Al Segretario di Stato Colin L.
Powell
Atene, 27 febbraio
2003
Caro Segretario,
Le scrivo per presentarle le mie
dimissioni dal servizio diplomatico degli Stati Uniti e dal mio incarico
di consigliere politico dell’Ambasciata Usa di Atene, a decorrere dal 7
marzo. Lo faccio con il cuore pesante. Il bagaglio della mia formazione
comprendeva un sentito obbligo di restituire qualcosa al mio paese.
Prestare servizio come diplomatico Usa era un lavoro da sogno. Venivo
pagato per capire lingue e culture straniere, per incontrare
diplomatici, politici, studiosi e giornalisti, e per convincerli che gli
interessi degli Stati Uniti e i loro fondamentalmente coincidevano. La
mia fede nel mio paese e nei suoi valori era l’arma più potente nel mio
arsenale diplomatico.
E’ inevitabile che in vent’anni
con il Dipartimento di Stato io diventassi più sofisticato e cinico sui
motivi burocratici limitati ed egoisti che hanno definito a volte le
nostre politiche. La natura umana è quella che è, e io sono stato
ricompensato e promosso per aver capito la natura umana.
Ma fino a questa Amministrazione
era stato possibile credere che sostenendo le politiche del mio
presidente io sostenevo anche gli interessi del popolo americano e del
mondo. Non lo credo più.
Le politiche che adesso ci viene
chiesto di promuovere sono incompatibili non solo con i valori americani
ma anche con gli interessi americani. Il nostro inseguire con fervore
una guerra con l’Iraq ci sta portando a dissipare la legittimità
internazionale che è stata l’arma –sia di offesa che di difesa - più
potente dell’America fin dai tempi di Woodrow Wilson. Abbiamo iniziato a
smantellare la più grande e più efficace rete di relazioni
internazionali che il mondo abbia mai conosciuto. La nostra strada
attuale porterà instabilità e pericolo, non sicurezza.
Sacrificare interessi globali a
politiche interne ed egoismo burocratico non è nulla di nuovo, e
certamente non è un problema solamente americano. Tuttavia, non avevamo
visto una tale distorsione sistematica dell’intelligenza, una tale
manipolazione sistematica dell’opinione americana dalla guerra del
Vietnam. La tragedia dell’11 settembre ci ha lasciato più forti di
prima, radunando attorno a noi una vasta coalizione internazionale a
cooperare per la prima volta in un modo sistematico contro la minaccia
del terrorismo. Ma, piuttosto che prendere il merito di questi successi
e partire da essi, questa Amministrazione ha scelto di fare del
terrorismo uno strumento di politica interna, arruolando una al Qaida
sparpagliata e ampiamente sconfitta come suo alleato burocratico.
Abbiamo disseminato terrore e confusione sproporzionati nella mente del
pubblico, facendo un collegamento arbitrario fra i problemi che non
hanno alcun rapporto fra loro del terrorismo e dell’Iraq. Il risultato,
e forse il motivo, è quello di giustificare un’ampia assegnazione
impropria di ricchezza pubblica in diminuzione all’esercito e di
indebolire le tutele che proteggono i cittadini americani dalla mano
pesante del governo. L’11 settembre non ha fatto tanto danno alla
struttura della società americana quanto noi siamo determinati a fare a
noi stessi.
E’ la Russia dei Romanov
realmente il nostro modello: un impero egoista, superstizioso che si
agita verso l’autodistruzione in nome di uno status quo
condannato?
Dovremmo chiederci perché non
siamo riusciti a convincere una parte maggiore del mondo della necessità
di una guerra contro l’Iraq. Negli ultimi due anni abbiamo fatto troppo
per asserire ai nostri partner mondiali che interessi ristretti e
mercenari degli Stati Uniti calpestano i valori prediletti dei nostri
partner. Anche laddove i nostri fini non sono in discussione, lo è la
nostra coerenza. Il modello dell’Afghanistan è di scarso conforto per
alleati che si chiedono su che base intendiamo ricostruire il Medio
Oriente, e a immagine e interessi di chi. Siamo davvero diventati
ciechi, come lo è la Russia in Cecenia, come lo è Israele nei territori
occupati, secondo il nostro consiglio, sul fatto che una potenza
militare schiacciante non è la risposta al terrorismo? Dopo che le
stragi di un Iraq post-bellico si uniranno a quelle di Grozny e di
Ramallah, ci vorrà uno straniero coraggioso che si allinei con la
Micronesia per seguire la strada che indichiamo.
Abbiamo ancora una coalizione,
una buona. La lealtà di molti dei nostri amici è impressionante, un
omaggio al capitale morale americano accumulato in oltre un secolo. Ma i
nostri più stretti alleati sono meno persuasi della giustificazione per
una guerra che del fatto che sarebbe rischioso permettere agli Usa di
lasciarsi trasportare in un completo egocentrismo. La lealtà dovrebbe
essere reciproca.
Perché il nostro presidente
condona l’approccio borioso e sprezzante verso i nostri amici e alleati
che questa amministrazione sta promuovendo, anche fra i suoi più alti
funzionari? "Oderint dum metuant" è davvero diventato il nostro
motto?
Vi esorto ad ascoltare gli amici
dell’America nel mondo. Anche qui in Grecia, preteso terreno di coltura
dell’anti-americanismo europeo, abbiamo più amici e più stretti di
quanto il lettore di giornali americano possa immaginare. Anche quando
si lamentano dell’arroganza americana, i greci sanno che il mondo è un
posto difficile e pericoloso, e vogliono un sistema internazionale
forte, con gli Usa e l’UE in stretta partnership. Quando i nostri amici
hanno paura di noi piuttosto che per noi, è tempo di preoccuparsi. E
adesso hanno paura. Chi dirà loro in modo convincente che gli Stati
Uniti sono, come erano, un faro di libertà, sicurezza, e giustizia per
il pianeta?
Signor Segretario, ho un enorme
rispetto per il suo carattere e la sua abilità. Lei ha preservato per
noi più credibilità internazionale di quanto meriti la nostra politica,
e ha salvato qualcosa di positivo dagli eccessi di una Amministrazione
ideologica ed egoista. Ma la sua lealtà verso il presidente si spinge
troppo oltre. Stiamo sforzando al di là dei suoi limiti un sistema
internazionale che abbiamo costruito con tanta fatica e ricchezza, una
rete di leggi, trattati, organizzazioni e valori condivisi che pone dei
limiti ai nostri nemici molto più efficacemente di quanto abbia mai
limitato la capacità dell’America di difendere i propri
interessi.
Mi dimetto perché ho provato e
non sono riuscito a riconciliare la mia coscienza con la mia capacità di
rappresentare l’attuale Amministrazione americana. Ho fiducia nel fatto
che il nostro processo democratico alla fine si correggerà da solo, e
spero che in modo modesto potrò contribuire dall’esterno a definire
politiche che servano meglio la sicurezza e la prosperità del popolo
americano e del mondo che condividiamo.
John Brady
Kiesling
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