26/04/03




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Il modello alpino
L'analisi - di Geremia Gios


Frequentemente, quando si parla di montagna, compare una nota di rimpianto per un mondo che è stato e non è più, per un modo di vivere ritenuto a misura d'uomo, per dei valori considerati importanti e che si ritiene siano andati perduti. A differenza di quanto avviene in altre aree o in altri settori, il mutamento viene considerato equivalente ad un peggioramento. Prevale il desiderio di conservare anche se, molte volte, non sono ben chiare le strategie necessarie per arrivare allo scopo. In altri termini è diffusa la sensazione che la civiltà alpina abbia raggiunto un proprio culmine in un non meglio precisato passato e che da quel momento in avanti non vi possa essere che un peggioramento.
Vi sono molti indizi relativi al fatto che questa visione pessimistica quasi fatalistica dei problemi della montagna, si fa strada e si consolida in un periodo storico in cui il ruolo della montagna si fa riducendo fino a diventare, in molti casi, trascurabile. L'indicatore più semplice di tale evoluzione è l'andamento demografico.
Anche se nell'ultimo secolo vi sono aree delle Alpi in cui si assiste ad aumenti della popolazione prevalgono di gran lunga le zone in cui questa diminuisce. Va subito osservato che non è la prima volta che la popolazione residente nelle aree montane si riduce, vuoi in termini assoluti vuoi in relazione a quella residente in altre aree.
Si assiste, infatti, nelle Alpi come in altre aree geografiche a fluttuazioni cicliche per cui, sotto il profilo demografico a periodi di contrazione ne seguono altri di espansione e viceversa. Tali andamenti sono collegati con due grandi fattori: i posti di lavoro in loco ed il livello di qualità della vita.
Risulta in particolare interessante osservare come le epoche di forte incremento della popolazione corrispondono a periodi in cui sotto il profilo economico, la civiltà alpina ha saputo produrre modelli originali, nel mentre le epoche in cui si assiste ad una contrazione dei residenti sono quelle in cui, dal punto di vista economico e sociale, vi è un'imitazione dei modelli sviluppatesi altrove. Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio le caratteristiche dei modelli di sviluppo di successo. Tuttavia almeno un elemento va richiamato. Tale elemento è costituito dall'idea di limite. In proposito si può osservare che, da un certo punto di vista, l'idea di limite rappresenta l'essenza stessa della vita in montagna. Nelle valli è limitato l'orizzonte, vi sono limiti altitudinali per le diverse coltivazioni, vi è un limite fisico alla possibilità di scambi anche fra aree che in linea d'aria sono estremamente vicine e via di questo passo. Orbene si può sostenere che quando si è riusciti a trasformare i limiti in opportunità c'è stato sviluppo, mentre quando gli stessi sono stati trasformati, per ragioni tecniche e /o culturali in vincoli assoluti vi è stata stagnazione. Così, ad esempio, l'esser riusciti ad utilizzare i limiti derivanti dagli inverni rigidi e nevosi, in funzione della pratica degli sport invernali, ha portato allo sviluppo turistico di molte zone delle Alpi. Per contro quando i limiti orografici, climatici e sociali non hanno costituito un punto di partenza per un percorso innovativo, ma si sono trasformati in un vincolo sentito a torto o ragione come immodificabile, è puntualmente arrivato il declino demografico, economico, sociale.
Per molti nostri contemporanei, in realtà, nella società attuale ed ancor più in quella futura non esiste alcun limite che non possa esser agevolmente superato. Se così è, la montagna in quanto tale è superata in conseguenza della "visione del mondo" che la stessa invoglia ad adottare ancor prima che sotto il profilo demografico, economico e sociale. Ed allora la nostalgia della"montagna" del passato è un vuoto rimpianto di valori privi di senso. Valori che sono solo di inciampo per le "magnifiche sorti e progressive" che sicuramente ci attendono. Ciò che conviene fare allora non è nient'altro che cercare di eliminare il più in fretta possibile qualsiasi differenziazione, omologando dal punto di vista sociale, economico e per quanto possibile anche dal punto di vista fisico, la montagna alle vicine pianure.
Ci si può chiedere, tuttavia, se sia veramente così. Se l'inquietudine, che talvolta assale improvvisa di fronte ai mutamenti per certi versi sconvolgenti cui assistiamo quotidianamente, sia solo un residuo del passato o non rappresenti anche un presentimento di ciò che potrebbe accadere in un futuro assai più vicino di ciò che sarebbe, forse, auspicabile. Quest'idea nasce dalla constatazione, ovvia ma non banale, che comunque la terra è un sistema finito, le stesse capacità dell'uomo sono finite, che molte scelte sono irreversibili e quindi, nonostante tutto, le probabilità di incontrare limiti comunque invalicabili in un dato periodo di tempo aumentano di giorno in giorno.
Se così è non vi è, allora, dubbio che è proprio nelle aree in cui i limiti sociali, ambientali ed economici sono più evidenti, vale a dire nelle zone di montagna, che possono essere sviluppate prima che altrove soluzioni atte a garantire un tipo di sviluppo equo e duraturo. Certo questo non è né un risultato scontato nè un obiettivo facilmente raggiungibile, ma le opportunità in questo senso sono probabilmente maggiori, nonostante le apparenze, oggi di qualche decina di anni fa.
Vi è una condizione perché ciò sia possibile. E' necessario per le comunità locali avere la possibilità e la capacità di darsi regole adeguate. Questo non in un'ottica di chiusura o di localismo, ma di salvaguardia delle specificità e di miglioramento dell'efficienza complessiva. Un piccolo esempio può essere illuminante in proposito. E' noto come il burro migliore sia quello ottenuto in malga. Se fatto bene conserva il profumo degli alti pascoli e non è che un lontano parente del burro normale ottenuto centrifugando latte e siero. Orbene oggi il burro di malga è fuorilegge. Una normativa della Unione europea ne vieta la vendita in quanto ottenuto da panna non pastorizzata.
Tale norma ha uno scopo igienico e risulta ragionevole se il burro è ottenuto in aree relativamente calde, ma in malga è già la freschezza del clima che impedisce lo sviluppo di germi patogeni. Allora o si riesce a modificare una norma che nelle specifiche condizioni alpine non ha alcun significato o produrre e vendere burro nettamente migliore di quello usualmente in commercio sarà un reato. Va da sé che è possibile vivere (magari con un po' di sapore in meno) anche senza il burro di malga, ma se l'esempio viene trasferito ad altri e più rilevanti problemi si vede facilmente quale può essere, attualmente, l'ostacolo maggiore ad una rivitalizzazione della montagna.
Rivitalizzazione che, per quanto sopra osservato, è utile non solo per chi in montagna vive, ma per l'intera società contemporanea ed anche per le generazioni future.




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