Quasi tutte le città e le borgate hanno un luogo di attrazione, o un monumento, o un illustre personaggio la cui fama varcò i confini. II luogo o l'opera d'arte, dei quali si vantano, sono polo di attrazione che si proietta più o meno lontano; bene lo sanno la cultura e l'industria turistica.
Bastano pochi esempi: Roma, con mille monumenti e opere d'arte; Firenze, con Piazza della Signoria e S. Maria del Fiore; Bologna, con la più antica università e le due torri pendenti; Cortina con l'alpinismo e lo sci.
Ora mi domando una cosa: anche Parrocchia (e la Vallarsa) potrebbero incolonnarsi in questa lunga fila? Ma con che cosa? Se non altro, con la grande piazza panoramica e lo splendido campanile (senza alcun campanilismo).
Questo, di stile barocco moderato, può confrontarsi con i più belli della regione, ognuno col proprio pregio. Ricche le sue decorazioni fatte di piccole e grandi cornici ben scolpite. La cella campanaria è riparata da quattro eleganti balaustre e sotto quattro grandi conchiglioni di marmo bianco.
La costruzione all'esterno è in bella pietra viva, di un azzurrino delicato, la quale, purtroppo, non è molto resistente alle intemperie e lo mostra con le rughe e le screpolature. Lo conosco bene il campanile io, come figlio del campanaro e sagrestano, nei primi sette-otto degli anni venti.
Quante volte contai gli interminabili scalini, su, su fino alla cella campanaria, da cui, prima di fare ciò che dovevo, non mancavo di godermi il meraviglioso panorama sulla valle, da sud a nord, mentre venivo accarezzato dalla brezza più vivace, lassù.
Sopra la cella campanaria, la torre è circondata dal grande cornicione "pedonabile" ornato, agli angoli, da quattro grosse guglie, sormontate da una grande palla di marmo bianco. Qui, la torre si innalza, più stretta, fino al grande cipollone di rame, modellato sulla - sottostante muratura ottagonale, alleggerita da quattro finestre quadrilobe grandi e bene armonizzate nell'eleganza complessiva.
Il cipollone si prolunga, con slancio, nell'estrema parte del campanile, la quale, ben modellata, termina sotto la croce ferrea, di setto-otto metri, artisticamente lavorata.
La pietra è scolpita a bugnato, all'esterno della cella campanaria. La lunga parte inferiore del campanile mostra i quattro angoli in rilievo, giù, giù fino al primo cornicione al basso, sotto il quale la costruzione termina col bugnato. L'artefice incoronò i quattro angoli, in alto, con modanature al modo che apparissero quattro enormi colonne quadre, come vogliono esibire di essere infatti è evidente il capitello ionico accennato, con le volute e la trabeazione.
Infine aggiungo, se può interessare, che nel muro interno, a circa dieci metri dalla base, sono ancora visibili una trentina di grandi fori cilindrici, profondi circa sessanta centimetri, col diametro di una quindicina.
Il povero campanile, ottima torre di osservazione, poteva essere minato e distrutto alla svelta, in caso di ritirata durante la guerra. Ma che ci andavo a fare sul campanile?
Qualche volta, per rimettere a posta la fune di una delle quattro campane minori la quale, girando, aveva superata, in alto, lo slancio perché suonata con troppa energia da qualche forzuto..
Andavo pure per effettuare il grassaggio ai grossi cuscinetti delle campane. Maggior soddisfazione avevo "dal fare il campanò" nel tempo delle grandi feste:
"esclusa l'enorme S. Vigilio", bisognava prima imbrigliare il battaglio can delle cardicelle, che, nel modo dovuto, si riunivano poi e si fissavano per venire azionate con le mani e con i piedi.
Dopo aver approntato ogni cosa, seduto presso la balaustra a nord, da dove l'occhio spaziava per creste di monti, insenature di convalli e paesi sparsi, iniziava la solita nenia di rintocchi che avevo appresa da mia fratello.
Provavo anche qualche variazione "melodica" per quanto fosse passibile con quattro note, o per meglio dire, tocchi senza durata né volume.
Una volta, dopo quelle faccende, volli scalare il castelletto di travi su, su fino a uno dei quattro finestroni quadrilobi (quello ad est).
Quivi giunto, emozionato sogguardai il piccalo tetto della canonica, giù in fondo e, più su, lì vicino a me, il grande pinnacolo e il largo cornicione il quale, padrone del vuoto, mi sembrava minaccioso, perché avevo violato il suo dominio solitario (esclusi gli uccelli)!
