Giovedì grasso 1921: carri allegorici, coriandoli, la banda? No, no! Niente di tutto questo; ma ricordo bene una cosa.
Allora il povero Milio Polli (eletto campanaro) non abitava ancora nella casa attuale (Albergo Alpino), perché questa non era
ancora ultimata. Era stata progettata più grande di altre, nonché un poco più complessa, poiché il Milio, uomo energico e intraprendente, aveva iniziato il lavoro di macellaio e progettato anche qualche locale adatto a quell'uopo.
La sua famiglia viveva provvisoriamente in una baracca, residuato bellico, che fiancheggiava lo stradone sul lato ovest, naturalmente senz'acqua né luce.
Della prima ne era già fornita la casa del Remo Stoffella (Albergo Aurora) e forse, anche tutto il fabbricato trifamiliare a essa unito e che si apre sulla grande piazza.
Orbene, quel giovedì, "vacanza di Pinocchio", fossero le undici o l'ora di merenda non ricordo, girando per la piazza, incontrai il terzogenito del Milio Sandrino, cinque o sei anni.
Se ne stava seduto fuori della baracca e, in grande beatitudine, gustava un bel boccone dello "smacafame" che, in grossa fetta esibiva nella mano bisunta quasi fino al polso, come lo erano le labbra e la bocca tutt'intorno.
Io lo guardavo con invidia e acquolina "cercando di godere del suo" piacere, almeno nel pensiero.
"Cossa elo che te magni, Sandro?" - "L'è smacafame; la le ga fato me
mama!" rispose, rotolando le parole nel boccone. Eh, già! In casa del macellaio non mancano gli ingredienti per uno
"smacafame" insuperabile. Ma anche in altre case qualcosa si faceva: le "fortaie col sucro", i "peri còti" ... e poi in giro per il paese, con una maschera di pezza o con la faccia decorata col carbone.
Qualcuno indossava vecchi pantaloni lunghi o abiti femminili di qualche specie. Non mancava un ardito che aveva preparato la sorpresa dei trampoli.
Tornando al Milio, noto che egli aveva già piantato una piccola industria nel paesello, se la parola - industria - stà a significare "trasformazione di materia prima in prodotti di pronto consumo": dall'animale vivo alle carni fresche e ai vari salumi.
Bravo! Ma, gli artigiani, dov'erano questi?
Ecco: in estate tornavo a Parrocchia per le vacanze sospirare. Al mattino o al pomeriggio, spesso udivo colpi di martello provenienti dalla vicina casa Zorer: il Cherubino "cagliareto" era al lavoro. Se io ero disoccupato, correvo giù da lui a chiacchierare insieme, volentieri.
Se gli raccontavo degli studi ginnasiali, del rigido orario giornaliero in collegio, egli ascoltava con grande curiosità e meraviglia accompagnate da smorfie ed esclamazioni: "Eeh! Orco cane!" scuotendo il capo, braccio e martello sospesi.
Era un tipo simpatico a me, un po' inquieto. Talora mi mostrava certi scarponi tanto sfruttati che non sapeva dove mettervi mano. "Varda qua, che laoro! E dopo, magari i me porta quatro ovi, per paga! Cossa `n fao? Le go anca mi le galine! Ah, no la va cossì!"
Infatti, col trascorrere del tempo, usava lesina e spago sempre più di rado, per dedicarsi al piccolo scambio di merci varie, da un paese all'altro, pur non trascurando la terra, nè la presenza nel piccolo coro parrocchiale, in tutte le circostanze:
i Salmi delle vigilie di Natale e Pasqua, la festa, ogni "Messa da requiem" feriale, alle 6.30 magari da solo alle prese con il latino e il gregoriano. Affrontava il primo con disinvoltura appianando o deformando le parole.
Sapeva che dopo questa S. Messa seguiva un piccolo compenso per il coro.... La sua attività non si fermò in Vallarsa, perché sposatosi, si trasferì a Sacco, vicino al grande Adige al quale giunge anche l'acqua del piccolo caro Leno.
