Baricco mi ha sempre suscitato sentimenti contrastanti. Che sappia scrivere, nessun dubbio;
che sappia creare dal nulla degli sfaccettati universi fantastici, è evidente. Ma c'è, forse, a
volte, qualche piccolo eccesso che dà una vaga sensazione di artificiosità alla scrittura,
sensazione che in qualche raro caso sconfina nel fastidio se non nell'irritazione. Così.
Forse non è però il caso di questo libro, specie se ci ripenso ora, qualche mese dopo averlo letto.
Abbiamo qui un piccolo mondo antico, ottocentesco, in cui inventori strampalati cercano di
intrappolare il suono nei tubi metallici, costruiscono organi umani dove ogni
corista emette sempre e soltanto una singola nota ed in cui l'industriale locale, versione
moderna del feudatario, si fa prendere dalla passione per i treni.
Un mondo antico, quindi, ma moderno, che subisce l'impatto della nascente società
dei trasporti rapidi e del vetrocemento. Probabilmente il pregio maggiore del libro è
proprio quello di mescolare sapientemente la favola della cittadina immaginaria di Quinnipak
con eventi veri come l'invenzione della locomotiva e la costruzione del Crystal Palace a Londra,
aneddoti compresi.
Ed è veramente molto divertente seguire l'interazione di reale ed immaginario, dei treni di
Stephenson e della locomotiva di cui si innamora, letteralmente, il signor Rail, posseduto
da quella stessa passione ed ostinazione che ha sempre portato, e porta tuttora, gli
uomini al successo. O alla rovina.
Alcuni estratti:
Di tanto in tanto il signor Rail tornava. Di regola ciò accadeva un certo tempo
dopo che era partito. La qual cosa testimonia l'ordine interiore, psicologico e
si potrebbe dire morale del personaggio. A modo suo il signor Rail amava
l'esattezza. |