Ma il batticuore si calmò per lasciare il pasta alla tentazione.
Piano, piano, studiando e calcolando bene la via scesi adagino fino a metter piede sul cornicione. Azzardai alcuni passi cauti, poggiando la destra al muro, e avanzai fino al pinnacolo di sud-ovest; ma qui non ebbi il coraggio di proseguire e di affrontare, con la sguardo di lassù, la profondità della valle versa S. Anna;
come se, inoltrando, dovessi uscire dal campo elettromagnetico di protezione del paesello e del focolare.
Così rifeci pianino il cammino inverso, finché raggiunsi il castelletto, tirando un profondo respiro;
scesi ringraziando Iddio e, dopo la lunga scalinata, rimisi piede sulla terraferma. Naturalmente non feci parala can nessuno, chè non venisse a saperlo la mamma...
Come del fatto che, un'altra volta, poco sopra la base del campanile, avevo scoperto un'apertura che conduce al sottotetto della chiesa, sopra la grande volta fino all'abside e al foro dal quale, sopra l'altar maggiore, scendeva la fune che sosteneva il grande padiglione rosso, aperto e ampio, al dorso dell'altare, nel tempo delle solennità.
Concerto in piazza.
Una novità animò il paese in un periodo estivo nei primi anni venti. Dal Passo arrivava un battaglione di soldatini autatrasportati al "campo estivo".
Trapestio insolito, richiami, ordini, motori fumanti e fragorosi. Donne sulle porte di casa, ragazzi e ragazze in giro a curiosare.
Dentro quelle giubbe di tela, abbottonate fino al pomo d'Adamo, c'erano figli o fratelli minori, forse, di quelli che riposano le aride spoglie nell'Ossario del Pasubio. Oh, sapienza umana!
E dove si attendarono se non nel bel prato, unico, grande, tutto piano, di fronte al "Maso"? (verso Speccheri) Nonché nelle piazzole ombrose sparse nel boschetto circostante? Un insolito vivai animò il paese e la mulattiera di Speccheri.
Le ragazzette della fiorente età uscirono dal torpore e, come non mai, si diedero un po' di riordino generale: le treccette e tutto il resto.
Si agghindavano come potevano, senza dar troppo nell'occhio a mamma. Già erano stati notati ufficialetti, sottufficiali e soldati più belli.
A chi si lamentava di qualche danneggio ai terreni, si ricordava che la truppa dava pure un po' di commercio al paese.
Il battaglione aveva una discreta fanfara, la quale dava concerto in piazza, qualche sera, o di festa, offrendo un diporto insolito a grandi e piccini.
Io stavo sempre appresso a un alto, simpatico suonatore di trombone-basso, dall'enorme padiglione; egli mi spiegava il funzionamento dei pochi pistoncini con i quali produceva profondi e potenti barriti.
Il reparto disponeva di due autocarri, posteggiati in piazza; gli altri, che avevano trasportato il reparto, erano tornati al loro centro.
Avevo visto che, talvolta, un motore riottoso non voleva avviarsi. Allora l'autiere, molto spazientito ma pure molto, troppo espressivo, sollevava un'ala del cofano e, da un piccolo rubinetto, spillava un tantino di benzina nel coperchietto del radiatore.
Quindi apriva una o due valvoline sulla testa dei cilindri e vi instillava alcune gocce della benzina. Chiuso il tutto, con pochi ma faticosi giri di manovella, metteva subito in moto il motore che si risvegliava, tossicchiando.
Nel piccolo rustico, costruito nell'orto di casa mia, aveva preso domicilio e "luogo di produzione" il venditore meridionale di perecotte, noccioline e di "crapfen" che preparava in un grande padellone posto sopra un fornelletto mobile.
Il profumo di olio fritto e di vaniglia mi richiamava, da casa, all'insolito spettacolo, che finiva con il regalo di un "crapfen" fumante, delizioso, ben zuccherato. Il "pasticciere" disposta la merce su un largo cestellone, andava al reparto, che seguiva come un'ombra, dappertutto.
Dopo due settimane, il battaglione levò le tende, lasciando il paese più tranquillo, ma con un po' di rincrescimento da parte dei giovani. Ci fu subito un sopralluogo al prato desertificato, alla ricerca di chissà che cosa, dimenticata.
Qualche bazzecola si trovò pure, ma anche qualche rifiuto, inservibile.
Qui faccio un'aggiunta, a proposito della "sudata" manovella d'avviamento-motore, la quale poteva anche regalare qualche frattura a un autiere inesperto, complici i contraccolpi di un pistone.