Quando si verificavano le piene del fiume, approfittava per recarsi sulla riva, armato di lunga fune e gancio, a fermare e recuperare legni vari non senza fatica. Ma, forse, non prevedeva... il povero Cherubino che tale operazione comportava qualche bruttissimo rischio proprio brutto!
Ma torniamo a Parrocchia dove lavoravano altri due artigiani: i falegnami Mario Zorer e Bruno Raoss. Il primo, però, scendeva ogni dì, in bici, a Raossi dal "Macia" per imparare l'arte e perfezionarsi. Il secondo si avviò bene all'arte sotto la guida del "Piona" (la pialla) suo zio.
In seguito, il Mario e il Bruno si trasferirono a Rovereto, dove ebbero modo di esercitare e perfezionare la loro bravura.
Sulla mulattiera che scende verso Speccheri (d'inverno con la neve, era la pista di bob dei ragazzi di Parrocchia) c'è il Maso dove viveva l'Emilia, sarta per uomo e signora. Non confezionava abiti in "top model", però sapeva rifinire decorosi vestiti maschili, per la festa;
inoltre poteva consegnare una piccola varietà di una certa moda femminina.
"e'l colo, el laso verto do tre centimetri?"- "No, no! Scolà, scolà. `n poco de più!"
Proseguiamo quindi verso Speccheri e la zona verso est del paese; qui termina la breve con valle di Prigioni (non c'era la diga) tra due ripide, alte pendici. Non molto lontano trovasi l'ultima casa di Speccheri con un'officina, dove lavoravano il ferro tre robusti fratelli Lorenzi: due zii e il padre del Rino Lorenzi, mio compagno di scuola. Il luogo era suggestivo, il lavoro pure;
tutto rifaceva pensare e vedere l'enorme fucina dell'Etna dove dirigeva l'aspro lavoro il dio mitico Vulcano (greco Efaistos).
I tre fratelli Lorenzi erano esperti nel trattare i metalli; sapevano preparare attrezzi da lavoro per casa e fuori, tubature e altro ancora.
Se talvolta ero mandato là da mio padre per qualche incombenza, io mi ci recavo volentieri per assistere allo svolgersi di quel lavoro.
Quando il ferro informe era molto infuocato tra i carboni alimentati dal mantice a pedale, allora il fabbro, con grossa pinza, lo toglieva dal fuoco e prontamente lo posava sull'incudine, presso la quale stava già pronto un fratello.
I due uomini iniziavano, subito, potenti alternati colpi di martello, mentre il primo volgeva il ferro in giusta posizione per il colpi alternato dell'altro; rapidamente, a ferro caldo.
"Sta' `n là che te ven le sginze `n te i oci!" - Seguiva il pronto raffreddamento, studiato, in acqua, per dare al metallo una giusta tempera. Si ripeteva, quindi, la fase del lavoro, finchè per gradi compariva una qual sagoma che si perfezionava in bella scure, o zappa o altro che fosse.
Alla fine mi accomiatava soddisfatto per risalire la via mulattiera verso casa.
E via, in cammino, su ...su.. fino all'ultima breve salita, ma più ripida, la quale termina alla piazza di Parrocchia... ma questo deserto?....
Ottant'anni son passati! E' la grande piazza di oggi: pulita, bene attrezzata, ma semideserta per gran parte della settimana.
Qui, mi pare, spira una lieve brezza che, dagli alberi, diffonde un fruscio e, forse, un lieve affilato lamento: sì, lamento che vien da alcune case abbandonate e chiuse per gran parte dell'anno.
Esse piangono nelle stanze fredde, senza luci, senza voci; nelle cucine dal focolare spento, sconsolate dal troppo lungo silenzio.
Piangono i conci bene squadrati del campanile, annoiati e tristi custodi, troppo a lungo solitari, della grande piazza che, pure, dà vita agli alberi superbi i quali la ombreggiano e devono donarci serenità e speranza.
Specialmente ai lodabili residenti e al Comune operoso, che l'ha ottimamente ristrutturata. - A voi, conci del campanile, raccomando infine di non piangere troppo.
Infatti la solitudine vostra è interrotta da frequenti giornate di feste, di animazione, di gente con novità varie e ricche di sorpresa. Altrimenti vi potrebbe venire la osteoporosi! -
Luigi Raoss
|