trasformare il deserto in un mare di brace.


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