Noto che a quel tempo, non era stato ancora applicato agli autocarri il motore diesel a nafta, realizzato al principio del secolo dal tedesco omonimo. Applicato solamente sui primi grossi autocarri "Lancia Ro" e "3 Ro", veniva messo in moto da un macchinario a ingranaggi e dischi, per forza d'inerzia.
L'autista, un po' alla volta, sempre con la manovella, lo portava a buona velocità. Azionava quindi una levetta e collegava l'alberino del macchinario a quello del motore.
Il soggiorno di quegli ospiti insoliti mi richiama alla memoria un fatto non lieto, ma non legato a loro. Devo premettere che la affezionata famiglia dei miei secondi cugini abitava ancora ai Martini, perché non era stata ultimata la ricostruzione della loro abitazione, unita di fianco alla mia, pari, pari, con ingresso comune.
Seppi dunque da mia madre rattristata, che il cugino più giovane si era ferito gravemente in modo strano. A Piano, in qualche posto e per chissà quale motivo, si era arrampicato su un
paletto di ferro, appuntito. Residuo bellico, per sostenere i reticolati; torto in due o tre anelli. Purtroppo il cugino scivolò, a un tratto, per finire, con l'inguine, sopra la punta insidiosa.
Fu trasportato all'ospedale, presto, come era possibile allora. Per fortuna, la ferita non risultò troppo profonda. Ecco! Quel mastino feroce della guerra, anche dopo la sua fine, aveva voluto graffiare ancora!
Non furono pochi i mutilati e i morti fra le persone addette al ricupero di residuati bellici. Che fruttavano qualche soldo; come la preziosa raccolta di "ossi, straze, feri veci!" (Così gridavano per le strade gli specialisti del ramo; anche nelle città).
El caregheta.
Tutto un fianco, al piano terra, del rustico presso casa mia, era stato adibito a deposito di fogliame secco di faggio, usato come lettiera per gli animali della stalla (inquilini illustri) e contenuto in una specie di ampio cassone alto mezzo metro: un bel letto a diverse piazze.
Mio padre, chiacchierone, curioso, di buon cuore, dava volentieri ospitalità a viandanti, piccoli artigiani (con tanti calli e pochi quattrini) e a venditori ambulanti.
Una volta, si fermarono, per qualche giorno, due "caregheti" del vicentino, i quali installarono la attrezzatura nell'andito acciottolato, al pianterreno di casa.
Fabbricavano sedie o impagliavano quelle vecchie, secondo l'ordine ricevuto, dopo averle raccolte nel paese che avevano percorso ripetendo ad ogni angolo il grido: "EI caarreghettaa!!" (con voce stranamente dolcificata)
I due lavoravano seduti affiancati. Uno di loro preparava i vari elementi della sedia; poi li assemblava, oppure sostituiva qualche pezzo rotto delle sedie vecchie.
Scelto il legno di faggio, frassino, quercia, lo lavorava a dovere e lo incorporava, fisso, agli altri, finchè la nuova sedia era pronta all'impagliatura. Il suo banco di lavoro (se si può dire così) era formato da una asse grossa poggiata, a piano inclinato, su quattro piedi: più alta verso il lavorante.
Egli, con una specie di morsa, azionata dai piedi, imprigionava il legno che poteva venir spostato o rivoltato secondo la lavorazione. Con una grossa lama tagliente, munita di manico alle due estremità, assottigliava e modellava i legni, secondo la destinazione, finchè la sedia era pronta a passare nel reparto impagliatura.
Qui, il nostro "tessitore" si impadroniva della scranna svestita. Da un grosso fascio di falasco palustre, o corice, o sala, tirava fuori, in giusta misura, un mazzetto di quei lunghi fusti a lama sottile, dai bordi seghettati e taglienti;
con destrezza li attorcigliava stretti e cominciava ad avvolgerne il sedile, come lui bene sapeva fare, svelto: sopra, sotto, avanti, indietro, destra, sinistra, dentro, fuori e la seggiola girava e danzava leggera fra quelle mani abili e robuste, dalla pelle dura, smerigliata.
Ma io non capivo come facesse a non tagliarsi la pelle con quell'erba affilata. Infatti, curiosando e toccando, mi ero procurato un taglietto al polpastrello e succhiavo.
L'uomo, sogguardando seccato, fece con voce nasale irritata: "Mah, sta' atento, ciò! Te `o ja dito, che `è taia `a pèé come n cortéo! E lasa stare, aah!" (Ti ho già detto che tagliano la pelle come un coltello!)
Io me ne andavo mogio, mogio.
Luigi Raoss
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