VALLARSA NOTIZIE N° 28 agosto 2001 pag. 44,45,46,47


TAISSAR PER NO DESMENTEGAR
Latte di malga



... il rumore dei secchi e del latte in essi versato si ode nel silenzioso mattino. Mi alzo dal letto e corro giù in un batter d’occhio... Il latte odoroso di malga si materializza grazie a pratiche quasi rituali che si svolgono attorno ad ogni animale... Dentro la stalla fa molto caldo e fuori le manze non si vedono ancora pascolare: saranno più sotto, fra gli alberi, dove avranno trascorso la notte.



Ancora due o tre vacche e la mungitura sarà terminata.
Il mattino è molto importante, il preannuncio di una bella giornata significa intenso lavoro e soddisfazioni future. Gli animali vengono liberati e portati al pascolo dove ci rimarranno fino a sera.
La stalla viene pulita accuratamente e gli attrezzi per la mungitura lavati con cura.
Quando il lavoro è momentaneamente finito tutto sembra fermarsi ad aspettare, come quando si respira un attimo per riprendere fiato e solo, il quasi impercettibile oscillare delle cime dei grandi abeti, è presente, a testimoniare che fra poco riprenderà il moto perpetuo degli avvenimenti...

DIEPOLZ, luglio 1989

Per parlare di malghe e di alpeggio ho voluto far precedere queste mie considerazioni trovate fra mille scartoffie nel momento del consueto ribaltone primaverile che la mia dolce consorte giustamente mi impone per riporre un po d’ordine in casa.
Anche quest’ anno però non sono riuscito a staccarmi dai ricordi della Baviera e dei lunghi mesi estivi trascorsi nel maso tedesco, così i quaderni di appunti e annotazioni sono rimasti nel solito luogo della casa.
Ogni anno all’arrivo della bella stagione e delle vacanze scolastiche, penso con nostalgia al tempo in cui, finita la scuola, andavo in Germania e, per quasi due mesi, vivevo immerso in un mondo diverso fatto di pascoli, di vacche, di caprioli, di latte di malga; un mondo, per un certo verso, molto simile a quello delle nostre malghe e dei nostri alpeggi.
Un altro di quei mondi destinati, inesorabilmente, a divenire desueto ed a far parte dei nostri ricordi.



Cargàr la malga

Grazie all’amore di pochi uomini per questo duro lavoro, è possibile ammirare ancora in Vallarsa, nei mesi d’estate, qualche decina di vacche pascolare sui prati d’alta montagna. I turisti in gita domenicale si fermano in queste malghe come fossero davanti ad un luogo fuori del tempo e per questo cercano il casaro o il malgaro come persone molto speciali; bevono assieme un bicchiere, scambiano due parole e poi comprano del formaggo o se ne è rimasta, della ricotta.
Ma in tempi passati era diverso, poiché l'alpeggio voleva dire tre mesi di lontananza dal paese e quindi dalla famiglia, nonché una vita dura e da condividere con quattro o cinque persone. Per i più giovani voleva dire solitudine malinconia.



Non si sa con precisione per quale antica tradizione ma, in molti luoghi del trentino, le vacche si portavano all alpeggio il giomo di S.Antonio (13 giugno): si usava dire anche cargàr malga.
Molto dipendeva anche dall’altitudine e quindi dalla disposizione di erba verde, ma il periodo della partenza era, solitamente, i primi giorni del mese di giugno.
Il bestiame veniva radunato nelle piazze dei paesi e quindi, a piedi, si percorreva il tragitto che conduceva alla malga.
Gli abitanti di Aste, Cumerlotti, Riva e Bruni, ad esempio, consegnavano i loro armenti ai malgari di Malga Zocchi, sul Pasubio, nentre quelli di Staineri e S.Anna conducevano il loro bestiame alla Malga Bovetal sull Alpe di Campogrosso.
Qualcuno mi ha detto che, i quei tempi, in un paese come Staineri si potevano contare anche un’ottantina di vacche escludendo il bestiame giovane.
La malga era di proprietà comunale e veniva data in affitto. Normalmente era formata da più edifici tra i quali, il principale era quello dove si lavorava il latte che contemporaneamente serviva da cucina. La stalla invece costituiva una struttura a sé ed era molto grande per dare riparo al numeroso bestiame; c’era inoltre la stalla per i maiali e il cortile per le galline.
Fin da piccolo ho sentito pronunciare da più persone il detto "El prim di de malga no se fa formai", ovvero "Il primo giorno di malga non si fa formaggio"; per indicare, più in generale, che l’inizio di un lavoro qualsiasi prevede un certo tempo, apparentemente infruttifero, per organizzarsi e preparare gli attrezzi; proprio come il giorno di arrivo delle vacche in malga in cui non si può fare formaggio.
Fra coloro che salivano in malga ve ne era però uno, il garzone detto scotòn, che di frequente partiva alcuni giorni prima della data stabilita, ed a lui aspettava il compito di preparare gli attrezzi per il casàro, di rimettere in ordine e quindi preparare pulito, nonché fare la legna per il focolare.
La figura del garzone era solitamente quella di un giovane che doveva aiutare il casàro nella lavorazione dei latte.
Un altro garzone invece avrebbe aiutato il malgaro nella vita di malga. Il malgaro si occupava del bestiame: lo accudiva e si preoccupava del buon funzionamento dell’allevamento.
Vi erano più malgari addetti alle vacche, ma uno solo era il capo (capo malgaro) che impartiva gli ordini e coordinava il pascolamento per evitarne l’eccessivo sfruttamento. La figura principale era però quella del casaro al quale era affidata la reputazione della malga stessa con i suoi prodotti: burro, formaggio e ricotta. Dalla sua bravura derivava la notorietà della sua persona e quindi della malga.


Vita di malga

Il lavoro in malga era molto faticoso e cominciava alle 4 del mattino con la mungitura. Malgrado l’avvento delle tecnologie e della forza meccanica, anche in tempi considerati moderni come quelli attuali, il ritmo di una giornata in malga è scandito, come allora, dal ritmo della natura. Il giorno comincia prima dell alba, con la mungitura, e termina ancora con essa la sera, al tramonto.



Tutti gli uomini mungevano un certo numero di vacche a mano aiutati da uno sgabello a una gamba e raccoglievano il latte in appositi secchi. Non c’era la comodità delle mungitrici meccaniche e le vacche davano, in media, circa 25 litri di latte al giorno e non 50 o 60 litri, come le vacche attuali.
Il casàro assieme al suo aiutante riponevano poi il latte nella caldèra, lo portavano alla giusta temperatura che variava in base al tipo di formaggio (dai 32° ai 35°C) e vi aggiungevano il caglio.



Il casàro determinava il momento della rottura della cagliata e della sua estrazione dalla caldèra, ma qui è molto difficile spiegare una tecnica che solo l’esperienza del bravo casàro può conoscere e solo la presenza sul posto può dare a comprendere.
Terminata la mungitura si consumava una frugale colazione a base di pane e latte, quindi si conducevano gli armenti al pascolo. In questa piccola comunità ad ognuno era assegnato il proprio compito, ma ai fini della buona convivenza tutti dovevano dare aiuto in caso di necessità. Alle 5 del pomeriggio le vacche venivano radunate nella stalla per la mungitura della sera.
Questo latte, messo in appositi contenitori per l’affioramento superficiale della panna, ovvero la sua parte più grassa, sarebbe servito per fare, l’indomani, il burro.
La giornata terminava con la cena poiché tutti andavano subito a dormire.
Un uomo che un tempo lavorò nella malga racconta: "Stanchi morti ci si addormentava quasi subito, accoccolati dai rumori dei campanacci. Le vacche continuavano a ruminare ancora per ore nei loro ricoveri e nella notte si sentivano continui rumori dei nostri animali e di quelli nel bosco. Dalle due alle quattro invece tutto taceva, anche le bestie nella stalla dormivano. Poi la sveglia del casàro dava inizio ad una nuova fatica".

Scarico della malga

I primi giorni di settembre gli armenti erano pronti a scendere a valle dove i loro proprietari sarebbero tornati ad accudirli per tutta la stagione fredda e a governarli nelle stalle di casa.
Durante la loro assenza il contadino aveva impiegato il suo tempo nei campi e alla fienagione. Il buon fieno avrebbe, d’ora in poi, sfamato le vacche nelle stalle, mentre le malghe tornavano ad essere deserte e l’erba dei pascoli a ricoprirsi di neve durante le fredde notti d’ inverno.
La discesa del bestiame dalle malghe era un vero giorno di festa e, in molte vallate, le vacche venivano adornate di fiori e di campanacci.
Ancora oggi, vi sono città che per un giorno all’anno, diventano il luogo d’incontro di centinaia di vacche addobbate di fiori e di campanacci, e molte persone accorrono alla festa ad ammirare i pastori divenuti per un momento gli eroi della montagna.

Attrezzi scomparsi

La mussa

La mussa era costituita da una parte in legno a simulare il braccio di un sollevatore al quale era appesa la caldèra.
Tale braccio poteva ruotare poiché il piantone che lo sosteneva poggiava in basso su un perno girevole e in alto era tenuto fermo da un anello metallico.
Tale movimento permetteva di spostare dal fuoco l’attrezzo principale e più prezioso della caséra, e cioè la caldèra. Visto che per l’ottenimento deI buon formaggio è molto importante la temperatura latte, era altresì necessario togliere e mettere all’occorrenza questo grande paiuolo di rame sul fuoco.

Il triso

Questo attrezzo costituito da fili di ferro tenuti in tensione da appositi traversi di legno posti all’estremità di un manico di legno serviva a rompere la cagliata.
Quest’ultima è una massa di latte coagulato dopo l’aggiunta del caglio, ricavato a sua volta dallo stomaco dei vitelli. La sua rottura pregiudica il tipo di formaggio che si intenda ottenere e per questo era una delle operazioni svolte rigorosamente dal casaro.

Le fasàre

Dopo l’estrazione della cagliata dalla caldèra grazie ad una tela di lino, essa veniva sistemata in sottili cerchi di legno di abete alti 12 cm. circa detti appunto fasàre, e qui, con un peso sopra, veniva lasciata ad asciugare.



Il burcio

Il burcio o, comunemente la zangola serviva a fare il burro.
Il tipo più semplice di burcio è costituito da un cilindro di legno nel quale veniva messa la panna del latte.
Un bastone provvisto di un disco all’estremità e passante attraverso il foro di un coperchio di legno serviva per sbattere energicamente tale panna fino alla formazione del burro.
All’interno del Museo della Civiltà Contadina si può ammirare anche un tipo di zangola a forma di botticella sistemata su un piedistallo di legno, funzionante secondo il principio rotatorio.

Attrezzi molto particolari erano quelli per scolare la ricotta fatti di sacchetti di lino appesi ad un cavalletto di legno con più traversi, a mo’ di graticola.
In essi veniva inserita la parte coagulata, dopo acidificazione, del siero di latte. Quest’ultimo era rimasto nella caldèra dopo l’estrazione della cagliata; portato a circa 82°C e aggiunto di una piccola dose di siero del giorno prima permette l’affioramento in superficie di minuscoli flocculi chiamati anche ricotta.
Questi flocculi venivano raccolti con uno speciale attrezzo bucherellato detto la spannarola.


Michele Dapor
Centro Studi Museo Etnografico Vallarsa




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